Telegiornaliste
anno IV N. 9 (134) del 10 marzo 2008
Peppe Argiuolo: basket, la mia grande passione
di Pierpaolo Di Paolo
Giornalista professionista, Peppe
Argiuolo è un volto e una voce nota soprattutto ai telespettatori campani.
E’ da sempre il telecronista ufficiale del Basket Napoli. Vincitori di numerosi
premi, dal 1996 collabora con Telelibera.
Sei dirigente dell’Arzano basket in C2. Ci parli di questa avventura?
«Sono stato uno dei soci fondatori di questa società. Da sette anni, dopo un
lungo periodo lontano dal basket attivo, mi sono riavvicinato, anche se grazie
al mio lavoro di giornalista ho sempre continuato a vivere il basket con le
telecronache della Eldo, il lavoro sui giornali e su Internet. Sicuramente
l’esperienza diretta è tutta un’altra cosa per quanto complementare a quello che
è il lavoro da giornalista, per i rapporti con i giocatori, con l’allenatore,
con la federazione. E’ molto impegnativo, a prescindere dalla categoria in cui
operi: ti prende tempo e non porta guadagno, quindi è giustificato unicamente
dalla mia profonda passione per questo sport. Vivo e respiro pallacanestro tutto
i giorni e questo mi soddisfa più di qualunque guadagno».
In questo modo sei passato dal ruolo di chi commenta a quello di chi “scende
in campo”. Stando dall’altra parte della barricata ti è mai capitato di provare
insofferenza verso gli atteggiamenti dei giornalisti? Verso quelle critiche o
pressioni eccessive che spesso sono il condimento del giornalismo sportivo?
«Mi è capitato molte volte di vivere questo conflitto, però non mi sono mai
arrabbiato. Conosco la metodologia del lavoro, conosco la volontà e spesso la
necessità dei giornali di forzare un titolo per avere un minimo di notizia, e
quindi ho metabolizzato tante situazioni sempre con grande serenità. Certo,
quando subisci il pezzo di un collega può succedere che per dieci secondi ti
arrabbi, poi capisci che non è scritto per ferirti ma perché è proprio questo
lavoro che ti porta spesso e volentieri a forzare un po' i toni».
Serie A: a cosa attribuisci l’anomalia di questo campionato in cui grandi
come la Benetton Tv, l’Armani Mi, la Eldo Na galleggiano sulla zona
retrocessione mentre le provinciali come Avellino, Montegranaro o Biella si
battono per posizioni prestigiose? E’ vero che è un campionato livellato verso
il basso?
«Ritengo che il livello non si sia assolutamente abbassato. E’ vero che fino a
dieci anni fa qui vedevamo giocatori come Danilovic o Ginobili, una tipologia di
campioni che adesso non arrivano più a calcare i nostri parquet, ma sono già
diversi anni che la nostra pallacanestro vi ha dovuto rinunciare perché fa
fatica a reggere la concorrenza con altri campionati esteri, come quello
spagnolo o quello russo. Non sono affatto d’accordo che questo campionato si sia
assestato su uno standard più basso del solito. In realtà, il fenomeno delle
provinciali in Italia, secondo me, ha radici casuali».
Quindi ritieni che Avellino abbia vinto la Coppa Italia e sia seconda in
classifica per un caso?
«Nella pallacanestro i soldi contano solo fino a un certo punto. Se programmi
con attenzione, chiudi la squadra subito, la completi in estate senza
stravolgerla dopo e lavori sempre con lo stesso gruppo, dando fiducia
all’allenatore e all’ambiente, allora i risultati arrivano. Questo è uno sport
che porta a cambiare continuamente le squadre a causa dei regolamenti sul numero
degli stranieri e a causa di risultati che non sempre possono venire subito,
anche a fronte di investimenti importanti. Quindi se hai una società con la
forza e la serenità necessaria a mantenere il gruppo, a superare qualche
sconfitta senza stravolgimenti come ha fatto Avellino, i risultati arrivano. Lo
stesso processo lo hanno fatto Montegranaro e Biella, ma non le altre. Milano e
Benetton, alle prime difficoltà, hanno cambiato. E queste sono scelte che non
portano mai frutti in tempi brevi. Siena resta un caso a parte, ma anche qui
parliamo di grande programmazione. Infatti, rispetto alla squadra che ha vinto
l’ultimo campionato, sono stati fatti degli innesti mirati, ma la matrice del
gruppo è rimasta fondamentalmente quella dell’anno scorso».
