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Intervista a Rita Guarino tutte le interviste
Rita GuarinoTelegiornaliste anno II N. 36 (68) del 9 ottobre 2006

Intervista a Rita Guarino di Mario Basile

«Il calcio ha rappresentato un’esperienza di vita, un percorso di crescita, un terreno fertile sul quale sperimentarmi ed esprimermi. Nel mio sito internet, RitaGuarino.com, scrivevo che la visione che ho del calcio e dello sport in generale è simile ad un grosso teatro, dove gli attori inscenano drammi di vita quotidiana assaporando gioie, accettando sconfitte e prendendo coscienza delle molte contraddizioni. Ed è per questa ragione che nello sport, a mio parere, si crea quello spazio educativo ed emotivo che ci aiuta a crescere e ci prepara alla vita, offrendoci la possibilità di sperimentarci dentro confini protetti». Risponde così, Rita Guarino, a chi le chiede cosa ha dato il calcio alla sua vita.

Attaccante dal grande fiuto del gol, secondo gli esperti è stata una delle più grandi giocatrici italiane. La sua carriera si è chiusa quest’estate, sedici anni dopo l’esordio in A con la maglia della Juventus. Sei anni prima invece, sempre in maglia bianconera, era arrivato l’esordio assoluto. Adesso Rita insegna calcio ai ragazzi del Torino.

Un mondo complicato quello del calcio giovanile, dove i ragazzi molto spesso, caricati di grosse responsabilità dai propri cari, perdono il gusto di divertirsi giocando. «Questo è un tema molto delicato e controverso. Purtroppo non riguarda solo il calcio, ma coinvolge tutto lo sport giovanile. Secondo un dato Istat del 2000, circa la metà dei ragazzi e delle ragazze tra gli undici e i quattordici anni che praticano un’attività sportiva, abbandonano intorno ai diciotto anni. Questo fenomeno, che si chiama drop out, è causato da vari fattori, come le crisi adolescenziali, le difficoltà scolastiche, la monotonia degli allenamenti, ma soprattutto la mancanza di divertimento».

«E’ mio parere - prosegue Rita - che, specialmente per chi lavora nei settori giovanili, uno degli obiettivi principali nei programmi di allenamento sia quello di sviluppare e mantenere un livello elevato di desiderio nella partecipazione alle attività, insieme ad una migliore gestione e informazione rivolta alle famiglie sugli effetti positivi dello sport orientato alla crescita personale e non alla vittoria a tutti i costi».

Un compito decisamente arduo quello dell’allenatore. Conquistare la fiducia di un gruppo non è semplice. Figuriamoci se una donna si trovasse a guidare una squadra maschile. Ne sarebbe capace? «Da un punto di vista “meritocratico” le donne potrebbero sicuramente assumere ruoli guida all’interno di team maschili, ma in termini pratici questa possibilità viene negata a priori. A tale proposito Salvini, nel 1982, scrisse: Quando si voglia giustificare l’inferiorità sociale di un gruppo umano si ricorre all’espediente di invocare la naturalità di tale condizione».

Rita Guarino è anche una psicologa. E nello sport, si sa, l’approccio mentale è alla base di tutto. Un’eccessiva pressione può essere fatale. Viene da chiedersi, però, se uomini e donne la vivano allo stesso modo. «In passato sono stati effettuati diversi studi al riguardo - ci dice Rita. La pressione sportiva, correlata al concetto di stress, causa ansia da prestazione che si può manifestare sottoforma di ansia, insicurezza, e talvolta palpitazioni e tachicardia. Alcune ricerche hanno dimostrato che le donne sono più inclini alla paura di perdere, in quanto la previsione di un possibile insuccesso comporta sempre il timore di una ferita narcisistica, una diminuzione dell’autostima e una svalutazione sociale. Più di quanto non accada negli uomini».

Riprendiamo il tema “calcio femminile”: una disciplina che in Italia cerca a tutti costi di guadagnare visibilità. Secondo Rita «nel nostro Paese il calcio femminile può migliorare dappertutto. Devono farlo la federazione, le società, i dirigenti, gli staff tecnici, le atlete. Come? Non lo so, ma provocatoriamente potrei azzardare delle ipotesi: importando nuovi concetti, nuove metodologie, nuovi strumenti operativi ma soprattutto nuove risorse umane da altri sport o da altre nazioni, un tempo considerati minori e che oggi si possono definire all’avanguardia. Manca la cultura sportiva, ma questo non solo nel calcio femminile. Un altro modo è quello di rendere obbligatorio, alle società professionistiche, il settore giovanile femminile e almeno una squadra iscritta ad un campionato nazionale».

