Telegiornaliste
anno IV N. 3 (128) del 28 gennaio 2008
L'inferno rosa della Shoah di
Valeria Scotti
Donne quasi invisibili al tempo dell'assalto nazista. Donne al centro di
memorie, testimonianze dirette e studi, ma non di una vera e propria ricerca
sulle loro condizioni. La tematica della Shoah viene affrontata in una
chiave innovativa grazie al libro Le donne e la Shoah, Avagliano
Editore. Abbiamo intervistato Giovanna De Angelis, l'autrice, che ha
indagato sulla figura femminile nei lager. Campi di concentramento che, come
scriveva Milan Kundera, erano l'eliminazione totale della vita privata. E non
solo.
Come nasce questo libro?
«Mi sono sempre occupata di Novecento italiano. Il libro nasce come
rielaborazione di una tesi di dottorato in Storia delle scritture femminili. La
Shoah è sempre stata una mia passione, inizialmente come una lettrice comune. Mi
sono resa conto che, mentre in Israele e in America ci sono molti studi sulla
Shoah e sulle donne, in Italia c'è pochissimo: libri e testimonianze delle
stesse autrici ma nessuno studio specifico. Mi sembrava dunque importante dare
un inizio e sottolineare proprio questo vuoto».
Difficoltà nel reperire le fonti?
«No, il problema è che ce ne sono troppe di fonti. Scritti di tutti i tipi:
testimonianze, romanzi, studi, memorialistica, testi storici. Occorre quindi
selezionare e ritagliarsi un percorso, trovare il bandolo della matassa. Infatti
ci sono voluti quattro anni per scrivere questo libro che non può essere
considerato un istant book».
Possiamo tracciare un profilo delle donne coinvolte nella Shoah?
«Le donne coinvolte nella Shoah erano donne ebree, non interessava alcun altro
tipo di distinzione come la nazionalità, l'età o la professione. E in quanto
ebree, dovevano morire. Non è possibile, quindi, tracciare un profilo che
prescinda dall'ebraismo perché era quello il carattere che si andava a colpire».
E
la condizione delle donne nei lager?
«La condizione femminile nei lager è stata assolutamente agghiacciante così come
lo è stata quella degli uomini. Non ho voluto fare nessuna classifica del
dolore, mi sembrava una cosa molto irrispettosa. Si è parlato di una “ferita di
genere” per le donne, perché effettivamente hanno dovuto subire dei trattamenti
che sono stati risparmiati agli uomini. Ad esempio le donne scendevano dai
trasporti con i bambini in braccio e venivano immediatamente avviate alle camere
a gas. Oppure qualche guardia “pietosa” consigliava loro, se erano giovani e
quindi da avviare al lavoro, di dare il bambino alla persona più anziana in
maniera che almeno la madre si salvasse. E poi c'è stata la tragedia delle
gravidanze. Tantissime ebree sono arrivate nei lager incinte. Il campo di
concentramento femminile di Ravensbrück, che ha visto la morte di milioni di
donne, è stato caratterizzato da politiche diverse. Inizialmente bisognava
abortire a otto mesi: il bambino nasceva quasi sempre vivo e veniva ucciso. In
un secondo momento, è stato consentito di portare a termine la gravidanza, ma
poi le donne dovevano affogare il bambino in un secchio d'acqua. Nell'ultima
stagione, era possibile tenere il bambino senza però fornire nulla: nutrimento,
stracci per proteggerli dal freddo. Ovviamente nessuno dei bambini nati nel
lager si è poi salvato. Questa condizione straziante ha fiaccato un po' le
difese delle donne. Lo stesso comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, in un libro
di memoria ha affermato che le donne erano tendenzialmente più forti degli
uomini dal punto di vista spirituale. Ma a causa delle perdite legate alla
maternità, al pudore violato, al dileggio continuo da parte delle guardie, si
lasciavano poi andare e vagavano per il campo aspettando la pallottola o il cane
che le sbranasse».
Nella logica nazista, la donna era considerata più pericolosa rispetto
all'uomo a causa del suo carattere riproduttivo?
«Prima che fosse inaugurata ufficialmente la politica dello sterminio, si
pensava che la soluzione potesse essere una sterilizzazione di massa, ma la cosa
non è mai approdata a nulla. Ci sono stati dei programmi di eutanasia praticata
nella Germania nazista prima dello scoppio della guerra: questa non colpiva gli
ebrei bensì i disabili, i minorati, gli zingari, gli internati negli istituti
psichiatrici. Per gli ebrei, invece, non si applicava l'eutanasia – termine tra
l'altro grottesco - perché si dava per scontato che andassero ammazzati tutti. E
quello della riproduzione era un problema che non esisteva. Per i nazisti,
nessuno doveva uscire vivo dal campo. I bambini venivano uccisi subito
semplicemente perché non servivano a niente: non potevamo lavorare e non
avrebbero avuto il tempo e il modo di crescere. Gli adulti, invece, venivano
avviati al lavoro all'interno del campo, lavoro che era un mezzo per annullare,
distruggere e uccidere. Chi era avviato al lavoro, era candidato alla morte: nel
giro di due mesi moriva di stenti o per le condizioni di vita. I campi venivano
spesso costruiti vicino alle fabbriche, come la Krupp e la Siemens, o si
trovavano vicino a delle cave di pietra per l'estrazione di minerali, utilizzati
poi nelle industrie di armamentari bellici».
E' appena trascorso il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Oggi qual è
l'approccio della gente di fronte alla Shoah? Quanto è sentito il dovere della
memoria?
«Penso ci sia una grandissima ignoranza per quanto riguarda i giovani.
Ovviamente non per colpa loro, ma forse delle famiglie. La scuola è l'unica che
costringe i ragazzi a leggere Se questo è un uomo di Primo Levi.
Moltissimi giovani non sanno cosa sia la Shoah e sono dubbiosi anche sul periodo
in cui collocarla. Per quanto riguarda le persone più grandi, la reazione più
diffusa di fronte alla Shoah e alla giornata della memoria è la noia. Questo è
un problema con il quale si confronta continuamente, attraverso riflessioni
intelligenti, lo stesso mondo ebraico. La soluzione non è eliminare la giornata
della memoria o le visite ad Auschwitz, ma trovare un modo per non analizzare e
non rendere il tutto molto stereotipato. La vita è bella, uno dei film
più falsificanti e irrispettosi che siano mai stati girati, ha vinto l'Oscar e
viene celebrato come un'opera di genio divertente e profonda che ha dato
accesso, allo spettatore comune, a temi importanti come la Shoah. Non c'è nulla
di più sbagliato: la visione che veicola quel film è assolutamente fuorviante.
Di fronte a un pubblico che della Shoah non sa quasi nulla, un film del genere
presta il fianco a molti fraintendimenti.
Trovo che sia giusto che ci sia il Giorno della Memoria e mi fa anche
impressione che esista da così poco tempo. Ma bisogna continuare ad escogitare
dei sistemi affinché la banalizzazione non divori quello che è stato sicuramente
l'evento più tragico della storia dell'umanità».