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Intervista a Niki Barbati tutte le interviste
Telegiornaliste anno II N. 26 (58) del 3 luglio 2006

Scarpe buone e un quaderno di appunti di Antonella Lombardi

Giornalista di lungo corso della carta stampata, napoletano, Niki Barbati si è occupato per oltre dieci anni di televisione e, in precedenza, di cronaca. Ha lavorato al Messaggero Veneto, al Tempo, e ora è vice caposervizio degli interni al Messaggero di Roma. Ha seguito gli anni di piombo della cronaca italiana, la nascita della tv commerciale e, ora, seppure saltuariamente, anche lo sport.

Ricorda, divertito, di quando gli show di Benigni e Celentano lo “costringevano” a riscrivere in fretta gli articoli per diverse volte…

Come hai iniziato?
«Accedere alla professione giornalistica è una delle cose più difficili da ottenere. La mia gavetta inizia da un giornale di provincia, il Messaggero Veneto, a Udine. Lì riempivamo sei pagine di cronaca per una città di 80.000 abitanti. Una gavetta nel vero senso della parola: non è facile misurarsi con l'esigenza quotidiana di trovare notizie di bianca o di nera e riempire tante pagine per una cittadina tranquilla. Così ho fatto l’emigrante, da Napoli a Udine, nonostante la scuola napoletana del giornalismo abbia padri illustri, basti pensare a firme come Antonio Ghirelli, Gino Palumbo, Carlo Nazzaro, storico direttore del Roma e Mario Stefanile, famoso critico letterario».

Di cosa si occupa il vice caposervizio degli interni?
«Durante la quotidiana riunione di redazione decide con altri quali sono gli argomenti da privilegiare nelle varie sezioni, poi coordina, impagina e titola, cercando di organizzare le notizie nella pagina con una certa coerenza».

Tutto ciò in tempi folli…
«Sì, i tempi sono strettissimi. Meno in alcune parti della giornata, ma quando si avvicina l’orario di chiusura si deve andare a tamburo battente. Grazie al computer è possibile cambiare il giornale a una velocità prima impensabile».

Questo processo vi permette di stare molto di più sulla notizia…
«Si, è uno dei pochissimi meriti del computer».

Mai capitato di non fare in tempo o non sapere come chiudere un pezzo?
«No, non può capitare, altrimenti cambi mestiere».

Dopo Udine sei andato a Roma…
«Sì, qui ho seguito le vicende legate alle Brigate Rosse, i famosi anni di piombo, quando c’era un morto al giorno. Ricordo che quando arrestarono la Mambro uscii dalla redazione la mattina per la segnalazione di una banalissima rapina alle poste a Roma ma, strada facendo, si capiva che non poteva trattarsi di una semplice rapina e che dietro c’erano i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari); c’era stato un conflitto a fuoco e lei era stata ferita… Sono tornato al giornale la sera alle 22.00 e, una volta arrivato, ho dovuto scrivere al volo tutto quanto».

Come si riesce a registrare gli eventi senza farsi coinvolgere troppo emotivamente?
«E’ una capacità che si acquisisce col tempo e che il giornalista deve avere. Bisogna separare le emozioni dal proprio lavoro. Non è piacevole per nessuno vedere ciò che resta del cadavere di un uomo che si è gettato dal sesto piano di un palazzo».

Serve un pizzico di cinismo?
«No, non c’è nessun cinismo, perché un professionista è capace di mettere da parte le emozioni e raccontare quello che è successo».

Ci sono episodi di cronaca che ti hanno colpito particolarmente?
«In genere i casi che riguardano i bambini, come Cogne o i due fratellini di Gravina scomparsi; oppure grandi eventi come il crollo delle Torri Gemelle o la morte di Papa Wojtyla; un evento nel vero senso della parola, sia dal punto di vista religioso che giornalistico».

Non credi che, nel caso di Cogne, ci sia stata un’esagerazione, magari da una certa parte dell’informazione che ha trasformato quel caso in uno show, sacrificando la notizia?
«Bisogna distinguere i giornali e i tg dai talk show e dai rotocalchi. Non credo si sia esagerato. La gente voleva sapere cosa era successo; adesso è stanca, perché nel frattempo la notizia è diventata vecchia, ma è così per tutti i fatti di cronaca, il nostro compito è informare l’opinione pubblica nel momento in cui un fatto succede, sta al lettore la scelta di cambiare pagina o canale, se questa non gli interessa».

Spesso si dice che nel modo di fare oggi giornalismo si fa meno cronaca e si passa più tempo davanti al monitor di un computer, consumando meno le suole delle scarpe per andare in giro a cercare la notizia. E’ così?
«No, non è vero. Un giornale come il Messaggero vende soprattutto grazie alla cronaca e allo sport. Gli eventi della città vanno seguiti consumando le proprie scarpe, sfruttando tutti i contatti utili che si hanno e, se non si fa così, il giorno dopo la differenza con le altre testate si nota. Non è un lavoro che si possa fare a tavolino.
Può capitare, quando si riceve una notizia da un posto fisicamente irraggiungibile, di dover rielaborare un’agenzia di stampa, ma è un’operazione che si sente, a meno che non si abbiano le capacità di uno scrittore come Dino Buzzati».

