Telegiornaliste
anno II N. 10 (42) del 13 marzo 2006
Paralimpiadi: intervista a Daniela Colonna Preti
di Mario Basile
Mentre iniziano le Paralimpiadi a Torino abbiamo raggiunto
Daniela Colonna Preti, presidente dell'associazione
polisportiva dilettantistica per disabili Polha Varese e
consigliere e segretaria del Comitato Italiano Paralimpico Lombardia,
che ci ha introdotti nel clima della manifestazione.
Cosa sono le Paralimpiadi?
«Sono soprattutto una grande occasione, una grossa opportunità
per l’Italia. E non soltanto per il nostro movimento dello
sport per disabili. Sono un’occasione per scoprire una realtà
ancora poco conosciuta da noi. So che è stato investito moltissimo
perché fin dall’inizio il comitato organizzatore dei Giochi Olimpici
ha lavorato di concerto col comitato organizzatore dei
Giochi Paralimpici.
Questa è la chiave per un successo, ma soprattutto per l'integrazione
di questo tipo di sport che praticano i ragazzi con handicap. Noi ci
aspettiamo una kermesse importante non tanto dal punto di vista dei
risultati: per noi, l’evento è quello che si svilupperà a
Torino. Evento mediatico sicuramente, ma anche evento in quanto
tale, con la possibilità per tanti ragazzi di misurarsi con altri
con lo stesso tipo di handicap e, di conseguenza, di dimostrare
quello che sanno fare e quello per cui hanno lavorato per tanti
anni».
A suo avviso quali sono gli atleti della Nazionale italiana che
hanno maggiori possibilità di salire sul podio?
«Gli atleti medagliati a Salt Lake City nel 2002, anche se non
ci sarà Ruepp, che ha dovuto rinunciare a causa di una
frattura al femore. Anche Zardini, essendo un veterano
dello sci, potrebbe portare dei risultati. Non ci aspettiamo granché
dall’hockey: è già un risultato il fatto di avere creato una
formazione, avere iniziato a praticare una disciplina sportiva che
prima non si praticava in Italia.
Poi c’è attenzione su atleti nuovi come
Melania Corradini che è una nuova atleta, non nota negli anni
scorsi. È una ragazza che si è avvicinata al nostro movimento quando
già stava facendo sci.
Ecco, questo bisogna dire del movimento per lo sport per disabili: che
c’è la possibilità, ed è appunto quello che è successo con Melania,
di vedere ragazzi che prima facevano attività per conto loro
avvicinarsi al nostro sport, e ragazzi che magari con minima
amputazione, un braccio o una gamba, possono sciare quasi
normalmente e, di conseguenza, non immaginano neanche che possa
esistere l'opportunità di fare sport disabili con disabili.
Poi, come dicevamo, ci sono atleti che purtroppo sono di nuova
“formazione” nel senso che, come Michael Stampfer nello sci
alpino, fino a tre anni fa erano ragazzi normali. Poi un
incidente ha cambiato loro la vita. Michael ha avuto un
incidente cadendo da un tetto nel novembre di tre anni fa e adesso
sta andando alle Olimpiadi.
Pronostici? Abbiamo una squadra quasi completamente rinnovata e noi
speriamo che qualcosa arrivi, ma, come si diceva prima, il risultato
è già quello che questi ragazzi siano lì a misurarsi sulle piste da
sci, a misurarsi negli impianti sportivi e non magari a casa a
disperarsi per una condizione che è vista dai più come limitativa».
Quali sono le difficoltà che si incontrano nell’organizzare un
avvenimento di questa portata? È più difficile rispetto alle
Olimpiadi?
«Quando si parla di eventi di questa portata bisogna intanto parlare
di grandissime misure, di numeri immensi e di grosse, grossissime
macchine organizzative. Non è che ci voglia tanto di più rispetto
all’Olimpiade, perché si parla di numeri molto ristretti rispetto a
quelli delle Olimpiadi. Diciamo che ci vuole un'attenzione
particolare a quelle che sono le esigenze di atleti con
funzionalità ridotte. Per fare un esempio, nel
Palazzo delle Esposizioni, che è stato attrezzato per l’hockey,
per lo
sledge hockey, la pista è stata costruita in modo tale che gli
atleti sullo slittino possano accedervi dalla panchina. Nel momento
in cui si progetta un impianto sportivo nuovo l’attenzione alle
difficoltà della persona disabile non toglie niente al
normodotato; la difficoltà sta in questo: normalmente la gente non
ci pensa».
