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Telegiornaliste anno V N. 21 (192) del 1 giugno 2009
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MONITOR Serenella Medori, l'arte della
pubblicità di TonyJay,
Valeria Scotti,
Deborah Comoglio
Grazie alla collaborazione con
Radio
Web Stereo, questa settimana abbiamo raggiunto
Serenella Medori,
autrice di Da Carosello allo spot cult (Sette Città Editore).
Il tuo è un libro sulla pubblicità. Come è
partita l'idea?
«Ci sono cose che andrebbero spiegate, commentate,
filtrate in tanti modi e per farlo ci vogliono le parole. Non basta
semplicemente mettersi davanti alla televisione e guardare le immagini. Molte
persone poi odiano la pubblicità. Io invece le registro e le colleziono».
Tutti dicono infatti di odiare la pubblicità. Poi
però nascono siti, forum, cd musicali con le colonne sonore degli spot.
«Gli spot implicano anche la musica. Anzi, spesso
basterebbe solo quella. Alcune persone diventano amanti di questo settore e
arrivano a fare scambi con collezionisti».
Come mai nelle pubblicità si tende sempre meno a
utilizzare jingle ad hoc e si preferiscono brani già conosciuti?
«Forse perché il jingle era un classico delle
vecchie pubblicità. Oggi, utilizzando basi musicali già note, si porta lo
spettatore a doverle riconoscere, quasi fosse un gioco da salotto».
In fondo la pubblicità è un prodigio di tecnica:
in pochi secondi deve convincerti di qualcosa.
«Sì, è veramente un'arte della comunicazione. Per me
è l'arte moderna delle arti perché le riassume tutte; è soprattutto una sfida
continua, si evolve, cresce, cambia nei tempi».
Carosello, la genesi della pubblicità. Veri e
propri cortometraggi.
«Sì, storie a cui alla fine si metteva il cosiddetto
codino che si agganciava al prodotto. Adesso, se si vanno a vedere quei vecchi
filmati, fanno sorridere proprio perché spesso c'era uno scollamento totale tra
la storia e il prodotto».
La pubblicità comunque oggi è sparsa ovunque nel
palinsesto.
«Sì, è qualcosa di molto sottile, impertinente.
Secondo me gode di vita propria. Quando parlo della pubblicità penso ad una
persona che ha un suo sviluppo ma che è immortale».
Come sottolinei nel tuo libro, spesso è la
pubblicità a creare il prodotto. Un po' come quando si dice che i giornalisti
creano la notizia. Ci sono affinità tra il lavoro del giornalista e quello del
pubblicitario?
«Spesso il giornalista si trova a dover fare
pubblicità a degli eventi anziché informare come la sua indole vorrebbe; te ne
accorgi perché c'è un tipo di enfasi, una serie di aggettivi, un modo di
costruire l'articolo che, più che informazione, sembra pubblicità. Purtroppo fa
parte del gioco».
Come cambieresti la pubblicità odierna?
«Non cambierei nulla della pubblicità, è un prodotto
di tanti creativi, alcuni all'avanguardia, altri un po' retrò. Semmai aspetto di
vedere come cambierà la loro creatività con il passare del tempo».
E come vedi la televisione del futuro?
«Al momento ho molti dubbi sull'alta definizione: se
si produce in HD e non si cambiamo gli apparecchi, la maggior parte delle
persone non può comunque usufruirne. Punterei invece alla web tv: ha un ingombro
minimo, ti trova dovunque, è on demand
quindi puoi tranquillamente decidere cosa vedere e
quando e rispecchia di più i gusti dello spettatore».
Possiamo definirti un'amante e una maniaca della
pubblicità?
«Amante è poco. Maniaca è più corretto».
Un tuo pensiero su Telegiornaliste?