Cosa è cambiato per la Eldo con il passaggio dal vecchio presidente De Piano
all’attuale Maione?
«De Piano era un personaggio figlio di un’altra pallacanestro, non c’erano
ancora le sezioni marketing e tutte queste belle parole inglesi che circolano
attualmente. Lui veniva da un basket a carattere familiare, in un periodo
storico ricco di personaggi di questo tipo. I presidenti facevano di tutto per
assecondare quella che era la loro più grande passione: andavano in America e
prendevano i giocatori spinti soprattutto dall’emozione e dal tifo. Maione è un
presidente che, pur essendo un tifoso e un grande appassionato, è anche un
manager: viene dall’ambiente dell’industria e quindi si regola di conseguenza.
All’inizio tendeva ad andare sopra le righe, si faceva prendere dall’emotività,
rilasciava dichiarazioni esplosive, ma resta una figura completamente diversa,
anche se accomunata dalla stessa grande passione per la squadra».
Ricordi qualche aneddoto in particolare su De Piano?
«Nella memoria dei tifosi è rimasto senza dubbio l’ingaggio di Walter Berry, che
poi si è rivelato uno dei migliori stranieri di tutti i tempi, un talento
davvero fuori dal comune. Per convincere questo ragazzone americano ci fu una
trattativa estenuante, condotta per più di 12 ore in un noto hotel del lungomare
partenopeo. Il contratto non fu concluso dal presidente in prima persona ma
dalla moglie, che spesso gestiva direttamente gli affari del marito. In quel
caso, condusse in porto uno degli ingaggi più importanti del basket italiano».
Il calcio sta attraversando uno dei periodi più neri della sua storia per le
gravi vicende di violenza che conosciamo. E’ un problema che può esplodere anche
nel basket, o le due realtà sono così diverse da farci sperare che qui non
dovremo mai assistere a queste degenerazioni?
«Il problema del tifo violento non è assolutamente estraneo al mondo del basket,
anche se si tratta di briciole rispetto a quanto vediamo e ascoltiamo
relativamente al mondo del calcio. Io credo che la differenza sostanziale tra
calcio e basket sia nel target di riferimento di questi sport: il calcio è uno
sport per tutti, e tra i tutti ci sono personaggi che non vengono a godersi
l’evento, ma sfruttano il pretesto per sfogare la loro aggressività, le loro
tensioni quotidiane, la loro violenza. Il basket, invece, si avvicina a un
pubblico dal target molto delineato, ragazzi dai 10-12 fino ai 40-45 anni di un
ceto sociale tendenzialmente molto più elevato, essendo la pallacanestro uno
sport di nicchia e più complicato da comprendere e seguire. Quindi è un discorso
di natura sociologica. Certo, siccome la mamma dei fessi è sempre incinta, ogni
tanto anche qui capita la testa calda che compie qualche gesto da condannare».
Basket femminile: la Phard Napoli, a differenza della Eldo, si conferma ogni
anno sempre a livelli alti o medio–alti. A livello femminile è più facile
confermarsi nel tempo su uno standard elevato di risultati?
«Non credo sia così. Piuttosto credo nella programmazione attenta e nel lavoro
certosino della società, la quale non si lascia sfuggire mai nulla e interviene
in maniera sempre molto attenta sul mercato, rinnovandosi ogni anno con grande
competenza. Quando si arriva ai vertici nazionali di uno sport non c’è mai
fortuna e non è giusto pensare che sia più semplice gestire un gruppo a livello
femminile. Per il successo a qualsiasi livello, occorre sempre grande
programmazione e competenza».