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Telegiornaliste anno IV N. 41 (166) del 17 novembre 2008

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MONITOR Costanza Calabrese: Il mio sogno? Fare l'inviata di guerra di Pierpaolo Di Paolo

Questa settimana Telegiornaliste incontra Costanza Calabrese, inviata del Tg5.

Da un recente sondaggio, sembra che tu sia particolarmente apprezzata per la tua voce.
«Non lo sapevo, è una bella notizia. La mia voce ha sempre diviso: c'è chi la trova calda e coinvolgente, e chi un po' troppo maschile. Di certo è la più adatta a ciò di cui mi occupo: la cronaca nera».

Ma quanto conta poter far affidamento su una voce calda in un lavoro come il tuo?
«Diciamo che se mi occupassi di gossip o spettacolo, la mia voce sarebbe molto meno adatta. Questo aspetto è importantissimo nella misura in cui è il primo elemento di contatto tra giornalista e telespettatore. E' attraverso la voce che entro nelle case della gente e sono riconosciuta. A me piace anche se, avendo vissuto a lungo a Roma, ho una cadenza un po' troppo romana. Questa cosa me la porto dietro e vorrei lavorarci un po' su. Essendo per metà siciliana, non mi dispiacerebbe avere un accento un po' più siculo».

Quanto ha inciso invece nelle tue scelte di carriera avere un esempio in famiglia come Pietro Calabrese? E' stato un fattore determinante o un paragone ingombrante?
«E' stato determinante: da piccola, mio padre mi portava in redazione e mi metteva sulla scrivania a disegnare. Ho vissuto e respirato giornalismo fin da bambina. Questo lavoro io ce l'ho dentro, è la mia passione da sempre, non ho mai voluto fare altro. Se fosse unicamente una questione di DNA, avrei una carriera di successo assicurata. Purtroppo questo non sempre basta».

Quindi nessuna difficoltà aggiuntiva?
«In realtà ho sempre vissuto in maniera combattuta questa cosa. Pur avendo in casa una persona a cui chiedere un valido consiglio, non l'ho mai fatto. Non ho mai avuto il coraggio di leggergli un pezzo, nel timore che esprimesse un giudizio severo. Se papà avesse avuto qualche appunto da fare, la cosa mi sarebbe dispiaciuta troppo. Di certo, gli devo molto sul come costruire i rapporti con le fonti, procacciarsi le notizie, farsi venire delle idee. Lui è stato la scuola che non ho mai fatto. Anche l'accesso al mondo dei colleghi, da figlia di Pietro Calabrese, è stato più facile, e per me papà è stato sempre motivo d'orgoglio. Certo, c'è anche il lato negativo, poiché qualunque successo io riesca a cogliere, ci sarà sempre chi insinuerà che ci sono riuscita perché agevolata».

Come corrispondente dalla Sicilia ti trovi spesso a dover riportare fatti di cronaca nera. Si riesce col tempo a costruirsi uno scudo o c'è un margine entro il quale la notizia si subisce sempre?
«Io la continuo a subire e ne sono contenta. La cronaca è la mia passione e, essendo siciliana, anche le mie letture e approfondimenti riguardano sempre le storie di mafia, senza nulla togliere a camorra o 'ndrangheta. Per quanto si possa creare un distacco professionale, si tratta di un tema che mi coinvolgerà sempre. Scrivere del sindaco di turno che taglia il nastro durante l'inaugurazione di una mostra potrà anche essere una notizia che riguarda 100 o 200 mila persone, ma non è coinvolgente. Essere sul posto in cui un'auto pirata ha ucciso un bambino è ben differente: respiri l'emotività, le tensioni nell'aria, la sofferenza della famiglia. Vivi la notizia sulla tua pelle».

Qual è, allora, la notizia che hai vissuto maggiormente?
«E' una risposta difficile da dare. Di certo narrare la storia della mafia, le sue usanze, i riti, i personaggi - che son cose conosciute in Sicilia, ma meno nel resto d'Italia - è molto coinvolgente. Mi viene in mente anche la storia di Denise Pipitone. In quella vicenda racconti il dramma di una donna che ha subito la peggior violenza che una madre possa vivere, perché non sapere che fine ha fatto tuo figlio è peggio della morte. Vorresti cercarlo tutti i secondi della tua vita pur di avere una risposta. Qualsiasi madre che ha vissuto un incubo del genere ti dice che preferirebbe sapere della morte, piuttosto che rimanere in questo stato perenne di sospensione».

