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Telegiornaliste anno IV N. 39 (164) del 3 novembre 2008
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Teresa Petrosino, giornalista troppo seria
di Giuseppe Bosso
Nata e cresciuta a Chivasso, in provincia di Torino,
Teresa Petrosino è
giornalista professionista dal 2007. Dal 2001 a Telecapri Sport, Teresa è
impegnata nei servizi di Rapporto Napoli, rotocalco dedicato alle vicende
nella città partenopea, e conduce il tg sportivo Campania Sport,
alternandosi con Vincenzo Mele.
Teresa, com’è stata la giornata tipo di una giornalista napoletana in piena
emergenza rifiuti?
«Stressante sia di giorno che di notte: pensavo anche a come poter aiutare la
gente che vede nel giornalista un punto di riferimento. La cosa più difficile
era infondere fiducia nelle istituzioni».
Cosa provavano le persone che incontravi?
«Disperazione per un momento difficile, ma al tempo stesso, per fortuna, non
rassegnazione. Non è vero che c’è vittimismo tra i napoletani: c’è un profondo
senso di amarezza per l’abbandono che pare averci colpito».
Il nuovo Governo Berlusconi da quando si è insidiato ha dedicato molta
attenzione a Napoli: quale bilancio pensi di poter trarre da questi primi mesi?
«Questo Governo ha preso un impegno davvero troppo grande per potersi tirare
indietro. I risultati raggiunti finora dimostrano che con il pugno fermo si
possono risolvere le problematiche di una città come la nostra».
Tra tante emergenze Napoli ha comunque trovato un sorriso con la squadra di
calcio che, dopo anni di lontananza dalla serie A, sta guidando il campionato.
Per il futuro cosa vedi?
«Credo che questo Napoli possa competere con le big del Nord: la forza sta
anzitutto in una società solida ed efficiente che è sapientemente orchestrata da
un grande come Pierpaolo Marino, che ha la capacità di scovare, anche grazie ai
suoi collaboratori, i campioni del domani».
Ma quale sarà il compito della società azzurra in futuro? Andare a caccia di
nuovi talenti da lanciare, oppure difendere i suoi campioni dalle ricche offerte
italiane - e non solo?
«Prima che col calciomercato, io credo che la società azzurra debba sforzarsi
soprattutto nel rapporto con i media, con il pubblico. In passato è capitato di
assistere spesso a silenzi stampa, ma il Napoli non deve mettere un muro tra
tifosi e pubblico…».
Lo sport può contribuire a risollevare le sorti di una città, di una regione,
di tutto il Mezzogiorno?
«Credo che lo sport sia un toccasana, se fatto con impegno e passione. Occorre
che le squadre riacquistino un minimo di moralità, ma mi rendo conto che oggi,
con le società quotate in borsa, l’aspetto sportivo tende a cedere il passo a
quello commerciale».
Cosa significa per te lavorare a
Telecaprisport?
«Una grande soddisfazione che ho inseguito da tanto. Soprattutto sono lieta di
aver trovato veri amici tra i quali
Paolo Del Genio,
Francesco Pezzella e
Cristiana
Barone».
Se ti proponessero un lavoro per un grande canale nazionale, come cambierebbe
la tua vita?
«Mi soddisfa andare in giro per i quartieri e vivere a stretto contatto con la
gente, per me è come fare un tirocinio giorno per giorno. Lavorando in una tv
nazionale sicuramente otterrei grandi soddisfazioni dal punto di vista
economico, ma per contro sarei una delle tante».
Come definisci Cristiana Barone?
«Tutto lavoro!». (scoppia a ridere, ndr)
E tu, invece?
«Seria e pragmatica. Troppo seria, forse…». |
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CRONACA IN ROSA Donne che non si arrendono
di Federica Santoro
A San Luca, un piccolo paese dell’Aspromonte in provincia di
Reggio Calabria, tristemente famoso per fatti di sangue legati alla
’Ndrangheta, un gruppo di donne ha deciso di non arrendersi al ruolo di
complici o vittime, ma di opporsi e pretendere la pace.
E' nato così il
movimento Rosa delle donne di San Luca, un’associazione
libera, apolitica e apartitica, impegnata nella valorizzazione di talenti e
competenze locali attraverso la realizzazione di progetti mirati.
