
Telegiornaliste 
									anno IV N. 2 (127) del 21 gennaio 2008
Paolo Capresi, emergenza rifiuti in primo piano 
                   di Giuseppe Bosso 
                   
                   Paolo Capresi, 
giornalista professionista dal 1996, ha mosso i primi passi nella carta 
stampata. E' stato il tempo poi del
                   Tg4, TMC, la Rai. Fino ad arrivare a Studio Aperto, 
dove sta seguendo la drammatica vicenda dei rifiuti in Campania. 
                   
                   Come sta vivendo da inviato l’emergenza rifiuti di Napoli?
                   
                   «E’un momento drammatico per questa gente che da oltre 43 
anni si vede violentata dal problema. Non c’è famiglia delle zone coinvolte che 
non abbia avuto almeno un morto, un malato di cancro o di leucemia a causa 
dell’aria e dell’ambiente invivibile. C’è grande paura per la riapertura del 
sito e questo sentimento ha inevitabilmente favorito l’infiltrazione, tra la 
gente che si lamenta giustamente per questa emergenza, di gruppi di facinorosi 
della criminalità organizzata, di chi non ha la cultura della presenza dello 
Stato. I risultati si sono visti a spese dei vigili del fuoco che sono lì non 
certo per fare danno, ma per contribuire a superare il problema. Ma a parte 
questi, fortunatamente, la maggior parte dei napoletani sono persone perbene che 
vogliono uscire da questo tunnel e chiedono solo ascolto e aiuto. Per quanto mi 
riguarda, è un’esperienza professionalmente bella anche se molto faticosa». 
                   
                   Che idea si è fatto di questa problematica? 
                   «Si tratta di un’emergenza che ha radici profonde e radicate 
nel tempo. La criminalità ha scoperto che anche l’immondizia poteva diventare un 
business molto redditizio, e le istituzioni non sono riuscite ad affrontare la 
situazione in maniera adeguata. Il conto, purtroppo, alla fine lo paga come 
sempre il popolo». 
                   
                   Grande la responsabilità delle istituzioni. E la gente?
                   
                   «Quale responsabilità può avere la gente? I rifiuti vanno 
comunque buttati. Semmai una responsabilità può essere addossata agli imbecilli 
che hanno pensato che bastasse incendiare l’immondizia per eliminarla, 
producendo invece diossina e altri veleni pericolosi che hanno contribuito ad 
aumentare la tossicità dell’aria». 
                   
                   Nei napoletani che ha avuto modo di avvicinare ha 
avvertito più rabbia o speranza? 
                   «La rabbia è forte quanto la determinazione nell’impedire ai 
camion di scaricare nel sito di Pianura. Al tempo stesso ho notato molta 
rassegnazione. Qualche giorno fa, per esempio, ho incontrato un uomo anziano che 
mi ha mostrato le ferite che aveva riportato al ginocchio negli scontri con la 
polizia. In quel gesto ho avvertito questo spirito molto pessimista». 
                   
                   La reazione violenta della gente ha coinvolto anche 
qualche collega giornalista che si trova a Napoli in questi giorni… 
                   «E’inevitabile che le azioni delle frange violente 
coinvolgano, oltre alla forza pubblica che tenta di contrastarle, anche chi come 
noi cerca di fare il proprio dovere pur di portare a conoscenza del Paese questo 
scenario. Anch’io ho dovuto prendere le mie precauzioni, ma non demordo. In 
questo contesto ritengo la nostra presenza fondamentale, proprio perché possiamo 
contribuire a far comprendere alla gente la verità e le vie di uscita che non 
passano certo per l’aggressione a poliziotti, vigili del fuoco e ovviamente 
giornalisti». 
                   
                   Quindi anche i media possono contribuire a individuare 
possibili soluzioni al problema rifiuti? 
                   «Certamente. La nostra funzione è spiegare i fatti e aiutare 
la gente a comprendere cosa fare per trovare gli opportuni rimedi». 
                   
                   L’emergenza rifiuti ha innegabilmente danneggiato 
quell’immagine solare e allegra che Napoli ha nel mondo. Quanto pensa potrà 
durare? 
                   «Devo dire che trovo brutto, ma anche buffo, dover constatare 
come questa emergenza abbia avuto eco anche nel resto del mondo. Qualche giorno 
fa ho ricevuto una telefonata da una mia amica che era a New York. Quando le ho 
detto di essere a Napoli, ha esclamato: "Ma non hai paura delle epidemie che 
potrebbero scoppiare?". Lo stesso mi è stato detto da una persona che si trova 
ad Istanbul. Due episodi piccoli ma che mostrano il risalto che questa vicenda 
ha avuto in ambito internazionale. Anche il turismo ne ha risentito 
profondamente, come mi hanno detto alcuni taxisti che ho incontrato e che 
avvertono meno lavoro, rispetto agli altri anni, proprio per il calo della 
presenza straniera in città. Sicuramente questa situazione ha scalfito 
l’immagine gioiosa che Napoli ha nel mondo, ma non dubito che, una volta 
superato il problema, i napoletani sapranno riappropriarsi di quello che 
rappresentano agli occhi degli stranieri». 
                   
                   Le piacerebbe, in futuro, poter intervenire in un’edizione 
straordinaria di 
                   
                   Studio aperto dal titolo Finalmente è finita 
l’emergenza rifiuti a Napoli? 
                   «Eccome se mi piacerebbe! La realtà, però, è che ci vogliono 
gli impianti, ci vogliono le strutture appropriate per lo smaltimento, bisogna 
trovare dei sistemi per un trasporto sicuro dei rifiuti. Non si può scaricare 
tutto sul territorio pensando che possa assorbire da sé l’immondizia. C’è tanta 
strada da fare. Inevitabilmente richiederà molto tempo trovare quei rimedi che i 
napoletani reclamano, ma spero che un giorno questo possa accadere».