Quindi mafia e drammi familiari sono le notizie più penetranti?
«Sì, ma più che la famiglia in genere, direi tutto ciò che riguarda i minori. Storie di genitori che non hanno le possibilità di curare i figli affetti da rare patologie, bambini scomparsi, pedofilia... Sono queste le storie che "subisci" di più. Il mio sogno nel cassetto sarebbe poi fare l'inviata di guerra. Non mi sono mai trovata sul campo di una guerra, ma quella sarebbe sicuramente un'esperienza unica».

Dopo l'arresto di Provenzano, abbiamo avuto tutti l'immagine di una mafia contadina, ignorante, grezza. Servizi come quello su Matteo Messina Denaro mostrano invece nuovi boss che sfoggiano cultura, citazioni letterarie, amore per la bella vita. Ma qual è il vero volto della mafia?
«Sicuramente il primo. La vera mafia è quella di Riina e Provenzano, una organizzazione efferata e crudele ma senza dubbio anche più vera, genuina. La mafia aveva un forte legame con la religione, c'era un richiamo continuo al Vangelo e gli stessi capi erano personaggi con un carisma, con una personalità che non esiste oggi. Quella mafia, fatta di ricotta e cicoria, era sicuramente più vera di questa. Certo, i tempi sono cambiati e questo reinventarsi dei boss dimostra anche come questa organizzazione sia sempre viva, sempre capace di andare avanti e non morire mai. Un personaggio come Matteo Messina Denaro, nelle sue lettere, sfoggia la sua ipotetica cultura con citazioni letterarie paragonandosi a Malaussène, capro espiatorio dei romanzi di Pennac. Mostra di disinteressarsi alla religione e persino alla famiglia, difatti non ha mai incontrato sua figlia. E' amante delle belle donne, del lusso, della cultura, ma non ha lo spessore dei suoi predecessori».

Sedici anni dalla morte di Falcone. Cosa è cambiato da allora? Possiamo dire che quel sacrificio è stato utile?
«Utile per nulla. Non si può accostare questo termine ai sacrifici di due uomini come Falcone e Borsellino. Le cose sono cambiate anche grazie a loro, due personaggi che, nonostante si sentissero - come disse Borsellino - dei morti viventi, hanno sempre inseguito il loro ideale di giustizia e si sono battuti per esso. Hanno messo le basi di un processo che sarebbe andato avanti anche se fossero rimasti in vita. Loro sono stati i promotori della lotta alla mafia. Partendo dall'istituzione della commissione antimafia a Roma, fino alla confisca dei beni ed altre 100mila cose. Certo, il tutto insieme a un pool di persone che lavoravano con loro e che, fortunatamente, hanno poi portato avanti quel progetto. Le cose oggi sono nettamente migliorate perché quello che prima era un tema combattuto da due, oggi è sentito a livello sociale molto di più. C'è stata un'evoluzione sociale e istituzionale, per quanto siamo decisamente lontani dall'aver vinto la guerra. Siamo solo sulla buona strada, ma la mafia non è stata sconfitta».
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CRONACA IN ROSA Torna a casa, Palin di Camilla Cortese

Come può una donna mediamente intelligente, che all’improvviso ottiene una universale esposizione mediatica, bruciarsi la carriera e la credibilità in sole tre mosse? Ecco il Teorema Palin, per tutte quelle che vogliono essere sicure di non venire mai elette vicepresidente degli Stati Uniti d’America.

Primo livello di difficoltà: l’esordio col botto. Il senatore repubblicano John McCain, uomo di discutibile parte politica ma di solida dignità, si compromette per sempre presentando al mondo la sua vice fresca di battuta di caccia, Sarah Palin. Una superdonna di 44 anni che all’inizio promette benissimo come ex reginetta di bellezza ed ex giornalista, una superlavoratrice che ha intrapreso la carriera politica sbaragliando tutti gli avversari e diventando acclamatissima Governatrice dell’Alaska, una supermamma che sforna tot figli perché è una vera madre americana. Anche le più scettiche pensano che in fondo è una tosta.