Per favorire l'occupazione e l'emancipazione femminile
sul territorio. Il movimento si preoccupa anche di
sostenere gli ex detenuti nel loro reinserimento nel
mondo del lavoro e le famiglie che affrontano queste problematiche. Tutto ciò
attraverso il recupero delle strutture del Comune inutilizzate: trasformate in
luoghi di socialità e convivialità artistica e ricreativa.
«Il movimento delle donne di San Luca è un momento storico, è
un coro, una risposta, una mossa – afferma Rosy Canale, imprenditrice,
presidente e fondatrice del gruppo -. È tutto quell'insieme di sogni che queste
donne hanno nel cuore, ed è tutto quello che insieme riusciremo a costruire.
Siamo donne che conoscono il dolore ma non lo esibiscono, donne che amano la
propria terra per quanto amara, le proprie radici per quanto maledette, e i
propri figli».
Ma è anche un modo per sfuggire a un destino di ultimi,
di figli dimenticati di un’Italia che fa finta di non sapere per poter restare
indifferente, di uno Stato che, continua Rosy, «ancora non ci ha riconosciuti,
ma che spesso ci rinnega, di un’Italia che non ci difende, ma che ci offende
nella nostra dignità di cittadini non-cittadini».
Oggi San Luca torna a far parlare di sé, questa volta però al
di fuori dei luoghi comuni del giornalismo sensazionalistico, raccontandoci la
nascita di un movimento che è rinascita. La volontà è espressione di
questo gruppo di donne e uomini, volontà di rilanciare l'immagine del paese
creando opportunità di lavoro e sviluppo sostenibile, guardando alla tradizione
- ad esempio al ricamo - per far ripartire la speranza, per mettere in luce i
talenti del posto e costruire con determinazione e coraggio un domani migliore.
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FORMAT
Arriva l'esercito delle web tv di
Federica Santoro
Quali sono stati gli effetti del calo d’audience
della tv generalista, vuota e autoreferenziale? Semplice, la nascita di una
forma embrionale di
Tele democrazia con decine di micro web
tv create dai cittadini, che documentano storie metropolitane e di comunità.
A raccontare questa nuova realtà tutta italiana
di "protagonismo televisivo digitale dal basso" ci ha pensato il meeting delle
web tv
Paese che vai, che si è svolto a
Milano il 10 e l’11 ottobre.
Due giorni in cui l'esercito dei micro editori televisivi si è confrontato con
gli altri canali e con gli addetti ai lavori.
Al meeting milanese, tenutosi presso l'Università
Iulm, hanno partecipato ben 38 canali video online: «Queste web tv
sono create da cittadini videomaker per passione - sottolinea l'ideatore del
meeting Giampaolo Colletti, già autore delle Storie di
Nòva-Sole24Ore e del progetto Altratv.tv - il problema del
digital divide viene scavalcato dalla pura
creatività».
All'incontro erano presenti anche Axel Fiacco
(MTV Italia), Bruno Pellegrini (Yks) e
Riccardo Pasini (Odeon), per testimoniare la
necessità di ripensare l’idea di televisione, a partire da un’ampia
partecipazione locale dal basso. Afferma Axel Fiacco: «Qui le web tv parlano
apertamente, non c'è concorrenza. Nei meeting dei broadcaster tutto viene
veicolato con diffidenza. In tv - continua - l'evento non paga, in queste
proposte c'è spazio per l'avvenimento spesso territoriale».
«Questa generazione di nuovi videomaker che nasce
a pane e telecamera si caratterizza per lo scambio di esperienze. Il modello è
quello del
giornalismo americano collettivo, la
dimostrazione che l'equazione "tante community, tanti broadcaster" funziona»,
precisa Bruno Pellegrini. Quindi progetti che trasformano radicalmente
l’estetica della tradizionale tv generalista e ritornano ad una dimensione
locale e più aggregativa.