«Fantastico, è un settimanale che ti offre
l'approfondimento rispetto alle corse di ogni giorno. Si legge volentieri, è
impostato davvero bene e tratta vari argomenti, non solo in rosa». |
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CRONACA IN ROSA Papi, rispondi!
di Camilla Cortese
Il fatto è palese, reale, non è una
montatura della sinistra: a seguito del rifiuto del presidente del Consiglio di
rispondere alle
dieci domande poste dal quotidiano La Repubblica circa i suoi
rapporti con la teenager Noemi Letizia, 76.000 persone hanno aderito al gruppo
su Facebook Berlusconi, rispondi!!!. Non cinque, dieci, cento puzzoni
comunisti. Sono settantaseimila cittadini che non accettano l’immunità,
l’impunità, l’arroganza, la leggerezza, il disprezzo della legalità, del decoro
e delle più elementari forme di democrazia di colui che guida il nostro Governo.
Un caso, quello delle dieci domande, che
Berlusconi e il suo entourage hanno inizialmente affrontato con la tattica della
bolla: prima o poi, si sgonfia. Invece La Repubblica non molla, attaccata
dalla coalizione di centrodestra e lasciata colpevolmente sola dalla stampa
nazionale a combattere in nome della libertà di stampa e della
democrazia, e scopre che su Facebook è nato un gruppo di supporto alla
causa. In parlamento l’Italia dei Valori tuona «Risponda!», poi l’editoriale su
Famiglia Cristiana
chiede chiarezza e infligge il colpo di
grazia, infine l’amico-nemico Umberto Bossi, cercando di difendere il premier,
cita il Viagra e gli dà del vecchietto.
Partiamo da un concetto chiave: la vita
privata di un personaggio pubblico non è integralmente un fatto privato.
Chi, per definizione e ruolo, diventa un personaggio pubblico rinuncia di fatto,
per i privilegi di cui gode, a una parte della privacy che spetta invece
all’uomo della strada. Per questo motivo, essendo più soggetto a violazioni,
intrusioni e manipolazioni, può difendersi con gli strumenti della diffamazione
a mezzo stampa e della querela. Come mai Berlusconi non querela? Ebbene non può,
non ci sono gli estremi, le domande di
Repubblica sono legittime, e lui lo
sa bene.
Allora mugugna, s’indigna iracondo, si fa
riservare un posto in business class
dal suo personale Caronte, un Bruno Vespa
più che mai prono allo sfogo del santo peccatore e pronto a traghettarlo verso
l’Ade del monologo auto-giustificativo. Sollevare il nasino, sbattere i piedini
e fare l’offeso è una bella tattica, pare abbia un tale e pericoloso impatto
sull’inebetito pubblico televisivo che i media stranieri la stanno definendo
“un tentativo di intimidire il dissenso”
(cit. The Times, 18 maggio 2009 -
Public Duty and Private Vendetta).
Questo fatto non è un caso. È il pacchiano
putto di ghiaccio che si scioglie alla fine del banchetto di nozze tra
Berlusconi e gli italiani. E mentre lui benedice vecchiette (sue coetanee,
ricordiamolo) fra i terremotati e attacca gravemente la magistratura italiana
parlando di «grumi eversivi» e confermando convinto il concetto (lesivo
dell'ordine giudiziario, ricordiamolo), la stampa straniera sussulta,
attonita innanzi al regime omertoso in cui ci troviamo, collocandoci tutti nel
Berlusconistan (cit. The Times, 29 maggio 2009 - Berlusconi and
the Girl: No Spice, Thank You): grazie Cavaliere per l’ennesimo imbarazzante
epiteto che ci appioppano.
Altro disco rotto, la canzone della stampa
di sinistra, delle toghe rosse e dei viscidi
comunisti rivoltosi. Un motivetto vacillante
intonato ormai solo da una manciata di
tirapiedi del Pdl, la cui confutazione si
snocciola in poche cifre: Fininvest, la
holding di cui Berlusconi possiede il 61%
(il restante è ripartito fra i cinque
figli), controlla a sua volta anche Mediaset
e Mondadori. Berlusconi possiede il
40% di Mediaset ed è azionista di
maggioranza di Mondadori (interamente
controllata dalla famiglia Berlusconi).