Secondo livello di difficoltà: i panni sporchi si lavano in casa. Sarah smette di procreare quando finalmente arriva come un dono del Cielo la sindrome di Down, e il pupo handicappato è perfetto per commuovere i mass media e da portare ancora in fasce su un palco elettorale a scaldare il repubblicano istinto materno. Nel frattempo inizia a procreare sua figlia diciassettenne, «la nostra bellissima Bristol». Con una notte di sesso-non-sicuro tutti i valori conservatori tanto difesi dalla cara mamma finiscono alle ortiche, ma la futura giovane nonna ritiene di aver ricevuto un altro dono del Cielo e si affretta a mostrare il tutto sul solito palco elettorale, annunciano l’imminente matrimonio-riparatore-repubblicano.

Terzo livello di difficoltà: voto in politica, insufficiente. La cosa che un candidato vicepresidente degli Stati Uniti d’America dovrebbe sempre ricordare è di avere un programma. Tipo abbassare le tasse, risanare il debito pubblico, bombardare l’Iraq, cosette così. Lei, niente. Interrogata, sondata, incalzata dai più feroci anchorman del Paese, Mrs. Palin non è stata in grado di esporre lucidamente un pensiero, di proporre una soluzione, e meno che mai di commentare concretamente la crisi finanziaria e la difficile situazione attuale. Il suo mantra pareva essere “Slogan oggi, slogan domani, slogan sempre”. E la satira ci è andata a nozze.

Ecco perché l’ex candidata vicepresidente degli Stati Uniti d’America si è data tante arie ma poi se n’è tornata a Wasilla con la coda fra le gambe. Questa versione in carriera e in cappotto della casalinga inquieta di Rovigo probabilmente riprenderà i suoi preferiti passatempi americani, cucinerà bistecche, imbottirà il deretano del tacchino del Ringraziamento e sparerà con un fucile alle renne di Babbo Natale. Ovviamente chiederà alla sceneggiatrice di Juno i diritti per la storia dell’adolescente ingravidata.

Quel che è certo è che la Governatrice dell’Alaska non sarà mai più così ben pettinata e imbellettata come nel mese di ottobre 2008 dato che, oltre ai 150.000 dollari per il pessimo nuovo guardaroba, il Comitato elettorale del Partito repubblicano ha speso 32.800 dollari per truccatrice e parrucchiera.
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FORMAT Sonia Grey, da showgirl a conduttrice di Giuseppe Bosso

Incontriamo questa settimana con grande piacere un volto noto per il pubblico di Raiuno, Sonia Grey. Dal 2005 conduttrice del programma Sabato & Domenica nel fine settimana, è approdata in Rai nel 2002.
I suoi esordi nel mondo dello spettacolo come showgirl risalgono agli anni 90 sulle reti Mediaset in programmi come Striscia la Notizia, Il Gioco dei Nove e Il Tg delle Vacanze. Come attrice ha partecipato, tra le altre cose, alla sit-com Nonno Felice e alla serie Il bello delle donne.

Il tuo passato da showgirl ti ha dato problemi di credibilità nel momento in cui ti sei proposta come conduttrice di programmi di informazione?
«Assolutamente no. Nella mia vita ho spesso cambiato, ho percorso nuove strade e talvolta, certo, c'è un dazio da pagare. Oltre che showgirl sono stata anche attrice: nel momento in cui mi sono cimentata in questo nuovo percorso di conduttrice ho dovuto ricominciare da zero, partendo da quei piccoli spazi in programmi come Uno Mattina e Mezzogiorno in Famiglia, passo dopo passo fino alle conduzioni importanti degli ultimi anni. Quello che serve, comunque, è metterci sempre impegno e passione».

Che bilancio puoi trarre della tua collaborazione con Franco Di Mare che va avanti da ormai cinque anni?
«Ormai saranno otto le edizioni di programmi che ho condotto con Franco, da Uno Mattina Estate del 2003 fino a oggi con Sabato & Domenica. Tra di noi si è creato un bel rapporto improntato sul rispetto, sulla cordialità e sulla simpatia. Ma per me è stato così anche con altri colleghi, da Corrado Tedeschi con cui ho condotto la prima edizione di Sabato & Domenica a Massimo Giletti, con cui ho presentato alcuni eventi per la [Rai».

