|  Telegiornaliste N. 32  del 19 dicembre 2005 
Toni Capuozzo, inviato in prima linea di 
Filippo Bisleri
        
 Toni Capuozzo è oggi uno dei più apprezzati giornalisti inviati sui 
teatri di guerra. Lo abbiamo raggiunto in una delle sue permanenze romane per 
ascoltare dal volto del programma Terra!, e dei vari servizi dal fronte, 
emozioni e considerazioni sul mondo dell’informazione.
 
 Toni, il giornalismo è, per te, una scelta cullata fin da bambino o 
una professione che ti ha conquistato per gradi?
 «No, da bambino sognavo di fare il marinaio, anche perchè mia nonna 
faceva la cameriera sui transatlantici. Pensavo che avrei fatto il marconista, 
ma al momento delle superiori rivelai poca passione per le materie tecniche, e 
l'era dei bastimenti era finita. Mi iscrissi al liceo classico, invece che al 
nautico. Amavo scrivere ma non pensavo avrei fatto il giornalista, e ho iniziato 
molti altri lavori. Sono diventato giornalista per caso, e in fondo è stata una 
scusa per viaggiare».
 
 Sei noto come conduttore-curatore di Terra! e per i servizi in 
aree di guerra. Il giornalista che vive sul campo i rischi connessi è sempre 
visto con grande ammirazione dal pubblico e dai colleghi. Ma quali sono le 
emozioni che hai provato in Iraq o in Afghanistan?
 «Io penso che l'ammirazione sia mal riposta, eccezion fatta per i 
colleghi caduti come la Cutuli, Russo, Alpi e altri. Uno va 
in guerra non pensando che può toccare a lui, ha in tasca il biglietto di 
ritorno, e nessuno, se non la passione, ti obbliga ad andarci. A volte è più 
duro il lavoro anonimo di scrivania, o le cronache di mafia scritte dal cronista 
locale, che vive sul posto, senza biglietti di andata e ritorno. Le emozioni? 
Nessuna guerra è uguale a un'altra, e comunque non ci si abitua mai, e il 
cinismo che a volte viene esibito è solo una fragile autodifesa dall'orrore. Ma, 
in particolare, le cose cui non mi sono mai abituato sono le sofferenze dei 
bambini, l'indifferenza del mondo, e le false passioni della politica, che usa 
le guerre per agitare le proprie bandiere. Alla fine le persone finiscono per 
essere, dimenticate o usate per slogan, numeri aridi come e
 più che nei bollettini militari».
 
 Baratteresti mai il tuo ruolo di inviato sui terreni di guerra con la 
conduzione di un tg importante?
 «No, non mi piace l'idea di condurre un tg. Terra! è già qualcosa 
di diverso, è l'inviato prestato a una conduzione "sporca", senza studio, 
direttamente dal produttore al consumatore».
 
 Fare l'inviato di guerra quanto condiziona la vita di un giornalista?
 «Condiziona i tuoi ricordi, la vita in redazione, il modo in cui vedi il 
resto, dalle relazioni sindacali alle carriere. Non a caso ho rapporti più 
fraterni con altri inviati che hanno le mie stesse esperienze. Ma sono convinto 
che ogni storia sia importante, mi sono sempre sforzato, dopo un conflitto, di 
raccontare storie modeste, da posti qualunque, per mettermi alla prova: non 
vorrei essere uno che vive dell'adrenalina della guerra, o solo delle grandi 
notizie».
 
 Quale tra i colleghi e le colleghe che, come te, vivono sul campo le 
emozioni delle guerre apprezzi di più?
 «Apprezzo molte persone per le loro doti umane e per le qualità 
professionali. Ma in generale trovo che il giornalismo italiano, specie in 
occasioni di conflitti, tenda a essere troppo politicamente corretto, troppo 
ideologico, troppo pregiudiziale. Ti faccio un esempio: la chiesa della 
Natività. Se chiedi a un italiano qualunque, tra quelli che si ricordano quella 
vicenda, te la descriverà come l'assedio della Natività (cioè i buoni dentro, i 
cattivi fuori). Avrebbe potuto legittimamente essere il contrario: l'occupazione 
della Natività, e i fari si accendevano non sugli assedianti, ma sugli 
occupanti. Le cronache e i commenti italiani furono pregiudiziali, e la verità 
dimezzata».
 
 Ci puoi raccontare quello che hai provato durante il sequestro-lampo 
in Iraq?
 «Mi dissi che ero stato stupido, e capii quanto era facile cadere in una 
trappola. Mi sentii responsabile per le persone che mi ero portato dietro, e 
cercai di mantenere la calma anche a nome loro. Non ebbi paura, mi venne dopo, 
al ritorno in albergo».
 
 E le emozioni del sequestro Sgrena?
 «Mi sembrò di vivere una tragedia dell'assurdo. Sequestrata una 
giornalista che in qualche modo era pregiudizialmente favorevole alla cosiddetta 
"resistenza" irachena. Soffrivo all'idea che le facessero del male, e sapevo che 
per lei sarebbe stato più difficile che per altri venire a capo, anche 
psicologicamente, di quella vicenda. Non poteva permettersi di odiare i suoi 
sequestratori, doveva comunque assegnare la colpa a ragioni più grandi: 
l'occupazione militare, la guerra, eccetera».
 
 A chi sei più legato professionalmente?
 «Tra i direttori che ho avuto a Enrico Mentana. Ma sono rimasto molto 
amico anche del mio primo direttore, Enrico Deaglio. Sono legato al gruppo degli 
inviati italiani con cui ho condiviso molte esperienze: ti citerò solo due 
proprio perchè sono andati in pensione, Marcello Ugolini della Rai e Guido 
Alferj del Messaggero. Sono molto legato a tre cameraman: Igor Vucic, con 
cui ho seguito le guerre nei Balcani, Salvo La Barbera, con cui ho vissuto 
l'Iraq, e Garo Nalbandian, il mio operatore armeno a Gerusalemme».
 
 Quale l'intervista che ricordi con più affetto? E il personaggio?
 «L'unica intervista importante che ho fatto. A Jorge Luis Borges, a 
Buenos Aires, durante il conflitto Falkland/Malvinas. I personaggi della memoria 
sono persone qualunque, finite nel tritacarne della Storia, o colleghi 
scomparsi, come Antonio Affiatati».
 
 Che consigli daresti a chi vuole fare oggi il giornalista?
 «Io in genere sconsiglio dall'intraprendere questa professione. Oggi 
talento e passione non bastano più, e vengono concesse poche opportunità di 
dimostrarli. Se non basta, un solo consiglio: non essere pigri. Non pensare di 
aver capito il mondo, e un luogo, prima di andarci. Studiare, ma essere pronti a 
mettere in forse le proprie nozioni e le proprie convinzioni, quello che 
sorprenderà e sconvolgerà te sorprenderà anche il lettore. Non essere inviati di 
guerra, né di pace, ma essere cronisti e basta, non essere superbi nelle proprie 
Verità, e onesti nel raccontare piccole verità. Non considerare inutile alcuna 
notizia, o storia, e avere un po' di umiltà davanti a ciascuna di esse. Essere 
individualisti, ostinati, diffidenti e generosi. Provare pietà e rispetto, 
apprezzare il giornalismo militante, e starsene lontani, per conto proprio».
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