Telegiornaliste anno II N. 20 (52) del 22 maggio 2006
          
                     Intervista 
					a Enzo Barlocco di Mario Basile
Intervista 
					a Enzo Barlocco di Mario Basile
                    
                    Enzo Barlocco non 
					si definisce un giornalista sportivo, ma uno sportivo 
					giornalista. E' quello che emerge dall'intervista che ha 
					rilasciato in esclusiva a 
					Telegiornaliste.
                    
                    Come ha iniziato a fare questo mestiere?
                    «Direi molto per caso, perché in realtà io, venendo dallo 
					sport attivo - ho giocato a pallanuoto, in nazionale, ho 
					fatto un’Olimpiade, diversi campionati europei, eccetera, 
					ero stato contattato per fare “l’esperto” quando partì la 
					vecchia Telemontecarlo. Circa, se non sbaglio, ventidue o 
					ventitré anni fa. E c’era un programma che parlava di vari 
					sport tra cui la pallanuoto: io illustravo tecnicamente le 
					partite. Poi mi è stato chiesto se me la sentivo di 
					commentare le Olimpiadi di Los Angeles del 1984, 
					naturalmente non sul posto ma un po’ da Montecarlo e un po’ 
					da Milano, da un bugigattolo che avevamo nella sede Rai. E 
					quindi è nata così la cosa. Poi sono stato ancora per molti 
					anni a fare il collaboratore, finché non sono entrato come 
					dipendente nel ’91».
                    
                    Che cosa la affascina maggiormente del suo lavoro?
                    «Mah, per me devo dire da un certo punto di vista, essendo 
					sempre stato all’interno dello sport - che poi fosse 
					pallanuoto, calcio o altro, alla fine ci sono sempre delle 
					radici comuni – è un modo... è stato un modo di prolungare 
					la mia permanenza all’interno dell’ambiente sportivo».
                    
                    Lei si occupa di sport. E’ vero quello che si dice dei 
					giornalisti sportivi: meno preparati degli altri?
                    «(Ride, ndr) Ora qui è una bella lotta secondo me. 
					Nel senso che ci possono essere giornalisti sportivi poco 
					preparati, ma ce ne sono molti anche che si occupano di 
					cronaca, di politica o di altre cose. Io vedo invece una 
					cosa: molti giornalisti sportivi che poi sono passati alla 
					politica e alla cronaca con ottimi risultati. Mi viene in 
					mente Antonio Ghirelli, che era direttore del Corriere 
					dello Sport e poi è stato anche un giornalista politico 
					di buon livello. Ho visto meno giornalisti provenire da 
					altre branche occuparsi di sport. Quindi secondo me non è 
					vera questa cosa».
                    
                    Lei è un esperto di sport d’acqua. Per quale motivo 
					questi sport, nonostante abbiano dato tanto all’Italia a 
					livello di successi, sono meno seguiti rispetto a discipline 
					che ci hanno riservato meno soddisfazioni?
                    «Mah…un po’ perché sono stati commessi molti errori nel 
					passato, diciamo agli albori delle sponsorizzazioni, agli 
					albori dell’interesse della tv nei confronti dei vari sport. 
					Si sono persi degli autobus, dei treni. E quindi poi 
					rimontare è stato difficile. Un po’ perché forse c’è anche 
					una difficoltà oggettiva. Intanto in un’epoca in cui 
					naturalmente è importante e prevalente l’influenza delle 
					sponsorizzazioni, gli sport da piscina hanno ben poco da 
					mettere in mostra. Perché purtroppo quello che spunta è 
					soltanto la testa, ecco. Perciò è difficile che lo sportivo 
					che viene da uno sport acquatico possa trasformarsi in un 
					uomo sandwich, se non quando è al di fuori della sua 
					attività».
                    
                    Nella sua esperienza professionale, quale personaggio 
					dello sport l’ha colpita maggiormente?
                    «Devo dire che ce ne sono tanti. Io posso ricordare con 
					grande partecipazione il fatto di essere stato presente 
					nello stadio di Città del Messico quando John Carlos e Tommy 
					Smith alzarono il pugno con la mano nera, con la mano 
					guantata, che ormai è entrato nella storia… questo mi colpì 
					molto. Anche se poi la conoscenza diretta nei loro confronti 
					non c’è stata, nel senso che ci si incontrava casualmente al 
					villaggio, oppure si faceva qualche partita a ping pong. Ma 
					questo è un episodio che mi aveva colpito molto, ecco. 
					L’atleta che in assoluto mi ha colpito di più è stato 
					Mohammed Alì».
                    
                    Chi sono stati i suoi modelli di giornalismo? Ne ha 
					avuti?
                    «Direi di no, anche perché essendo venuto da altre 
					esperienze non è che mi sono mai ispirato… Potrei dire che 
					quando ero ragazzo mi piaceva leggere gli articoli di Gianni 
					Brera, ecco. Però non posso dire che mi sono ispirato a lui, 
					anche perché ho seguito percorsi completamente diversi».
                    
                    Tra i suoi colleghi chi apprezza di più?
                    «Ce ne sono parecchi. Diventa un po’ antipatico fare dei 
					nomi».
                    
                    Risposta diplomatica.
                    «No, ma potrei dimenticarne qualcuno e questo non mi piace. 
					Poi ce ne sono alcuni che sono apprezzabili: parlando di 
					televisione, ci sono alcuni che sono molto bravi come 
					telecronisti; magari lo sono meno come giornalisti in sé, 
					alcuni che sanno stare bene davanti al video, altri che 
					invece non si vedono mai ma riescono a costruire dei servizi 
					e a presentare le notizie in un modo molto bello».
                    
                    Ci sono tantissimi giovani che sognano di fare i 
					giornalisti. Lei cosa consiglierebbe loro?
                    «Sembra una frase scontata, ma direi che la cosa più 
					importante è studiare. Prima di tutto in senso lato, perché 
					avere cultura è fondamentale in una professione come questa, 
					sennò si rischia di non capire l’importanza delle notizie, 
					di sopravvalutarne alcune e sottovalutarne altre. Poi di non 
					scoraggiarsi alle prime contrarietà, perché questa è una 
					professione che è abbastanza anomala e non segue dei 
					percorsi lineari. Ci sono alcuni che riescono a trovare 
					subito la strada, altri che si massacrano in interminabili 
					liste di attesa. Non è un momento facile questo, sicuramente 
					no. Perché le leggi, cioè i nuovi contratti, sono abbastanza 
					penalizzanti. Non vedo un futuro molto luminoso. Questo 
					aldilà della professione, che invece è stimolante».