Parliamo di visibilità dell’evento. A suo avviso le Paralimpiadi
godono di un’adeguata considerazione dal punto di vista informativo?
«Decisamente no. Nel senso che queste sono le prime Olimpiadi e
Paralimpiadi invernali italiane, infatti le ultime Olimpiadi sono
state nel
1956
(all’epoca non esistevano le Paralimpiadi invernali, ndr) e,
quindi, per quanto riguarda la visibilità, si può dire manchi
qualcosa. Dopo Sydney e Atene, siamo riusciti ad avere una buona
visibilità grazie ad una collaborazione con la
Rai, e ha preso il via la trasmissione
Sportabilia
che ha portato in trasmissioni “normali", il nostro sport.
Il futuro è tutto da inventare. Quello che ho visto fino adesso mi fa
ben sperare: ho visto degli spot in orari in cui la
visibilità è alta, ho visto al
Tg1
un intervento della portabandiera Melania Corradini con Tiziana
Nasi, presidente delle Paralimpiadi. Ecco: messaggi del tipo
“Finiscono le Olimpiadi, ma ci sono le Paralimpiadi”. Questo è
nuovo! Non l’ho mai visto negli anni passati».
Per quale motivo?
«Mah, i motivi possono essere tanti. Non penso che sia soltanto un
disinteresse, anche se in fondo può essere anche questo: io
credo che tante volte i giornalisti si trovino spiazzati di fronte
al nostro movimento e che non sappiano commentarlo. Nel senso che
trovano difficile commentare il nostro sport, anche se poi è uno
sport normale, con regole normali e qualche adattamento. Quindi
può darsi ci sia quest’imbarazzo nei confronti di qualcosa di nuovo.
Poi forse la paura di non fare share, visto che è tutto un
discorso di audience
e di gradimento: il mondo moderno è un mondo di gente che, io
parlo molto liberamente (ride, ndr), guarda trasmissioni
stupide, e si ha voglia, forse, di non impegnarsi. E seguire delle
attività sportive diverse può sembrare non importante».
Lei, oltre ad essere membro del Comitato Paralimpico Lombardia,
presiede anche un’associazione polisportiva per disabili: la Polha
Varese. Quanto è importante lo sport nella vita di una persona
disabile?
«Su una persona disabile lo sport ha ottimi effetti,
sicuramente da un punto di vista fisico, perché lo sport comunque fa
bene. Fa bene alla persona senza handicap; è un diritto di tutti e,
a maggior ragione, fa bene alla persona con handicap. E poi, diciamo
che lo sport ha una marcia in più. Il fatto di avere
l’opportunità di trovarsi in una società sportiva, di fare attività
fisica “normale”, è qualcosa che stacca dall’ambito ospedaliero che
normalmente viene associato alla figura della persona disabile. E
non dimentichiamoci che la persona disabile può essere una persona
che è nata con un handicap, e quindi sin dalla nascita ha
avuto a che fare con medici, fisioterapisti, riabilitazioni; oppure
una persona che per un incidente o una malattia si ritrova
disabile
nel corso della vita. Quindi da un’esperienza assolutamente normale
come siamo abituati a vederla noi, e per noi intendo una persona
come me, normodotata, si ritrova dall’oggi al domani catapultato in
un mondo completamente diverso: che è quello degli esclusi,
degli emarginati.
Lo sport offre l'opportunità di star bene, di fare anche
terapia perché è sport-terapia, ma allo stesso tempo di sentirsi
vincenti, perché appunto si fa qualche cosa che proietta in un
mondo che è visto come il mondo di chi sta bene. Cioè: chi fa sport
è una persona sana.
Noi a Varese siamo la prima società sportiva, che è nata nel
1982, e soltanto adesso cominciamo ad avere un certo numero di
società. Non c’è la capillarità di esistenza che c’è per i
normodotati. La risposta potrebbe essere proprio creare una
collaborazione
tra le società sportive per normodotati, come li chiamiamo noi, e il
Comitato Italiano Paralimpico: per una vera integrazione.