Qualche tempo fa Gaucci voleva ingaggiare una donna per farla giocare nel campionato maschile col suo Perugia.
«Perché mai una donna dovrebbe giocare a calcio con gli uomini? Non possiamo neanche parlare di pari opportunità in quanto le donne, “morfologicamente” meno forti, partirebbero svantaggiate. Direi fantascienza allo stato puro, è evidente, in questo caso, la strategia strumentalizzante e manipolativa costruita a scopo pubblicitario».

Un calcio, quello dei colleghi uomini, che in Italia sta attraversando un momento delicatissimo: «Gli eventi degli ultimi mesi hanno aperto una grossa crepa, una ferita che per molti appassionati non si è ancora rimarginata. Non oso e non voglio pensare a ulteriori ripercussioni, preferendo fissare, in una memoria indelebile, il mondiale appena trascorso in cui un gruppo vincente, guidato da un grande leader, ha saputo esprimere forza, tenacia e volontà nel perseguire i propri obiettivi».

Chiudiamo la nostra chiacchierata con Rita chiedendole un piccolo bilancio della sua carriera e qualche ricordo. «Un aneddoto che ricordo con piacere? Nel 1990 quando ero alla Juventus, eravamo in viaggio per la trasferta dell’ultima di campionato a Faenza. Una gara importante che, nel caso di vittoria, ci avrebbe permesso l’accesso alla fase finale di Roma contro l’Acireale per il passaggio in serie A. Dopo una breve sosta in autogrill, tutta la squadra era salita sul pullman e aveva preso il largo in autostrada per proseguire il viaggio. Il tutto accadeva sotto i miei occhi sbigottiti: ero appena uscita dal ristoro! Ero incredula. A bordo c’era anche mio padre, all’epoca dirigente, eppure non era uno scherzo: si erano dimenticati di me. Sedici anni fa, il telefono cellulare era un privilegio per pochissimi eletti, di conseguenza non potevo contattarli né essere contattata. Mi sono seduta sui gradini e ho aspettato per più di un’ora fino a quando da lontano ho visto arrivare con fare affannato due dirigenti che, dopo aver corso o camminato frettolosamente per cinque o sei chilometri, erano venuti a ripescarmi. Al mio ritorno in pullman sono stata assalita e caricata dalle più scanzonate delle prese in giro con cori e canzoni create ad hoc per l’ennesima disavventura, stavolta capitata a me. Pare che l’aneddoto, ricordato a più riprese, portasse bene, ma per mia fortuna la trasferta di Roma fu fatta in treno e senza nessun autogrill nei paraggi conquistammo la serie A».

Rita conclude la nostra chiacchierata così: «Cosa ho dato io al calcio femminile? Spero e mi auguro di aver lasciato qualcosa, sia in qualità di atleta sia in qualità di “persona” dentro l’atleta stessa. Apprendere dall’esperienza e trasferirla al servizio degli altri credo sia il modo migliore per restituire ciò che abbiamo ricevuto».

Rita Guarino è nata a Torino il 31 Gennaio 1971. Ha giocato nella serie A femminile dal 1991 al 2006 con le maglie di Juventus, Reggiana, Monza, Cascine Vica, Lazio, Verona e Torres. Con la squadra sarda ha chiuso l’attività agonistica. Nel 2000 ha partecipato alle gare finali del campionato 1-A Womens League con il Maryland Pride (USA).
In carriera ha vinto cinque Campionati Italiani, sei Coppe Italia, due Supercoppe Italiane, una Italy Uefa Women's Cup.
In Nazionale ha collezionato 99 presenze e realizzato 35 reti. Con la maglia azzurra ha partecipato ai Campionati del Mondo del 1991 e del 1997, agli Europei del 1993, 1997 e 2001.
Laureata in psicologia, oggi, oltre a collaborare col centro studi interdisciplinare Keiron, allena i ragazzi del Torino Calcio.

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