Come accadeva una volta nei bar seguendo
Lascia o raddoppia, oggi, precisa Riccardo
Pasini: «Queste web tv sono accomunate da un senso di appartenenza quasi fisica
e di comunità». Alla base del successo di questo fenomeno esplosivo c’è
un’intuizione: aver saputo sfruttare al meglio le potenzialità di aggregazione
del network, veicolandone il linguaggio, attraverso un modo nuovo e
democratico di fare cultura. |
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CULT Mi
piace un casino, le case chiuse in mostra
di Valeria Scotti
Non c'è solo il desiderio di alimentare un dibattito in realtà sempre acceso, ma
anche lo spirito di ricordare cosa erano un tempo le case di tolleranza, e
celebrare l'anniversario dell'abolizione di quelle case chiuse, il 20
settembre 1958, con la Legge Merlin. Mi piace un casino è
il titolo della mostra in atto a Milano e in programma fino al 31 dicembre
presso lo show-room di
Crazy Art, a due passi dal vicolo Calusca che accoglieva le signorine
milanesi in attesa dei clienti.
Numerose immagini d'epoca – foto erotiche di donne audaci, mai quanto oggi - una
collezione di reggicalze e guepieres del tempo, curiosità ed aneddoti che fanno
parte di una ricca collezione privata del bolognese Antonio Belletti,
rappresentante della Goliardia. E poi la riapertura di cinque ambienti di una
vera casa chiusa grazie al lavoro di Giancarlo Ramponi e di sua moglie
Rosella, titolari dello show-room.
Due entrate, la prima destinata a militari e popolani per atti consumati
velocemente, la seconda più elegante e di lusso, con il trionfo del rosso
porpora in ogni angolo, dai sofà alle carte da parati, passando per le luci a
forma di corpo femminile.
Il tariffario sempre ben visibile – per prestazioni di dieci minuti,
mezz'ora e un'ora – e, in una teca, le marchette ovvero i gettoni di
varie forme che testimoniavano il pagamento e il tipo di prestazione voluta dal
cliente di turno.
Non manca lo stanzino con finto specchio, vera chicca per il voyeur che poteva
così soddisfare le sue richieste proibite, la sala ginecologica, dove le
signorine venivano periodicamente visitate, e i lavabi e i servizi (poco)
igienici dell'epoca.
E per il settore memorabilia? Si va dalla rara "ciuladura", una
particolare poltrona per i clienti più anziani, alla lampada meccanica rossa con
la riproduzione a carillon di cinque piccole ballerine: la loro danza
contemporanea significava che non vi era alcuna signorina disponibile. Tutto
occupato, si prega di riprovare. |
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DONNE Rossella
Arena, l’esordio di una scrittrice
di Chiara Casadei
Anche se per i giovani trovare la propria strada nel mondo
del lavoro è quasi un salto ad occhi chiusi, qualcuno decide di buttarsi e, con
grande sorpresa, a volte l’atterraggio si rivela soffice e soddisfacente. È
stato così per Rossella Arena, calabrese trapiantata a Perugia,
venticinque anni, che già un anno fa pubblicava il suo primo libro
Nonostante i miei genitori (Alcyone), una raccolta di
storie diverse, di personaggi che raccontano le loro emozioni più nascoste. Con
questa intervista, Rossella ci parla di sé e del suo romanzo.
Rossella Arena studentessa. Il percorso da lei intrapreso
è prettamente letterario. Come è nato il suo interesse in questo campo?
«È nato molto presto, diretta conseguenza dell’amore per le
parole. A tre anni sapevo leggere: ho iniziato dai segnali stradali e dalle
scritte che vedevo in televisione o sugli oggetti che mi circondavano. Qualunque
cosa, appena “la leggevo”, appariva diversa, più mia. Credo che il mio legame
con le parole sia così forte proprio perché si è creato quand’ero ancora
piccola, in un’età in cui non c’è separazione fra ciò che si prova e ciò che si
è. Ecco perché ancora oggi il contatto coi libri mi fa sentire bene, mi riempie
di piacere».
Rossella scrittrice. Ha pubblicato da più di un anno il
libro d’esordio Nonostante i miei genitori. Come è nata l’ispirazione e
quanto la sua esperienza ha influito sull'argomento e sulla stesura del romanzo?
«La prima cosa importante che ho davvero compreso, e cioè
quanto sia necessario diventare sé stessi, ha generato questo mio primo libro.
Come grida il titolo, vivendo e interagendo con mamma e papà fin da
piccolissimi, creiamo in noi delle idee e dei modi di percepire gli altri e le
situazioni che dipendono in gran parte dai loro. In alcuni casi questo
condizionamento è molto evidente: quanti ragazzi e adulti, ad esempio, seguono
oggi le anacronistiche idee politiche dei propri genitori? In altri casi il
condizionamento è più sottile, invisibile nelle parole ma presente nei fatti.
