Telegiornaliste anno II N. 24 (56) del 19 giugno 2006
Jim Lee: un grande del fumetto americano si racconta di
Gisella Gallenca
«Disegno fumetti, ma sono andato al college», così si
presenta Jim Lee, uno tra i fumettisti americani più
conosciuti del mondo. «Ho una laurea in psicologia, ma volevo fare il
mestiere che ho sempre amato. Così, quando avevo 21 anni, ho messo insieme
un po’ dei miei lavori e sono andato a una convention a New York. Ho
mostrato i miei disegni a un editor. Gli sono piaciuti e mi ha dato un
lavoro nel campo dei fumetti».
Lo abbiamo incontrato nel backstage di
Mantova Comics & Games, la prima edizione di un evento appena nato, ma
già di successo (più di 10.000 visitatori in soli tre giorni).
Jim ha risposto a tutti i nostri interrogativi con molta disponibilità. E
con un tocco di humor.
Psicologia e fumetti. Sono due ambiti distanti… o no?
«Sì, però le cose studiate all’università hanno anche
trovato un’applicazione nei fumetti. Quando conosci la psicologia, capisci
le motivazioni, il linguaggio del corpo, le reazioni delle persone… è utile
specialmente per quanto riguarda Batman, dove i cattivi sono spesso
pazzi! Insomma, non penso che sia necessario essere psicologi per disegnare
fumetti, però aiuta».
Tu sei coreano, hai vissuto negli Stati Uniti, ma ami
molto l’Italia. Quali aspetti di queste tre culture si possono trovare nei
tuoi fumetti?
«Ho vissuto in Corea solo per cinque anni. Ma sono
americano al 90%. Mi piace il cibo, e quello coreano è il mio preferito…
mi dà una carica, specialmente quando ho delle scadenze e devo lavorare
duro! Fumettisticamente, però, sono influenzato soprattutto dall’America,
perché disegno supereroi, personaggi che rispecchiano molto la
mentalità americana: una sorta di cowboy coi superpoteri. Sono personaggi
molto individualisti che sanno prendere in mano la situazione, e questo è
molto americano. L’Italia, invece, mi piace perché i fumetti che
produciamo non sono solo fatti per guadagnare soldi, ma per far divertire la
gente. E gli italiani sono persone che amano divertirsi con gli altri e
costruire relazioni sociali, e questo è importante».
Cosa pensi dei fumetti italiani?
«Tutte le volte che vengo qui, incontro nuovi artisti che
lavorano per la
Bonelli, quindi conosco sempre meglio questi personaggi. Ad ogni modo,
penso che Milo Manara sia il primo fumettista europeo e italiano che
ho scoperto, diciassette anni fa. Mentre ero a Siena in viaggio di
nozze, ho comprato un suo fumetto in libreria. Mi è piaciuto, e diversi
elementi del suo tratto hanno influenzato il mio lavoro. Anche Alessandro
Barbucci è molto bravo. Poi Gabriele dell’Otto, Giuseppe
Camuncoli… sono tutti fantastici! Il loro lavoro ha relazioni con i
fumetti degli anni Sessanta, e, ancora più lontano, con i maestri della
storia dell’arte. Nel lavoro degli artisti americani è difficile stabilire
un legame, per esempio, con Michelangelo».
Com'è il tuo rapporto con i fan e quale è il disegno più
strano che ti è capitato di regalare a uno di loro?
«Incontro i fan soprattutto alle convention che si
tengono in tutto il mondo: Australia, Giappone, Italia… Non mi succede quasi
mai di regalare disegni particolarmente strani, anche perché di solito mi
chiedono sempre gli stessi soggetti. Ma qualche volta mi chiedono di
ritrarre i personaggi insieme a loro o sulle loro macchine, e questo mi
rende un po’ nervoso… Comunque i fan sono sempre grandi, indipendentemente
dalla lingua che parlano».