Mediaset possiede 26 società nell’ambito
delle telecomunicazioni e dello spettacolo,
4 canali analogici terrestri, 17 canali
digitali terrestri, 8 canali digitali
satellitari in Italia e all’estero, 42
piattaforme digitali pay-tv e pay-per-view,
7 testate giornalistiche; Mondadori
controlla 11 case editrici, 22 collane
editoriali, 22 testate giornalistiche. Nel
caso il padrone sentisse il bisogno di
ribadire le proprie ragioni.
Ma guardiamo avanti, oltre le risposte che
ha promesso di dare, verso quelle che non
deve mai più pronunciare, perché purtroppo
gli italiani esasperati non possono
chiedergli il divorzio. Cavaliere, quando
risponderà, risparmi la propaganda e provi a
non utilizzare le seguenti frasi: «è un
complotto della stampa di sinistra», «è
tutta una montatura dell’opposizione»,
«stavo scherzando, mi avete frainteso», «io
sono uno che ama la gente», «ci sono giudici
di sinistra che sono miei nemici» e «gli
italiani mi amano e mi voteranno ancora».
Altri argomenti, 76.000 persone
pretendono altri argomenti. |
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Non
Pensarci, la serie sbarca su Fox
di Federica Santoro
Dopo il successo del film Non Pensarci,
la divertente famiglia Nardini approda in tv con una
serie in 12 episodi. Il ritratto divertente e
surreale di una famiglia costantemente sull’orlo di
una crisi di nervi che ha conquistato pubblico e
critica: dalle Giornate degli Autori della
Mostra del Cinema di Venezia 2007 la serie ha
attraversato il mondo dalle vetrine dei Festival
Internazionali (Shanghai, Taipei, Istanbul, San
Paolo, Tokyo) riscuotendo sempre grande successo.
Tutto merito di un cast che vede alcuni dei migliori
interpreti del cinema italiano: Valerio
Mastandrea, Giuseppe Battiston, (entrambi
nominati ai David 2009 per la loro interpretazione
nel film) Anita Caprioli, Caterina Murino,
Gisella Burinato, Teco Celio, Paolo Sassanelli,
Luciano Scarpa, Paolo Briguglia. Novità
dell’edizione televisiva la partecipazione di
Luciana Littizzetto.
La storia, ispirata al film, è un crescendo di
situazioni tragicomiche in cui i ricchi e facoltosi
imprenditori romagnoli, trovatisi all’improvviso in
piena bancarotta, cercheranno di barcamenarsi alla
meglio. Alberto (Giuseppe Battiston), posato e con
un gran senso del dovere, prende la guida
dell’azienda di famiglia ma i suoi problemi privati
interferiscono continuamente nella gestione
dell’attività; Stefano (Valerio Mastandrea) è
l’esatto contrario di Alberto: musicista rock con
una carriera incerta, ha tentato il successo nella
capitale ma con scarsa fortuna; anche la madre,
Silvana (Gisella Burinato), è in difficoltà: vive
sotto l’effetto di psicofarmaci, si affida a
tecniche sciamaniche e tiene sedute spiritiche con
la sua parrucchiera e amica Marta (Luciana
Littizzetto) per combattere la depressione; Michela
(Anita Caprioli), che ha rinunciato ad una
prestigiosa cattedra all’estero per restare in
provincia. Tutti insieme dovranno affrontare la
bancarotta imminente, gli operai in rivolta,
l’infarto di Walter, il padre (Teco Celio).
La regia di Non Pensarci – la serie è di
Gianni Zanasi (Non Pensarci, A domani,
Fuori di Me) e Lucio Pellegrini (E
allora mambo, Ora o mai più, Tandem);
soggetto e sceneggiatura sono di Gianni Zanasi,
Michele Pellegrini e Lucio Pellegrini. |
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CULT Hard
rock divino di
Valeria Scotti
Ashira è l'acronimo di due parole
ebraiche, ragazze e canzoni. Sei artiste,
Yael Taitz, Pnina Weintraub, Maayan Schweitzer,
Hagit Tawil, Inbar Perser Gessner e Lia Bagrish,
età media 25 anni, che si conoscono dai tempi
del liceo – rigorosamente religioso - e decidono
di intraprendere una carriera artistica in
comune, complici le audizioni all'università Bar
Ilan.
