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Intervista a Carlo Buccirosso tutte le interviste
Carlo BuccirossoTelegiornaliste anno IV N. 41 (166) del 17 novembre 2008

Buccirosso porta i napoletani a Broadway di Valeria Scotti

Il sogno americano esiste? Obama regala speranze da quella terra dispensatrice di fenomeni studiati a tavolino, ma Napoli è un’altra cosa. Il teatro è un’altra cosa. Ne sa qualcosa Vito Pappacena, cinquant’anni, attore poco fortunato, deluso dal mondo dello spettacolo che premia raccomandati e buoni a nulla.

Un giorno, dopo l’ennesimo provino andato male al cospetto del regista Sebastiano Sommella – che lo accusa di essere "un po' troppo napoletano" - Carlo Buccirosso, alias Pappacena in Napoletani a Broadway, decide di dar vita a un’agenzia di casting per soli artisti napoletani. Accanto a lui la madre, ex attrice della compagnia di Eduardo.

Tutto è napoletano in quell’ufficio, dalla A alla Z. E i talenti si sprecano: il barista che vuole impersonare Schwarzenegger, tale Nenella combattuta tra il provino e un test di gravidanza, il lavavetri che canta come Pavarotti, Fofò, trasformista del circo, alto quanto basta per scatenare l’ilarità dei presenti, e una seducente Marilyn che Pappacena aveva incontrato, quattro anni prima, a quell’ultimo nefasto provino.

Tra segretarie innamorate e illazioni sulla mascolinità del protagonista, le porte di Broadway si aprono per Pappacena e i suoi artisti. L’occasione arriva proprio da Sommella che trascina l’allegra compagnia in un teatro fatiscente. E’ qui che parte il musical, tra atmosfere anni 70 di John Travolta, il cabaret di Liza Minelli, e la truffa del regista che si appropria dei finanziamenti, lasciando a bocca asciutta i napoletani.

Carlo BuccirossoBuccirosso, che abbiamo incontrato prima dello spettacolo al Teatro Augusteo di Napoli, ci spiega: «Non c’è nessuna rivincita, la storia non finisce a "tarallucci e vino" come sempre, anzi, questo è proprio uno dei mali della nostra mentalità. I protagonisti decidono di non tornare più a Napoli e di rimanere a Broadway per ricominciare una nuova vita». Ma quanto ancora vale il sogno americano nel campo della recitazione? «Semmai bisogna vedere quanto vale Napoli. Qualsiasi città, in questo momento, acquista valore rispetto a Napoli, tutto diventa America rispetto a Napoli. Il napoletano è simpatico, ma spesso non ha una mentalità vincente. Certo, l’arte ce l’abbiamo nel sangue, e proprio nello spettacolo, a un certo punto, si dice "Speriamo che l’arte possa rimanere l’unico nostro motivo d’orgoglio", ma ho l’impressione che anche quello stia cominciando a traballare».

L’essere un po’ troppo napoletano, per Buccirosso, «è un luogo comune, solo una scusa dei pseudo registi che trattano male i giovani. Il nostro dialetto è uno dei suoni più belli che si possa sentire a teatro e nella vita. In fondo, la volgarità sta nelle persone, non nei dialetti». E riguardo al messaggio che l’attore e regista vuole trasmettere, «spero e credo siano arrivati solo i concetti positivi, perché sento gli applausi del pubblico nei momenti giusti. A fine spettacolo, vedo sempre gente avvicinarsi per ringraziarci. Il napoletano è stufo di cose un po’ scontate e della sua vita. E quando cantiamo "Non tornate a Napoli che bene non vi fa", nessuno ha mai protestato in teatro. Evidentemente la sensazione mia accomuna un po’ tutti».

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