Telegiornaliste anno III N. 42 (120) del 19
novembre 2007
Salvatore Biazzo presenta il suo “Dizionario del
giornalista”
di Mario Basile
Telecronista
e volto di Novantesimo minuto. Così il grande pubblico ricorda
Salvatore Biazzo, storico giornalista della
Rai. Alla tv di stato ci arrivò
ventisette anni fa, dopo gli inizi al
quotidiano Roma.
L’esperienza maturata in questi anni l’ha
portato a scrivere Dizionario del giornalista: 525 pagine in cui
sono raccolti tutti i termini, tecnici e non, propri del linguaggio
giornalistico.
Telegiornaliste l’ha incontrato alla
presentazione dell’opera, tenutasi martedì scorso all’Università
di Salerno.
Dottor Biazzo, quanto è cambiato il
giornalismo rispetto a quando ha cominciato la sua carriera?
«E’ cambiato radicalmente, in maniera
profonda. Io ho cominciato quando i giornali si stampavano con la cosiddetta
“tipografia a caldo”, quando si utilizzava il piombo fuso. Da allora ne è
passato di tempo: oggi si usa la “tipografia a freddo” e la fotocomposizione.
Invece, quando iniziai a lavorare in tv con la Rai, le pellicole che si
adoperavano erano in bianco e nero e “a sviluppo rapido invertibile”. Poi non
solo ho assistito all’avvento dell’analogico, ma anche del digitale».
Lei è noto al grande pubblico come uno dei
volti della storica trasmissione
Novantesimo minuto. Come mai, pur avendo
grosse potenzialità, in Mediaset un programma simile non ha avuto grande
successo?
«Perché la Rai continua, nonostante tante
difficoltà, a mantenere un suo prestigio. Ci sono storie che hanno fatto la
leggenda di questa azienda, volti che hanno fatto la storia del giornalismo
televisivo. Proprio quest’anno ricorre l’anniversario della scomparsa di Beppe
Viola, uno dei grandi del giornalismo radiotelevisivo e sportivo. Viola è stato
per noi tutti non solo un amico e collega, ma anche un grande maestro. Forse,
proprio il giornalismo sportivo ha prodotto il meglio: se pensiamo a Enzo Biagi
che ha esordito seguendo il Giro d’Italia, o a Gianni Brera con tutto quello che
ha significato per il mondo dei linguaggi della nostra professione, restiamo
veramente sbalorditi».
Vuol
dire ancora tanto, quindi, lavorare per il servizio pubblico…
«Sì, io credo che significhi ancora tanto.
Poche settimane fa sono stato ospite di Simona Ventura a Quelli che il calcio
e…
ed erano presenti due generazioni di quelli
che hanno fatto Novantesimo minuto. Io, nonostante la mia età, appartengo
alla seconda. Noi ci trovammo di fronte dei colleghi che pensavano a
Novantesimo minuto, in regime di monopolio, come ad un teatrino. Dovemmo
cambiarlo perché era arrivata la concorrenza, ovvero Mediaset – all’epoca si
chiamava ancora Fininvest – che aveva volti nuovi, giovani che sapevano il
calcio e lo studiavano sugli almanacchi. Noi subentrammo e facemmo la fortuna di
Novantesimo minuto: una trasmissione che
ha abituato anche il pubblico femminile a seguire lo sport».
Ha seguito per lungo tempo le vicende del
Calcio Napoli ed ha dedicato un libro all’ingegner Ferlaino, storico presidente
della società. Nonostante i grandi risultati raggiunti, i tifosi azzurri non ne
conservano un grande ricordo. Crede che sia un atteggiamento ingeneroso?
«Quel libro, che si intitolava Il mio
Napoli, fu una confessione, anche per certi versi emotivamente forte, da
parte di Ferlaino. Credo che il tempo servirà a rivalutare il suo operato. Ha
dato tantissimo al Napoli e ne ha anche ricevuto, ma se si dovesse fare un
bilancio, credo sia a favore dei tifosi e del club azzurro».
Non c’è solo lo sport nella sua carriera.
Da diverso tempo cura, con Silvio Luise,
Nea Polis, la rubrica del tg regionale
campano dedicata a internet e alle nuove tecnologie. Crede che il web possa
essere la nuova frontiera del giornalismo?
«Sicuramente. La parola internet è l’unione
di un termine latino e di uno inglese. Questo, secondo me, rappresenta
metaforicamente la trasformazione della nostra professione. Inoltre, nella
presentazione del mio Dizionario del giornalista, dico che manca una
parola, ovvero “sesto potere”. Noi eravamo rimasti al quarto e al quinto, cioè a
quello della stampa e della tv. Sesto potere, invece, è una parola nuova
conosciuta un mese fa grazie a Beppe Grillo che ha cominciato a parlare
attraverso il blog e poi nelle piazze. Grillo è un blogger e perciò ci si
chiede se il web possa costituire un sesto potere».
Parliamo infatti del suo ultimo libro,
Dizionario del giornalista. Com’è nata
l’idea di scriverlo?
«Mi sembrava che ci fosse un vuoto. Quando
sono intervenuto in qualche università o in qualche scuola, è capitato che
qualcuno mi abbia chiesto il significato di un termine proprio del giornalismo.
A volte io stesso, rispetto alla specificità di esso, non riuscivo a dare una
spiegazione soddisfacente. Né per me, né per chi mi aveva posto la domanda.
Allora ho iniziato a raccogliere tutte le parole che fanno parte del linguaggio
proprio di noi giornalisti che non è esatto definire “giornalese”, ma è
semplicemente la lingua parlata nelle varie redazioni. E’ un lessico che si
arricchisce e viene contaminato dal cinema, dalla pubblicità, da internet. A
volte ci arrivano parole che si presentano con oscura arroganza, per esempio
“Chi è un blogger? Perché parla male di noi?”»