Israele: fazzoletti in testa, gonne lunghe,
sandali ai piedi. Le Ashira, nei loro abiti
castigati, non hanno nulla a che vedere con le
classiche rock band. No a fan urlanti,
folle e svenimenti da tour: il gruppo si
esibisce in locali e bar diffondendo un
messaggio religioso. Un sound duro, come spiega
la violinista Pnina: «Siamo partite dall’idea di
creare più conoscenza e cultura intorno al mondo
religioso e la scelta è stata di creare un
genere che prima non esisteva: un rock femminile
che mischi, in ebraico, la Bibbia ai
gusti giovanili».
Niente animo commerciale. Il gruppo non ha al
momento una casa discografica, non ha inciso un
disco e in rete non è possibile il download
forsennato delle loro voci. Eppure le Ashira
sono un vero fenomeno. Si esibiscono col capo
coperto, come impone la tradizione, e cantano
solo davanti a un pubblico femminile, per non
venir meno alla rigida legge che vieta la
presenza di uomini. «Secondo il precetto
nessun uomo può ascoltare una donna che canta
- ha continuato Pnina - e noi ci atteniamo alla
regola. Se suonassimo e basta, non ci sarebbero
impedimenti. Ma la nostra particolarità, più che
la musica, sono proprio le parole: i versi della
Bibbia, le preghiere messe a ritmo rock. E
allora, nessuna eccezione: una volta è venuto a
uno spettacolo anche mio padre, ma ha dovuto
aspettare fuori».
Stessa sorte tocca ai mariti. Tre della rockband
sono infatti sposate e i loro consorti non
smettono di trasmettere il loro sostegno,
rigorosamente dietro le quinte. Insieme nella
buona e nella cattiva sorte. |
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DONNE Sonia
Gandhi, l'italiana d'India di
Deborah Iaizzo
Anche se il nome di Sonia Gandhi,
secondo Forbes tra le 100 donne
influenti al mondo, rimanda alla più
importante famiglia indiana, colei che lo
porta è nata nel 1946 come Sonia Maino,
italiana di Lusiana, sull’Altopiano di
Asiago, poi trasferita ad Orbassano, in
provincia di Torino, con la famiglia.
L’inizio della storia potrebbe essere la
descrizione della vita di una qualsiasi
ragazza, che per imparare meglio l’inglese
decide di recarsi in Inghilterra. Qui però
Sonia incontra Rajiv Gandhi, figlio
del Primo ministro indiano Indira Gandhi che
studia all’università di Cambridge. Nel 1968
i due si sposano pur non avendo
l’approvazione delle famiglie. Come italiana
e cristiana Sonia non viene accettata dal
popolo indiano, che la considera
straniera, anche quando nel 1983, a
seguito dell’incarico di Primo Ministro
affidato a Rajiv, le viene riconosciuta la
cittadinanza indiana.
Nel 1991 suo marito viene assassinato. Si
susseguono gli inviti a entrare in politica,
ma Sonia non accetta fino al 1998, anno in
cui assume la presidenza del Partito
del Congresso Indiano per poi candidarsi
l’anno successivo alle elezioni generali. Da
questo momento con intelligenza, umiltà e
forza di volontà riesce a far comprendere ai
suoi connazionali la sua vera personalità.
Nel 2004, ancora criticata per le sue
origini, rinuncia alla carica di
premier.
Il 17 maggio scorso il Partito del Congresso
di Sonia Gandhi e i suoi alleati hanno vinto
le elezioni politiche indiane: l’Alleanza
progressista unita (Upa) guidata dal partito
del Congresso ha ottenuto oltre 240 seggi -
sul totale di 543 - in quella che sarà la
nuova Lok Sabha (Camera bassa) della 15esima
legislatura.