Certo, non tutti possono fare tutto, perché dipende dalle menomazioni,
però avvicinarsi a una società sportiva come la nostra significa
avvicinarsi a delle persone che hanno problemi simili ai propri e
poi trovare un ambiente dove magari c’è un’offerta sportiva varia.
Noi offriamo, al momento, la pratica di dodici discipline sportive.
E siamo arrivati a questo numero proprio per la richiesta delle
persone e dei ragazzi che venivano da noi e che dicevano Ma non
fate questo?, o Non fate quest’altro?».
Molti pensano che i disabili siano solo quelle persone con una
menomazione sensoriale o motoria, ignorando i cosiddetti “disabili
intellettivi”. Esistono anche per loro gare sportive a livello
agonistico?
«All’interno della disabilità intellettiva e relazionale, noi
abbiamo due grossi movimenti. Il primo è quello dello
sport promozionale, che viene praticato dai principianti e da
quelli che per problemi di comprensione hanno bisogno di essere
guidati in un certo modo nel fare sport. In quest'ultimo caso si
adattano gli sport affinchè loro possano farli, soprattutto a
livello ludico.
E poi c’è la disabilità intellettiva relazionale agonistica, e
queste sono persone a tutti gli effetti inserite nella
programmazione e nel calendario gare del Comitato italiano
Paralimpico: sono atleti che gareggiano con normative regolamentari
delle federazioni sportive del
Coni, e lo fanno insieme agli atleti ciechi e a quelli con
disabilità fisica. Quindi abbiamo i campionati italiani, per esempio
di atletica, con appunto le tre disabilità (motoria, intellettiva e
sensoriale, ndr), e ci sono poi i campionati italiani di
atletica per i Dir promozionali.
Da quando ho iniziato io, nel 1985 a Varese, le cose stanno cambiando
tantissimo: un aiuto grosso sta arrivando anche dalla scuola,
dall’attività di proposta, dalle attività che si fanno, dal lavoro
delle società sportive del Comitato italiano Paralimpico sul
territorio. È un lavoro che sta dando dei frutti».
Gli enti pubblici e le istituzioni si sono mostrati vicini alla
vostra causa? E gli sponsor?
«Tanto dipende dalle Giunte e dal lavoro che si fa. Io parlo
per la mia esperienza a Varese. Ultimamente abbiamo avuto una
grossa flessione, forse è un momento in cui ci sono difficoltà
economiche, però, per quanto riguarda Varese, grossi contributi da
enti pubblici non ne abbiamo. Noi abbiamo la fortuna di essere
un’associazione molto conosciuta e soprattutto di avere realizzato
degli eventi internazionali di grandissimo richiamo. E poi io
ho avuto proprio la “presunzione” di volere che per i nostri atleti
ci potesse essere un'occasione di sponsorizzazione
proprio come per gli atleti normali.
Chi aiuta una società come la nostra in qualche modo cerca di essere
partner a doppio senso, e quindi loro sicuramente a noi danno
qualche cosa, ma noi a loro diamo altrettanto se non di più. Abbiamo
la fortuna, a Varese o a Cantello, il cui Comune anni fa ci ha
premiati per il basket all’interno di una manifestazione
internazionale, degli atleti che non si nascondono e intervengono a
parlare nei convegni, intervengono a parlare a scuola con i bambini.
Siamo conosciuti e abbiamo un certo tipo di risposta anche dal punto
di vista degli sponsor, che comunque non bastano mai: mettere
insieme una squadra di hockey ha voluto dire dall’oggi al domani
tirar fuori 35 mila euro».
La sua associazione, come spiega nel sito, auspica di trovare una
sede sociale e maggiori spazi d’acqua per l’attività natatoria a
Varese. Spostando il discorso più in generale, secondo lei c’è una
carenza di strutture appropriate per lo sport dei disabili?
«È difficile generalizzare. Ma la situazione qui a Varese è proprio
deludente, perché girando in altre città, in altre regioni, ho
visto dei centri molto belli, dove oltretutto avendo avuto un'attenzione
nella costruzione alle persone disabili c’è una fruibilità
piena anche per persone in carrozzina o con altri tipi di
handicap.
