Telegiornaliste
anno III N. 34 (112) del 24 settembre 2007
Cristiana Barone: diavolo di una giornalista
di Giuseppe Bosso
Capo servizio di Telecapri, Cristiana
Barone è direttore dell’agenzia “New Bigol” che, nel 2007, realizza la
trasmissione Spy Investigation, in collaborazione con l’Università
Palaparthenope di Napoli. Giornalista professionista dal 2000, Cristiana si è
autodefinita “diavolo”.
Cristiana, che cos’è il giornalismo investigativo a cui è dedicata
Spy investigation?
«Una forma di giornalismo, di quelli che non si fanno granché in Italia.
Protagonisti sono tutti, potenziali cronisti di strada; Spy investigation
nasce dai seminari che svolgo da anni in scuole medie e superiori della Regione
Campania.
L’anno scorso il progetto ha interessato i laureandi di Lettere e Filosofia, del
POLO SUS, quest’anno ho coinvolto anche i ragazzi del carcere di Nisida, che
hanno la possibilità di analizzare a fondo la notizia e imparare a leggerla,
oltre che ad esserne protagonisti principali. Con la collaborazione dell’Università
Parthenope analizziamo, insieme ai ragazzi, otto diversi casi di camorra: il
primo omicidio,
Annalisa Durante, il prossimo,
Carmela Attrice.
Indaghiamo su questi delitti con il supporto delle forze di polizia, che hanno
messo a disposizione i loro tecnici e investigatori. Una visione diversa da
quella, a mio giudizio distorta, che il mondo della comunicazione ha fornito di
questi casi. Ogni delitto è analizzato secondo sette diverse prospettive
specialistiche: quella del medico legale, del criminologo, della polizia
scientifica, della squadra mobile, dell'avvocato penalista, del giornalista e
del vigile del fuoco».
Com’è fatto un giornalista - investigatore?
«E’ curioso e attento. Capisce i limiti oltre i quali non può andare e, quando
si trova sulla scena, sa tacere e osservare. E’ una figura latitante a Napoli,
un’autentica chimera: ci sono solo i soliti vecchi volti noti dei giornali, ma
nelle tv, esclusa
Telecapri, questa figura manca».
Lei è giornalista per passione o per missione?
«Entrambe le cose: credo di avere un buon ascendente su chi mi è accanto perché
cerco di capire cosa mi dice la gente, contrariamente ad altri. Prendo a cuore
cosa dicono e per questo le istituzioni mi guardano con sospetto. In questo
senso viene in gioco quella parte che, più che missionaria, definirei sociale
del giornalismo. Credo che la gente abbia tante, troppe cose da dire, ma non sa
come farlo. È un tema che sarà presente nel mio prossimo libro: Napoli:
vicolo cieco ».
L’informazione istituzionale è in crisi, va più forte quella del
blog di Beppe Grillo.
Come se lo spiega?
«Perché l’informazione di oggi è paccottara. Chi la fa tende a vendersi
alla politica, che può e riesce, ahimè, a tenere le fila. Mi vanto di non aver
mai subito condizionamenti da nessuno, di qualunque schieramento politico. Ho
sempre agito con la massima libertà e il tesserino che ho conseguito con tanti
sacrifici me lo tengo caro! Non lo venderei al politico di turno. Si può
lavorare essendo curatori dell’immagine di qualcuno, politici compresi,
invitandoli a considerare che dietro di loro ci sono persone. Che votando hanno
chiesto aiuto».
Ha
suscitato scalpore e commozione la morte della giornalista russa
Anna Politkovskaya che non esitava a “fare le pulci” ai potenti. Si può
rischiare la vita per amore di un’informazione veritiera?
«Per quanto possa sorprenderla, le rispondo di si. Sarebbe stato un sogno per
me, a cui ho dovuto però rinunciare per ragioni affettive, quello di fare
l’inviata di guerra. Ci vuole molto coraggio perché, ovviamente, i rischi sono
sempre dietro l’angolo, e ne so qualcosa anch’io: tempo fa mi incendiarono
l’automobile… Ma scelsi di andare avanti. Assumendomi ogni responsabilità».
Napoli è una realtà difficile: il mondo della comunicazione può contribuire a
risolvere i suoi problemi?
«Potrebbe farlo se non fosse costantemente al servizio dei palazzi».
Tra tante inchieste e servizi cosa le è rimasto particolarmente impresso?
«La morte di
Manuel Addeo, avvenuta nel 2002 a seguito di un incidente stradale causato
da un sedicenne che guidava senza patente: venne trasportato d’urgenza
all'ospedale Santobono di Napoli. Io mi recai a casa dei genitori per
raccogliere le loro reazioni: non ne sapevano niente, fui io ad avvisarli
dell’incidente. Da allora sono rimasta in contatto con loro e porto sempre con
me una foto del bambino».
Come mai c’è tanto interesse per i casi di cronaca nera, ultimo dei quali
Garlasco?
«Soldi, sesso e sangue è una regola non scritta del giornalismo, spietata
ma vera. Il pubblico vuole questo. Io mi impegno per fornirglielo sotto una luce
diversa. Ad esempio il delitto Durante: analizzando tutte le componenti di
entrambe le parti, quella della famiglia della vittima e quella del clan
Giugliano, senza prendere posizioni ma cercando di far capire al pubblico il
contesto e i risvolti che il delitto ha creato, al di là della vicenda
giudiziaria che, come abbiamo visto, è sfociata nella sentenza d’appello».
A chi si ispira?
«A Carlo Lucarelli
anzitutto, sebbene non sia propriamente un giornalista. E’ un grandissimo
comunicatore per il suo metodo di scomposizione del crimine».
Si è definita diavolo di una Cristiana: diavolo contro chi?
«Posso dirlo? Contro i bastardi (ride, ndr). Sono una persona docile ed
affidabile. Vera. Molto sincera, finché non mi accorgo che qualcosa non va. Non
attacco mai, ma se mi toccano le persone che amo, distruggo. Vendicativa, ecco.
Non dimentico mai di restituire un favore».
In conclusione, Cristiana Barone è una giornalista a prova di bavaglio?
«Se solo lo permettessi, dovrei cambiare mestiere, non sarei più io. Ho chiesto
e ottenuto di essere libera, di fare come meglio credevo, e su questo non
transigerò mai. Quindi, guai a chi prova a imbavagliarmi, in tutti i sensi!»