
Telegiornaliste 
					anno III N. 5 (83) del 5 febbraio 2007
 
 
Giuseppe De Filippi, il professore del Tg5 
                    di Nicola Pistoia 
                    
                    Giuseppe De Filippi, 
nato a Roma nel 1964, è giornalista economico, specializzato in temi e problemi 
finanziari europei ed internazionali. Esperto di tecnica e linguaggio 
televisivo, ricopre anche il ruolo di docente di informazione e politica 
economica alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Dal 2000 è 
caporedattore del
                    Tg5 
                    e consulente editoriale di Class Cnbc. 
                    
                    Come e quando è nata questa passione per il giornalismo?
                    
                    «Da piccolo. Mi divertiva andare a vedere le cose che 
succedevano e raccontarle. Come molti colleghi mi sono industriato a fare un 
giornaletto a scuola. Alle medie avevo il mio bel ciclostile a casa e, a forza 
di inchiostro, stampavo assieme a un amico quattro fogli A4 con una specie di 
settimanale. Diffusione massima una ventina di copie: ma molto divertimento». 
                    
                    Cosa pensi del giornalismo italiano e in particolar modo 
dei giornalisti? 
                    «I giornalisti italiani, come tutti, sono vittime di 
pensieri ricevuti e di luoghi comuni. A volte reagiscono, reagiamo, tutti allo 
stesso modo in base alle stesse sollecitazioni. Tecnicamente trovo che i 
giornali e i telegiornali italiani siano fatti bene. E' la parte analitica che 
mi sembra debole. Ma forse, più che ai giornalisti, ci si dovrebbe rivolgere 
agli editori. Spesso è la proprietà dei giornali a non volere analisi o a 
tentare di orientarle in modo smaccato». 
                    
                    L'avvento del digitale terrestre influenzerà 
positivamente o negativamente l'informazione? 
                    «Il digitale e tutte le tecnologie che potenziano l'invio e 
la ricezione dei canali televisivi ovviamente aumentano l'offerta informativa. 
E' che la domanda mi sembra rigida. In altre parole: riusciremmo in Italia, con 
le dimensioni del mercato dell'informazione in Italia, a coprire le spese di 
canali fatti solo di notizie? Come vedete, anche in internet, a funzionare 
abbastanza bene sono i siti di news legati a grandi quotidiani o a editori 
televisivi. Perchè hanno economie di scala, sia nella produzione delle news sia 
nel ritorno pubblicitario». 
                    
                    Pare che tra un po' di tempo la redazione giornalistica 
di Mediaset realizzerà un canale all news. Cosa ci dici a riguardo e voi 
del Tg5 come vi state preparando? 
                    «Pare. Non ho avuto però alcuna informazione diretta. Sono 
stato direttore e anche fondatore di un canale all news, l'attuale Class 
Cnbc. Ho potuto verificare che i costi sono molto alti e che anche il 
reperimento di notizie sufficienti a tenere alta l'attenzione, in un paese come 
l'Italia (dove tra l'altro non è molto frequentato il bacino delle notizie di 
politica internazionale), non è facilissimo. Forse vale lo stesso ragionamento 
fatto per i siti internet: un canale
                    all news potrà riuscire a Mediaset se farà economie 
di scala con l'informazione già presente nelle tre reti, insomma aiutandosi gli 
uni con gli altri». 
                    
                    Se ti proponessero di presentare un programma lontano 
dall'informazione, ad esempio uno spettacolo musicale, accetteresti? 
                    «Un programma musicale lo accetterei solo come invitato, 
cioè come cantante». 
                    
                    Se qualcuno a cui tieni particolarmente decidesse di fare 
il giornalista, cosa gli consiglieresti? 
                    «Gli o le consiglierei di interessarsi a tante cose, ma 
soprattutto di acquisire una buona conoscenza in un settore. Il primo passo 
verso il giornalismo è una competenza specifica. Vorrei anche aggiungere che ai 
miei tempi (ho cominciato nel 1987) valeva ancora molto la politica come canale 
d'accesso al giornalismo. Non per una pura e semplice possibilità di 
raccomandazione, ma attraverso la selezione dei giovani che avveniva nelle 
strutture associative. Da attivista dei giovani liberali, per quanto fosse 
piccolo il nostro partito, ho avuto modo di appassionarmi di politica e di 
viverla, sia pure in piccola parte, dal di dentro. Sono esperienze molto 
formative e funzionano come selezione in modo, credo, più valido rispetto al 
criterio della parentela o della strettissima amicizia oggi prevalente. 
                    La politica educa a frequentare la società, il potere e gli 
interessi, e a tentare anche di capirne qualcosa. E' un ottimo viatico per il 
giornalismo. E infatti, prima che si abbattesse sulla politica lo stigma del 
disprezzo sociale, qualche anno di impegno politico era la tipica preparazione a 
molte attività».