La storia di Sonia Gandhi racconta la
battaglia contro gli stereotipi e la
diffidenza nei confronti dello straniero, e
sottolinea l’importanza della
determinazione. Ora cercherà di risollevare
un Paese che attraversa un periodo di crisi
economica, ma che, pur nelle contraddizioni,
è oramai una potenza mondiale. Pur non
essendo una discendente di Nehru a livello
genetico, Sonia Gandhi è riuscita a prendere
le redini della dinastia più importante
dell’India rendendo onore al suo cognome. |
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TELEGIORNALISTI
Pino
Finocchiaro: lezioni di giornalismo sul campo
di Giuseppe Bosso
Giornalista, redattore e conduttore di Rai News 24,
Pino Finocchiaro ha
lavorato a Televideo, Ufficio Stampa DG e Rai Sicilia della Rai
Radiotelevisione Italiana. Pubblicista dal 1978 e giornalista professionista
dal 1992, si occupa principalmente di inchieste, cronaca giudiziaria,
politica, ambiente e sicurezza globale. Una grande esperienza nel settore
che gli ha regalato meritatamente l'elogio del Sunday Times durante
l'eruzione a Catania del 1992.
Un riconoscimento importante quello del Sunday Times, eppure sono
continue le critiche che la stampa straniera rivolge al nostro Paese.
«I colleghi hanno ben diritto di esprimere le loro opinioni, a maggior
ragione in una realtà come quella anglosassone in cui la libertà di stampa è
un pilastro fondamentale».
Lei è stato anche docente di giornalismo: cosa ha cercato di insegnare
agli aspiranti reporter?
«Penso che la vera università, la vera scuola, sia la strada. Le scuole
formano valide professionalità. Il talento del narratore si forgia
nell’ingiustizia, diceva Ernest Hemingway. Solo chi vive il dramma sul luogo
della notizia rivela talento. Perché ha imparato il mestiere sul campo. Una
cosa è il talento, abbastanza raro devo ammettere, altra cosa la
professionalità, anche grande».
Come crede cambierà per voi giornalisti il lavoro con l’avvento del
digitale terrestre?
«Emergeranno sicuramente nuove professionalità. Il lavoro dei colleghi avrà
modo di essere valorizzato. Miglioreranno i contenuti. Ci sarà maggiore
concorrenza. Le nuove tecnologie consentiranno al pubblico di scegliere la
scaletta dei programmi».
Cosa ha significato per lei vincere, nel 1995, il premio della sezione
Ilaria Alpi - Penne Pulite?
«Una grande emozione, a maggior ragione perché l’ho ricevuto a Sarteano, in
Toscana, dai genitori di Ilaria Alpi, a pochi mesi di distanza dall’omicidio
di questa coraggiosa collega e di Miran Hrovatin. Oltre all’emozione, la
gioia per il riconoscimento di tante fatiche».
Lei è molto impegnato per la tutela dell’ambiente. Dove devono
dispiegarsi maggiormente le forze in questo senso?
«Il sisma dell’Aquila ci insegna che trascurare il nostro rapporto con gli
eventi naturali può ampliare gli effetti letali del terremoto. Per il
cronista, ogni cosa va affrontata con la massima curiosità e rispetto. Da
come sarà l’ambiente in futuro dipende il destino delle nuove generazioni,
la politica non può far finta di niente. La visione ambientalista non deve
essere distinta da quella dell’economia, occorre superare lo stereotipo che
vede troppo costoso l’impiego di tecnologie pulite. Anzi, i fatti hanno
dimostrato che chi ha investito in questo senso ha ottenuto grandi risparmi.
È terribile pensare che oggi ci sono ancora milioni di bambini che muoiono
per la mancanza di cibo e per la scarsità di acqua, in molte zone del
pianeta. È una tragedia a cui non possiamo abituarci».
Qualcuno ha mai tentato di metterle il bavaglio?