Nei vari passaggi da un settore all’altro del giornale, avevi un caporedattore che ti seguiva per spiegarti un po’ le cose?
«No, questo è un mestiere che si ruba agli altri: guardi, osservi, leggi e ti fai le ossa da solo, poi magari un articolo può venirti meglio di un altro ma è una cosa da mettere in conto. Però il professionista più anziano che ti consegna le chiavi della professione e i suoi trucchi c’è sempre, anche se non è una figura istituzionale».

Un bello stimolo…
«Sì, è un bello stimolo, ma a volte molto snervante. Quando stai chiudendo il giornale guardi le agenzie di stampa sperando che nel frattempo non sia successo nulla, per avere quantomeno il tempo di mandare in stampa quello che hai fatto, poi si rimette tutto in discussione. Nell’ultima mezz’ora preghi sempre che non succeda niente».

La sensazione che si ha dall’esterno dell’ambiente giornalistico è quella di un ambiente molto chiuso, dove a girare sono sempre i soliti nomi.
«Questa professione prima si tramandava di padre in figlio, adesso non più. Oggi ci sono i ragazzi che escono dalla scuole di giornalismo e poi quelli che scelgono la strada coraggiosa del free lance dove va avanti il migliore; è una strada rischiosa, ma come tutte le libere professioni, può dare le sue soddisfazioni».

Si è più liberi da free lance?
«Indubbiamente sì, ma si è anche più responsabili verso se stessi e non sempre è piacevole. Ogni giorno si devono avere idee nuove da proporre al giornale che può bocciarle tutte: in tal caso non ci si deve demoralizzare ma continuare ad essere propositivi».

Come vedi oggi questa precarizzazione nel giornalismo e perché adesso si fanno molti più scioperi di prima?
«E’ un braccio di ferro tra giornalisti ed editori e come tutte le lotte contrattuali alla fine troverà uno sbocco. Prima c’erano gli editori puri che si occupavano solamente dei giornali, adesso invece ci sono grandi capitali che, in parte, vengono dirottati nell’editoria».

Dopo la cronaca ti sei occupato di televisione.
«E’ stata un’esperienza divertentissima dove ho conosciuto un mondo totalmente nuovo. Erano gli anni in cui nasceva Mediaset, dell’arrivo a Canale 5 di personaggi come Raffaella Carrà e Pippo Baudo, e di Berlusconi che, all’epoca, era soltanto il proprietario della televisione…».

E’ vero che quando Benigni fece la sua “irruzione” a Fantastico mettendo in imbarazzo la Carrà hai dovuto rifare quattro volte il pezzo?
«Con Benigni non sai mai cosa succederà e cosa dirà, anche perché spesso non lo sa nemmeno lui… Chi, come me, si occupava di televisione, seguiva l’evento per poter fare poi il resoconto sul giornale. All’inizio si prepara subito un pezzo finto, mantenendosi sul vago per la prima edizione, poi guardi la tv e aggiorni di continuo il primo pezzo. Con Benigni e con Celentano lo stesso articolo si riscrive tre o quattro volte… Gli altri ridono e tu invece lavori mentre qualcuno pensa pure che ti stai divertendo!».

Adesso invece ti occupi di sport?
«Quando ci sono grandi eventi come le Olimpiadi o i Mondiali alcune persone vengono spostate per dare una mano nella redazione, ma non si occupano stabilmente di quello».

A proposito di sport, che idea ti sei fatto di Moggi e “calciopoli”?
«Succede un po’ dappertutto, non solamente in Italia. E’ accaduto anche in Germania e credo ci siano altri settori dove può accadere. Il calcio è molto più importante perché muove molti più soldi».

Non è irritante sentir dire: «si sapeva, ce lo aspettavamo». La gente comune, i tifosi sono sembrati delusi nel vedere così colpiti i valori fondanti dello sport…
«Però gli stessi tifosi che prima accusavano ora hanno almeno la soddisfazione di poter dire “lo sapevo!”. Adesso sono tutti attaccati al televisore a seguire la nazionale, anche perché lo scandalo ha riguardato, per fortuna, le strutture, i dirigenti, ma non i giocatori».

E come giudichi la dichiarazione di Cannavaro, corretta il giorno successivo?
«La dichiarazione di un giocatore tifoso, d’istinto».

Anche tu credi che per via di calciopoli tutti gli occhi saranno puntati sull’Italia?
«In realtà sì, non siamo molto amati all’estero, basti ricordare l’arbitro Moreno in Corea».

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