Telegiornaliste
anno IV N. 38 (163) del 27 ottobre 2008
A Scuola di Rock,
cinquant'anni di storia
di Valeria Scotti
Elvis, i Beatles, i Rolling Stones. E poi i Led
Zeppelin, i Deep Purple, i Pink Floyd e i Queen.
Sono solo alcuni dei grandi nomi racchiusi nel
primo corso in storia del pop-rock dagli anni
Cinquanta ad oggi, curato dai critici musicali
Carmine Aymone e
Michelangelo
Iossa, con il patrocinio morale
dell’Ordine dei Giornalisti della Campania e
dell’Università degli Studi di Napoli Suor
Orsola Benincasa. Gli otto appuntamenti, alla
Fnac di Napoli, vedono i riflettori
puntati sul rock e sulla sua evoluzione con
l’ausilio di documenti sonori, memorabilia
d’autore e interventi di musicisti.
Abbiamo incontrato i due giornalisti a metà di
questo percorso che si concluderà il 17
novembre.
Come è nata l’idea di proporre un corso di
storia del rock?
Michelangelo: «Il corso è nato dalla
congiuntura di tanti fattori che affondano le
radici già nel 2005. Carmine fu tra i primi a
Napoli a istituire degli incontri tematici -
School of Rock e School of Jazz - al
Teatro Spazio Libero. Contemporaneamente io
organizzavo alla Fnac il ciclo tematico in
quattro appuntamenti Non Sono Solo Canzonette,
incentrato sull’evoluzione e la storia della
forma-canzone. Durante uno di questi
appuntamenti, io e Carmine notammo che lavorare
insieme attirava molto più pubblico. La Fnac ci
chiese allora di organizzare dei cicli a doppia
firma fino ad arrivare a un incontro cult,
Voce Chitarra Basso e Batteria - cinque
puntate a novembre 2007 - che ha totalizzato
seicento persone. Grazie a questi successi,
abbiamo strutturato un vero e proprio corso e
scoperto una cattedra di storia del rock
esistente a San Francisco».
Chi sono gli allievi di questo corso?
Carmine: «Con somma gioia e soddisfazione,
ci segue una fascia trasversale che abbraccia
sia il giovane appassionato di chitarra che il
sessantenne, e così via. Ci vengono ad ascoltare
i nostalgici di Woodstock, chi seguiva i Guns N'
Roses negli anni Novanta e oggi ascolta i Muse.
Evidentemente il rock piace, coinvolge e
continua ad appassionare».
Entrambi collezionisti di cimeli della storia
del rock. A quali siete più affezionati?
Carmine: «Ce ne sono molti: le pelli di
batterie autografate da alcuni dei più grandi
batteristi del mondo, gli autografi di Eric
Clapton e Paul McCartney. E poi, essendo un fan
dei Led Zeppelin, i dischi autografati da Robert
Plant o quelli dei Genesis firmati da Steve
Hackett».
Michelangelo: «Come oggettistica
personale, sono legato a tutto ciò che fa parte
dell’universo Beatles. Come i due autografi di
Paul McCartney che ho incontrato nel 2001 a
Milano dopo un’attesa di 12 ore, o il biglietto
e il libretto del Concert for George del
2002, un tributo che Eric Clapton organizzò a
Londra, a un anno dalla scomparsa di Harrison,
con alcuni dei più grandi nomi della storia del
rock».
Quali sono i cambiamenti che il rock ha
affrontato dagli anni Cinquanta a oggi?
Carmine: «E’ cambiato il modo di vendere
il rock e ne è cambiata anche un po’ l’essenza.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, i capi
del mondo come Clinton e il suo sax o Tony Blair
alla chitarra, si definivano delle rock star. Un
concetto assurdo se si pensa che, vent’anni
prima, il rock era nato proprio per contrastare
il potere. Il rock è diventato schiavo del
sistema: si è modificato ma non si è evoluto.
Negli ultimi anni è abbastanza in stand by.
Credo che l’ultimo colpo di coda sia stato nel
1991 con
Nevermind dei Nirvana: spazzarono tutto
quello che c’era e tornarono alle origini. Dagli
anni Cinquanta fino agli anni Settanta è stato
quasi inventato tutto e ci si rende conto che è
difficile ora proporsi in maniera originale, ma
chi ci riesce merita ancora più pregio e lustro.
Credo anche stia diminuendo un po’ la cultura
del rock: prima andava di pari passo con la
letteratura, con l’arte, la poesia, ora i
settori della cultura sono isolati e dalla non
mescolanza non può nascere quel brodo
primordiale, la scintilla che generò quel
battito di batteria che ha dato vita a ciò di
cui noi parliamo».
Tra i propositi del corso, c'è quello di
educare all’ascolto. In che modo?
Carmine: «Il nostro educare all’ascolto
significa proporre quello che le radio, le reti
come All Music e Mtv Italia, i programmi come
Scalo 76 non passano. Nel nostro piccolo
proviamo a fare ascoltare quello che i nostri
padri e i nostri nonni riuscivano a rubacchiare
dalle prime radio libere. Vogliamo far scoprire
il rock, quell’altra faccia della musica che non
arriva perché, secondo alcuni, non vende».
Michelangelo: «Partiamo sempre da un dato
emozionale: l’ascolto è il primissimo
ingrediente. Il rock poi si nutre di citazioni
continue, quasi estenuanti. Fare il critico
musicale significa mettere in gioco la propria
sensibilità, nutrirsi continuamente di contenuti
culturali ed associare ogni brano al contesto
sociale del suo tempo. Qualche anno fa, ci si
incontrava nelle case a gruppi di almeno due,
tre persone, come fossero dei reading di poesia.
Si prendevano i dischi dalle proprie collezioni,
si ascoltavano, s’imparavano i credits a
memoria. Si viveva materialmente il disco, la
sua genesi. Oggi con l’Mp3 non si può più fare
questo, non c’è più, purtroppo, la cultura di
aprire un disco e di maneggiarlo».