«Tentativi ce ne sono stati, non lo nascondo, ma è la mia battaglia per la
quale combatto ogni giorno. Il più grande pericolo, comunque, è
l’autocensura a cui si sottopongono molti colleghi. Dobbiamo essere
obiettivi nel resoconto, nella cronaca, senza rinunciare alle nostre
opinioni, anche politiche; le notizie bisogna saperle anche commentare. Per
gli inglesi la notizia è sacra, il commento è libero. Nel teatrino della
politica italiana il commento è sacro, la notizia è libera. E i fatti
spariscono». |
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SPORTIVA La
Baia dei porci di
Pierpaolo Di Paolo
I tifosi sono certamente la parte più bella,
colorata, folcloristica del mondo calcio, ma possono
diventarne anche la peggiore. Sempre più spesso
protagonisti in negativo di comportamenti violenti,
scorretti, censurabili. Per chi, come noi, ha la
sfortuna di avere ancora negli occhi le immagini
delle violenze di Catania, e di tanti altri episodi
simili, può risultare difficile cogliere la povertà
morale di vicende dove, quantomeno, non ci scappano
morti e feriti. Eppure, quanto avvenuto domenica a
San Siro segna ugualmente una delle pagine più
nere e vergognose del tifo italiano. La curva
sud, una volta sede della gloriosa Fossa dei
leoni, è diventata la Baia dei porci. Ma
facciamo un passo indietro.
Paolo Maldini esordisce in serie A con il
Milan di Nils Liedholm a soli 16 anni. È l'inizio di
una carriera strepitosa, costellata di successi: 7
scudetti, 5 coppe campioni, 2 supercoppe europee, 3
intercontinentali. In 24 anni Paolo gioca 901
gare, tutte con la maglia rossonera. Una
bandiera. Le sue immense qualità di calciatore unite
al senso del dovere, alla professionalità e ad una
fedeltà alla maglia sempre più rara al giorno
d'oggi, ne hanno fatto un'icona del nostro calcio,
prima ancora che del
Milan. Un emblema dei valori più belli dello
sport.
Ma il 24 maggio a San Siro, rispetto, riconoscenza e
gratitudine non si sono visti. Era la partita
d'addio al suo stadio, il commiato di un grande
gladiatore dai suoi tifosi. A fine gara il capitano
inizia il giro di campo per salutare i supporters e
ricevere da loro il giusto omaggio alla sua
eccezionale carriera. Giunto all'altezza della curva
sud, inizia una inspiegabile e oscena contestazione.
Fischi, insulti, striscioni velenosi, cori beffardi:
«Un capitano, abbiamo un solo capitano» intona la
curva, riferendosi a Franco Baresi. Maldini è
amareggiato, va via. Non si presenta neppure in sala
stampa. Non doveva esser questo il suo addio al
calcio.
Sulle ragioni del vergognoso comportamento si sono
accavallate varie ipotesi. Difficile credere che
alla base dell'insano gesto ci fosse la delusione
per la sconfitta appena subita in casa ad opera
della Roma. Molto più probabile che parte della
tifoseria non abbia mai perdonato alcune critiche
mosse in passato dal difensore del Milan alla sua
curva. Una storia risalente a qualche anno fa,
quando il Milan subiva contestazioni pesanti,
difficili da comprendere per una squadra vincente in
Europa e nel mondo. Il capitano, spazientito,
criticò la curva lasciando intendere che dietro quel
comportamento inspiegabile c'erano motivazioni
economiche e giochi di potere. Non tifosi animati
dall'amore per la squadra, ma mercenari
spinti da ben altri interessi. Qualcuno,
evidentemente colpito dalla schiettezza di Paolo nel
proprio tornaconto, se n'è ricordato al momento
giusto.
A noi piace pensare che di questi mediocri non
resterà che il vago ricordo della loro bassezza, e
ricordare l'inaspettata dedica che Josep
Guardiola, tecnico del Barcellona appena
laureatosi Campione d'Europa, ha sentito il dovere
di rivolgere al giocatore: «Dedico questa Champions
a Paolo Maldini. Non si preoccupi, perché ha
l'ammirazione di tutta l'Europa». A Paolo, uno dei
più forti calciatori di tutti i tempi, possiamo dire
soltanto: grazie. |
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