Un programma come il tuo rappresenta la vera "tv di servizio"?
«Sì. Va considerato che noi ci troviamo praticamente a fare la trasmissione sul momento, visto che riceviamo i copioni il venerdì sera, il sabato mattina ci alziamo intorno alle 4,30 e siamo in studio per la diretta alle 6,30. A parte questo, cerchiamo appunto di essere vicini al pubblico, di dare quell'informazione che la gente vuole a 360 gradi e io, oltre agli spazi dedicati alla medicina, seguo la cronaca a tempo pieno».

Medicina, appunto: in questo ambito ti trovi spesso di fronte a storie dolorose di persone che raccontano le loro esperienze di vita. Dopo tanti anni pensi di aver capito qual è il modo migliore per porsi rispetto a loro?
«Non è facile rimanere distaccati di fronte a queste persone che hanno alle spalle lutti e prove durissime. All'inizio non nascondo che non era facile per me non farmi coinvolgere troppo. Poi, ovviamente, ho dovuto imparare a mettere dei "paletti". Le persone che ospito cercano in me il punto di appoggio per gestire l’emozione per il confronto televisivo, vogliono comprensione, conforto, speranza, calore umano. Anche attraverso la posta che ricevo dal mio sito arrivano molte richieste di aiuto. La mia mail di risposta automatica spiega che leggo personalmente tutta la posta, ma non posso rispondere a tutti. Mi sono capitate anche mail di persone che non avevano molto tempo da vivere e a loro cerco di regalare energia».

In questi anni hai cambiato molto spesso look: dal biondo al rosso, dai capelli lunghi al caschetto. C'entra per caso la tua personalità in questo?
«In effetti è così. Anzitutto, nella mia vita, ho giocato sempre in attacco. Tornando a quanto dicevamo prima sul mio passato da showgirl, ho seguito vari percorsi che hanno rappresentato ciascuno un capitolo diverso che poteva magari essere accompagnato da un particolare colore dei capelli. Mi ritengo una donna dinamica a cui non piace annoiarsi, amo le sfide e quindi, perché non cimentare un nuovo look quando ti trovi ad affrontare una nuova esperienza professionale o un periodo di vita particolare? Direi che sono questi i motivi per cui ho cambiato spesso colore dei capelli e modo di vestirmi. Ora mi trovo bene con questa pettinatura mossa, anche se qualche fan si è lamentato del mio look, sempre via mail, dicendomi che sembro troppo castigata».

Dinamica e impegnata nel sociale a tempo pieno, come dimostra il calendario benefico che hai realizzato l'anno scorso.
«Al di là di quello che faccio nella vita privata, e di cui preferisco ovviamente non parlare, mi piace seguire eventi come Telethon e associazioni come AGD (Associazione per l'aiuto ai Giovani con Diabete, ndr), che ha realizzato quel calendario. Amo avere una vita piena ed impegnata e infatti ora, oltre alla conduzione, sto per conseguire un master in Programmazione Neuro-Linguistica, una cosa a cui tengo moltissimo per il mio lavoro in tv e anche per la mia vita di tutti i giorni, per relazionarmi con mio figlio e con gli altri».

Hai mai ricevuto condizionamenti in questi anni?
«Certo. Sul lavoro, innegabilmente, ci sono regole scritte e non a cui devi sottostare, per cui è capitato talvolta che non abbia potuto dire quel che volevo. Ma non ho mai detto e mai dirò qualcosa che non penso».
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CULT Buccirosso porta i napoletani a Broadway di Valeria Scotti

Il sogno americano esiste? Obama regala speranze da quella terra dispensatrice di fenomeni studiati a tavolino, ma Napoli è un’altra cosa. Il teatro è un’altra cosa. Ne sa qualcosa Vito Pappacena, cinquant’anni, attore poco fortunato, deluso dal mondo dello spettacolo che premia raccomandati e buoni a nulla.

