Telegiornaliste anno IV N. 32 (157) del 15
settembre 2008
Darfur,
progetti al femminile
di Erica Savazzi
«Il conflitto in Darfur non è ancora
risolto. Le poche risorse naturali, terre
fertili, pascoli e fonti d’acqua sono spesso
cause di scontri tra le varie tribù. La
situazione resta instabile anche
grazie al moltiplicarsi di gruppi armati che
commettono atti di banditismo sia sulla
popolazione locale che sugli operatori umanitari
delle organizzazioni internazionali».
Africa, Sudan, Darfur. Una regione in guerra da
sei anni, milizie governative contro i ribelli e
tribù contro tribù. Abbiamo intervistato chi in
Darfur ci lavora, per cercare di aiutare la
popolazione civile, vittima di un conflitto che
non accenna a risolversi. Prisca Benelli e Micol
Picasso lavorano per
Intersos, ONG presente
nella regione dal 2004, rispettivamente come
Responsabile di Programma UNHCR e Darfur
Coordinator.
Di che cosa vi occupate in particolare?
«Attualmente stiamo lavorando su un progetto in
collaborazione con l’Alto commissariato delle
Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR). In
pratica, stiamo operando nei villaggi remoti di
tutta l’area servita nelle nostre basi (la
provincia di Habila e del Wadi Salih) con
interventi basati sui bisogni della comunità.
Centri per giovani e donne, ma anche
infrastrutture per l'educazione, per l’acqua,
sostegno all'agricoltura, supporto alle fasce
più vulnerabili della popolazione e
realizzazione di campagne di sensibilizzazione
su tematiche specifiche, come ad esempio le
corrette pratiche igieniche. Inoltre dal 2004
stiamo monitorando la situazione di circa 600
villaggi, oltre a campi di rifugiati ciadiani e
di sfollati interni. È un lavoro di profiling
per raccogliere dati sulla popolazione e i suoi
bisogni, dati che vengono resi disponibili alle
agenzie e organizzazioni umanitarie attive nella
zona su una apposita
piattaforma internet e che servono per avere
un quadro completo della situazione e
identificare meglio i bisogni. Infine, stiamo
implementando progetti di scolarizzazione e di
costruzioni di scuole in collaborazione con
l’Unicef, programmi per la sicurezza alimentare
in collaborazione con la Fao e, in passato,
abbiamo collaborato con la Cooperazione italiana
e l’Unione Europea».
E la popolazione locale?
«La comunità è direttamente coinvolta negli
interventi. Noi forniamo i materiali e
sosteniamo le attività che poi sono realizzate e
gestite direttamente dai beneficiari».
Vi rivolgete a donne e giovani tramite degli apposti centri. In cosa consiste
la loro attività?
«Il senso dei nostri centri è molteplice. Da un
lato, i centri rappresentano uno spazio sociale,
di riunione e di discussione, in un contesto di
conflitto che ha distrutto le reti sociali
tradizionali su cui si basava la vita
dell’individuo. Ma è anche uno spazio per
organizzare dei corsi e sviluppare competenze
professionali. Nei centri per i giovani ci sono
corsi per fabbri, per falegnami. Nei centri per
le donne si insegna a fare il sapone, a fare il
pane, a realizzare oggetti artigianali. Inoltre,
in quasi tutti i centri si svolgono lezioni di
alfabetizzazione per adulti. Col doppio scopo di
ristabilire le relazioni vitali per una comunità
e di rendere possibile una forma di reddito
indispensabile per l’autosufficienza e una
ricostruzione basata su forze locali».
Luoghi di formazione e di incontro, quindi.
«Anche di aiuto reciproco. La comunità
all'interno dei centri crea meccanismi di
supporto per i suoi componenti più vulnerabili:
spesso ci sono centri per bambini, simili a
degli asili autogestiti, e vengono messe in
pratica, anche con il nostro supporto, delle
strategie specifiche di sostegno a categorie di
persone con particolari difficoltà. Per fare
degli esempi, in uno dei nostri centri, a
Garsila, una volta al mese viene organizzato un
grande evento, una sorta di festa a cui la
comunità è invitata a partecipare e viene
offerto da mangiare gratuitamente alle persone
più povere o malate, non indipendenti; in un
altro centro, a Umkher, le donne si impegnano a
turno per assistere gli anziani della comunità;
a Forobaranga, infine, nella classe di saldatura
vengono realizzate delle sedie a rotelle che poi
vengono distribuite ai disabili. Così i centri
diventano un vero e proprio network sociale
all’interno dei villaggi».
Qual è l'importanza di rivolgersi a donne e giovani?
«Rivolgersi alle donne e ai giovani è
fondamentale: da un lato, perché sono elementi
particolarmente fragili sia strutturalmente -
nella civiltà e cultura del Darfur - che come
vittime della crisi; dall'altro, perché
contengono una capacità particolare e intrinseca
di rinnovamento e allo stesso tempo di
trasmissione delle conoscenze acquisite. La
donna è il centro della famiglia: in un contesto
di guerra, solo chi è da sempre il custode delle
tradizioni può cercare di normalizzare gli
schemi di riferimento familiare e sociale che
sono rimasti sconvolti dalla violenza. Ma allo
stesso tempo le donne si occupano dell’economia
domestica, raccolta dell’acqua, lavori agricoli,
raccolta della legna. Noi cerchiamo di
introdurre meccanismi più efficienti e meno
rischiosi per questo tipo di lavori, e ci
rivolgiamo a loro per far passare anche messaggi
relativi alla salute e all’igiene».
Una osservazione su voi operatori: diversamente da quanto si potrebbe pensare
– soprattutto dato il luogo della missione – il
vostro staff è molto al femminile...
«È vero. Sempre di più si nota un'elevata
presenza femminile in questo settore. Da un lato
questo può essere ricondotto al fatto che nella
divisione dei ruoli, tradizionalmente, le
mansioni di cura sono un'incombenza femminile,
pensiamo alle infermiere, alle assistenti
sociali. D'altra parte, è un dato anche
abbastanza sorprendente: questo lavoro, che pure
è uno dei più belli del mondo, è molto duro e
richiede un sacco di rinunce. Per una donna è
molto difficile conciliare una carriera
soddisfacente in questo campo e una vita
familiare ed affettiva piene. Ma noi ci
proviamo!».
Le donne sono più brave?
«Questo lavoro richiede grandissima
professionalità e dedizione; siamo orgogliose di
vedere molte colleghe delle grandi
organizzazioni o delle Nazioni Unite ottenere
incarichi di responsabilità, e sebbene come in
molti campi i posti chiave siano ancora
prerogativa maschile, crediamo che ci sia più
fiducia ad affidare a una donna incarichi
operativi delicati piuttosto che a un uomo».