Il nuoto è la primissima attività che può essere consigliata ad
un ragazzo disabile: dovrebbe essere ilbacino di raccolta
dove poter veramente accogliere tutti e poi eventualmente farli
proseguire».
Il nostro magazine ha
intervistato Candido Cannavò alla presentazione del suo libro
E li chiamano disabili a Roma. Il libro ha avuto un successo
inaspettato. Come giudica questo fatto?
«Il libro è scritto molto bene ed è scritto come si potrebbe
raccontare. Il nostro è un mondo di vincenti, così come sono
vincenti le persone di cui parla Cannavò. In fondo, lui ha
esorcizzato anche tante nostre paure. Quelle delle persone
normali che hanno paura delle malattie, hanno paura delle
sofferenze, e l’ha fatto descrivendo persone che nonostante
l’handicap hanno fatto delle cose incredibili e che forse le
hanno fatte proprio perché hanno l’handicap.
Perché, come dice sempre uno dei miei atleti che ha fatto tre
Olimpiadi: Ma se io non avessi perso le gambe, quando mai sarei
potuto andare alle Olimpiadi?. Quindi, forse, si tratta di
riuscire a vedere questa bottiglia mezza piena e non mezza vuota.
Candido (Cannavò, ndr) secondo me ha assunto una grandissima
missione. Lui è una persona che ha vissuto nello sport, quello
inavvicinabile, quello dei campioni, quello mediatico, delle persone
famose che rilasciano autografi e che, incontrando il mondo dello
sport per disabili, se ne è innamorato al punto da divenirne
ambasciatore. E io gliel’ho proprio detto, Hai una missione
perché persone come te le ascoltano molto di più che tutti noi,
noi sono anni che stiamo “gridando” (ride ndr)».
Parliamo di volontariato. Nella sua associazione tutti sono
volontari. In generale lei pensa che le persone che si dedicano al
volontariato per disabili siano in numero soddisfacente? Oppure si
può fare di meglio?
«Certamente si parla di volontariato in Italia come di una realtà
molto diffusa. Per volontario non si deve intendere
necessariamente la persona che spinge la carrozzina o che aiuta il
povero ragazzo disabile a far qualcosa. Il volontario è anche
l’atleta disabile stesso, chiunque metta volontariamente a
disposizione le proprie capacità e il proprio tempo per gli altri.
Il mio vicepresidente, che è una persona amputata e in carrozzina, è
volontario nel senso che coordina il settore del tiro con l’arco e
io, se non avessi lui, non potrei avere il settore del tiro con
l’arco».
Infine, cosa si aspetta da questi Giochi Paralimpici invernali e
cosa si augura per il futuro dello sport per disabili?
«Mi aspetto che la macchina operativa funzioni come pare abbia
funzionato per quanto riguarda le Olimpiadi. Io mi auguro prima di
tutto che i nostri atleti non siano delusi: questa è la cosa
più importante. Bisogna pensare a loro che si sono allenati ed hanno
dedicato tantissimo, io ho visto i miei ragazzi. Quattro atleti che
da tre anni, da quando abbiamo creato la squadra di hockey, lavorano
ininterrottamente per questo appuntamento e, ovviamente, per il dopo
appuntamento. Spero che non siano delusi dalla macchina
organizzativa, dalle loro prestazioni, dalla tensione mediatica.
Prima di tutto è questa la mia speranza, poi logicamente qualche
medaglia ci fa sempre piacere. Noi abbiamo ancora l’altra vittoria
da portare a casa ed è
la vittoria della visibilità, ma non per la soddisfazione della
visibilità: questi ragazzi che sono alle Olimpiadi sono la punta
dell’iceberg di una realtà di ancora pochi ragazzi che stanno
facendo sport in Italia, di una base vastissima, sommersa, di
persone disabili
che non sanno neanche che questa opportunità esiste.
Grazie a questa onda d’urto anche proprio d’informazione, per la quale
ringraziamo tutti voi che state collaborando, noi ci aspettiamo
proprio che il messaggio vincente dello sport arrivi a tutti
e che cambi la vita un po’ di tutti quelli che vogliono
lasciarsi cambiare.
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