Un giorno, dopo l’ennesimo provino andato male al cospetto del regista Sebastiano Sommella – che lo accusa di essere "un po' troppo napoletano" - Carlo Buccirosso, alias Pappacena in Napoletani a Broadway, decide di dar vita a un’agenzia di casting per soli artisti napoletani. Accanto a lui la madre, ex attrice della compagnia di Eduardo.

Tutto è napoletano in quell’ufficio, dalla A alla Z. E i talenti si sprecano: il barista che vuole impersonare Schwarzenegger, tale Nenella combattuta tra il provino e un test di gravidanza, il lavavetri che canta come Pavarotti, Fofò, trasformista del circo, alto quanto basta per scatenare l’ilarità dei presenti, e una seducente Marilyn che Pappacena aveva incontrato, quattro anni prima, a quell’ultimo nefasto provino.

Tra segretarie innamorate e illazioni sulla mascolinità del protagonista, le porte di Broadway si aprono per Pappacena e i suoi artisti. L’occasione arriva proprio da Sommella che trascina l’allegra compagnia in un teatro fatiscente. E’ qui che parte il musical, tra atmosfere anni 70 di John Travolta, il cabaret di Liza Minelli, e la truffa del regista che si appropria dei finanziamenti, lasciando a bocca asciutta i napoletani.

Buccirosso, che abbiamo incontrato prima dello spettacolo al Teatro Augusteo di Napoli, ci spiega: «Non c’è nessuna rivincita, la storia non finisce a "tarallucci e vino" come sempre, anzi, questo è proprio uno dei mali della nostra mentalità. I protagonisti decidono di non tornare più a Napoli e di rimanere a Broadway per ricominciare una nuova vita». Ma quanto ancora vale il sogno americano nel campo della recitazione? «Semmai bisogna vedere quanto vale Napoli. Qualsiasi città, in questo momento, acquista valore rispetto a Napoli, tutto diventa America rispetto a Napoli. Il napoletano è simpatico, ma spesso non ha una mentalità vincente. Certo, l’arte ce l’abbiamo nel sangue, e proprio nello spettacolo, a un certo punto, si dice "Speriamo che l’arte possa rimanere l’unico nostro motivo d’orgoglio", ma ho l’impressione che anche quello stia cominciando a traballare».

L’essere un po’ troppo napoletano, per Buccirosso, «è un luogo comune, solo una scusa dei pseudo registi che trattano male i giovani. Il nostro dialetto è uno dei suoni più belli che si possa sentire a teatro e nella vita. In fondo, la volgarità sta nelle persone, non nei dialetti». E riguardo al messaggio che l’attore e regista vuole trasmettere, «spero e credo siano arrivati solo i concetti positivi, perché sento gli applausi del pubblico nei momenti giusti. A fine spettacolo, vedo sempre gente avvicinarsi per ringraziarci. Il napoletano è stufo di cose un po’ scontate e della sua vita. E quando cantiamo "Non tornate a Napoli che bene non vi fa", nessuno ha mai protestato in teatro. Evidentemente la sensazione mia accomuna un po’ tutti».
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DONNE Siria, il futuro della first lady di Chiara Casadei

Si parla spesso di donne in gamba, quelle wonderwomen dei giorni nostri che riescono a destreggiarsi brillantemente tra lavoro e famiglia. Le guardiamo increduli e forse anche un po’ impauriti perché potrebbero conquistare il mondo. Il presidente siriano, Bashar al-Assad, ha la fortuna di avere al suo fianco una di queste grandi donne: Asma al-Assad.

La first lady siriana, 33 anni, nata e cresciuta a Londra e laureata in Informatica e Letteratura francese, ha lavorato per anni come analista finanziaria per grandi istituti internazionali. Poi racconta lei stessa: «Ho lasciato Londra per seguire l’uomo dei miei sogni. E ora, in Siria, faccio un lavoro importante, sul campo: ascolto la gente. Sono un ponte tra i siriani e il loro governo».

Prima di sposarsi, ha girato per tre mesi il Paese in incognito, indagando con i propri occhi ogni diversa realtà. Dopo questo approccio, ha scelto di investire sulle donne, «il fulcro del tessuto sociale». Sono infatti il 13% dei deputati, il vice presidente è una donna e cresce progressivamente il numero delle imprenditrici, scienziate, ministre, «per dimostrare che le opportunità sono uguali per tutti i cittadini». Come se non bastasse, Asma ha dato vita a un progetto per lo sviluppo economico della Siria, cui ha contribuito fondando una ONG che si occupa di sviluppo rurale sostenibile. Si è occupata di educazione femminile nel mondo arabo, del ruolo delle donne imprenditrici, della diffusione di libri per bambini e ha ricevuto la laurea honoris causa in Archeologia dall’Università La Sapienza di Roma per il suo appoggio agli eventi culturali.

Pensate sia tutto? Assolutamente no. Asma ha tre figli - tutti sotto i sette anni - e i suoi impegni non sono un buon motivo per non essere sufficientemente presente nelle loro vite. «Hanno bisogno di una madre e di un padre, non li ho fatti per affidarli agli altri. Il mio lavoro è per un futuro migliore per la nuova generazione, di cui i miei figli fanno parte». Un vero programma di governo.
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TELEGIORNALISTI Alfonso Buono, lo speaker argentino di Giuseppe Bosso

Nato a Buenos Aires, Alfonso Buono attualmente vive in provincia di Salerno. Dopo aver conseguito la laurea, nel 1993, come speaker radiotelevisivo presso l'I.S.E.R. di Buenos Aires, ha lavorato presso varie emittenti radiofoniche e televisive del suo Paese. Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Campania dal 1998, ha esperienza come speaker di diversi spot pubblicitari, dossier, doppiaggi e presentazioni per l'America Latina e la Spagna.

Dall'Argentina all'Italia: quali differenze hai riscontrato nel modo di fare informazione?
«Sostanzialmente non ci sono grosse diversità. Una differenza è forse il mezzo dove viene diffusa in modo quasi prepotente la notizia. Mi riferisco alla tv, è lei la grande protagonista. Poi vedo, in molti casi, la notevole esposizione di alcuni giornalisti che rubano quasi visibilità alla notizia stessa. Un aspetto negativo è che c’è poco ricambio generazionale nei palinsesti. Una nota positiva invece, a differenza dell’Argentina, è il gran numero di corrispondenti dei grandi network italiani che eleva il livello di fare informazione. A Buenos Aires questo non è più possibile per i famosi guai finanziari che il Paese attraversa da alcuni anni. E poi in Argentina la tv si è involgarita in modo esponenziale e in ogni programma la parolaccia la fa da padrona. Non capisco però perché, qui in Italia, la radio sia considerata quasi una Cenerentola oppure un mezzo per trasmettere solo musica e poca informazione».

Hai fatto tante esperienze nella tua vita, dallo speaker al perito industriale. Per essere un buon giornalista, è utile avere avuto anche altre esperienze professionali?
«Ci tengo a dire che sono prima uno speaker e poi un giornalista. Come speaker ho preso la laurea in materia visto che, in Argentina, occorre frequentare l’università per speaker che ogni anno, su 2500 iscritti, può prenderne solo 60. Gli esami d’ingresso sono molto difficili e impegnativi. Una volta laureato, ho cominciato a lavorare e non ho mai smesso: radio, tv, doppiatore, conduttore, corrispondente, voce per spot pubblicitari, documentari. Nel mio caso, il fatto di essere diplomato come perito industriale non ha influito, anzi, non ho mai fatto il perito. Ma sono convinto che in questa professione bisogna informarsi il più possibile per ingrandire il proprio bagaglio culturale, saper rispondere quando è necessario o esporre un pensiero su qualche determinato punto».

Quali sono state le difficoltà che hai avvertito quando sei arrivato nel nostro Paese?
«Penso ci sia grande disparità di opportunità tra le donne che vengono dall’estero - a volte senza nemmeno conoscere la lingua italiana - e gli uomini nelle stesse condizioni. Io, ad esempio, nonostante la mia caparbietà, la mia determinazione, la mia esperienza e l’invio di centinaia di curriculum, ho trovato un muro di gomma. E la mia lontananza geografica dai punti nevralgici dell’Italia, come Milano e Roma, non mi consente di fare altri corsi o di poter recarmi di persona ai grandi network. Ma nel mio piccolo, continuo a studiare e ad allenarmi, a provare e a sperare».

In quali settori dell’informazione pensi di esserti espresso al meglio?
«Come già detto, sono uno speaker e ho avuto la possibilità di lavorare conducendo e redigendo i notiziari sia in tv che in radio. Ho anche fatto una piccola esperienza in regia. Invece sulla carta stampata ho poca dimestichezza. Anche quando ho fatto il corrispondente lavoravo per mezzi elettronici. Preferisco comunque le notizie sportive e l'attualità».

Che idea hai dei giornalisti italiani?
«Ne ho conosciuto pochi di persona. Alcuni mi scrivono tramite MySpace. Ma la cosa che più mi affascina, salvo alcune eccezioni, è la notevole capacità di dizione, la professionalità e la tranquillità con cui realizzano il loro lavoro».

Un tuo sogno nel cassetto?
«Nonostante i miei 41 anni, ho gli stessi stimoli di sempre. Da piccolo mio nonno mi portava a fare il pisolino dopo pranzo con la radiolina accesa. Oggi faccio ancora lo stesso. In ogni angolo della mia casa e della mia vita c’è una radio. Sogno di rivedere davanti a me un microfono e una luce rossa che si accende con la scritta “on air”».

Inevitabile una domanda calcistica: cosa pensi potrà dare alla Selección un ct come Diego Armando Maradona?
«Se parlo col cuore, posso dire che darà molto. Se invece uso la ragione, ho la sensazione che non offrirà molto alla nazionale albiceleste viste le esperienze vissute in alcune panchine: quasi nessun risultato positivo e avventure finite molto presto. Mi auguro che Maradona possa far esprimere tutto il valore alle grandi stelle che ha la nazionale argentina».
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SPORTIVA Nong Toom, la Ladyboy della boxe di Mario Basile

Beautiful Boxer è uno di quei film che ha tutti i requisiti per passare in sordina. Regista sconosciuto, attori sconosciuti, ambientazione e produzione in posti poco pubblicizzati. Finiscono quasi tutti così: schiacciati nella programmazione cinematografica da quei kolossal americani dove scorrono fiumi di soldi per imbottire il cast di stelle hollywoodiane e la pellicole di effetti speciali strabilianti. Molto probabilmente sarà successo lo stesso a questo film tailandese datato 2003 e giunto da noi solo l’anno dopo. In pochi sanno però che in Beautiful Boxer c’è una storia particolare. Una storia vera. C’è la vita di Parinya Charoenphol, pardon di Nong Toom, il pugile donna più famoso in Thailandia.

Storia particolare perché Nong Toom, fino a nove anni fa, era un ragazzo. Un ragazzo come tanti, pieno d’amore per la Muay Thai, la boxe tailandese, conosciuta nel periodo in cui si fece monaco alla tenera età di undici anni. Il desiderio più grande comunque era quello di diventare donna, confessato alla mamma già nel 1989. Sogno esaudito dieci anni dopo. Il 5 dicembre 1999 Nong, accompagnata dai suoi genitori, è diventata finalmente donna.

Nel frattempo, la boxe era diventata una questione di vita. Il suo primo incontro risaliva, infatti, a un anno prima e si era già fatta notare al grande pubblico per la sua bravura, ma soprattutto per il suo essere “quasi donna”, visto che già molto tempo prima dell’operazione aveva iniziato a prendere ormoni per cambiare sesso.

Dopo la “trasformazione” è tornata sul ring, l’ultimo incontro lo scorso 31 maggio a Stoccolma contro Pernilla Johansson. Vittoria netta ai punti per Nong che, in questi anni, si è scoperta oltre che atleta anche attrice, recitando da protagonista nel film Mercury Man e nella serie World Record Pizza andata in onda sulla tv australiana. Ha adottato una bambina e sogna un compagno.

I giornali l’hanno soprannominata, forse con fare beffardo, “Ladyboy”. Curioso il fatto che in Thailandia, invece, le “ladyboys” non siano così particolari, visto che si pensa appartengano ad un terzo sesso, anzi più precisamente sono donne intrappolate nel corpo di uomini. Starà poi a loro comportarsi bene in questa vita per liberarsi dall'attuale condizione in quella successiva. Questione di karma.
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