Così era - e ancora è - per me, così è per moltissimi. L’ispirazione, dunque, è
sempre stata presente, in ogni momento della mia vita: bisognava attendere
quello giusto per concretizzarla».
Secondo lei il rapporto genitori-figli è diventato più
difficile?
«Rispetto ad un tempo, penso proprio di no. Il dialogo è oggi
più frequente e reso possibile dalle migliori condizioni socio-economiche. Se
pensiamo a una famiglia del dopoguerra, che spesso non aveva cibo sulla sua
tavola, possiamo immaginare che al suo interno parlare con i figli e occuparsene
psicologicamente non costituissero certo delle priorità per i genitori. Oggi è
diverso, il benessere materiale è maggiore e in teoria ci sarebbe più tempo e
modo in famiglia di conoscersi, di confrontarsi. Eppure il pericolo frequente è
di perdersi in tutto ciò che abbiamo, di riempire vuoti e necessità reali con le
mille possibilità che il mondo odierno offre. Da quel che ho visto, molti
genitori tengono al giudizio dei propri figli così tanto che tendono spesso ad
accontentare subito le loro richieste, senza pensare a ciò di cui potrebbero
veramente aver bisogno. Il rapporto si costruisce sull’apparenza, e conoscersi
diventa impossibile. Cosa ancora più fondamentale, i genitori si dimenticano
spesso che, al di là del loro ruolo, sono delle persone, che hanno dei bisogni e
dei problemi che non devono essere dimenticati, ma assolutamente affrontati.
Altrimenti allo stesso modo ignoreranno problemi e bisogni dei propri figli».
Mirava fin dall’inizio alla stesura di un libro oppure è
stata un’inaspettata sorpresa “collaterale”? Come è riuscita a farsi pubblicare
così giovane, qualche asso nella manica da svelare?
«Fino a tre anni fa non pensavo di poter pubblicare un libro.
Come la lettura, la scrittura era una profonda esperienza interiore che
custodivo per me. Poi all’improvviso, un caldo pomeriggio in cui riflettevo
sulla dipendenza psicologica dai genitori, si formarono chiari nella mia testa
il titolo del libro, la sua struttura e la convinzione che sì, l’avrei scritto e
pubblicato. Non so come ci sono riuscita: ho liberato le mie parole verso il
mondo dell’editoria, in cui non conoscevo nessuno. Mi sono certo documentata
molto, soprattutto tramite il prezioso internet, sulla realtà in cui aspiravo ad
entrare: ho reperito materiale sulle diverse case editrici, su come contattarle
e sulle modalità di presentazione del manoscritto, su scrittori e giornalisti.
Un’altra cosa importante è confrontarsi con chi come te scrive, per accrescere i
propri interessi, per venire a conoscenza di opportunità letterarie
impensabili».
Ogni anno in Italia si pubblicano migliaia di nuovi
titoli: perché un lettore dovrebbe scegliere di acquistare il suo libro?
«Perché quello che scrivo non è frutto di sterile
speculazione intellettuale. Io scrivo tenendo ben presente il mio desiderio di
crescere e ritenendo la crescita stessa la cosa più importante nella vita di un
lettore e di un essere umano. La mia scrittura, come la mia vita, è ricerca
continua del contatto autentico con sé stessi, di tutto ciò che non è davanti ai
nostri occhi, di mondi e possibilità ulteriori. Il mio libro parla di un
argomento che riguarda tutti, ma cercando di portare sotto i raggi del sole
quegli aspetti che di solito vengono relegati in angoli bui. Pagina dopo pagina,
leggendo le storie dei diversi protagonisti, spero che ogni lettore trovi il
coraggio di raccontare, anche solo a se stesso, la propria storia».
Quali consigli darebbe alle giovani scrittrici emergenti?
«Ciò che si scrive diventa più profondo e vero man mano che
ci si conosce meglio e si vive realmente. Il mio consiglio è quello di
arricchire quotidianamente la propria vita, sia attraverso il contatto con le
persone e le cose che si amano, sia attraverso l’esplorazione di mondi nuovi,
che di conseguenza permettono di scoprire parti inedite di sé. Bisogna vivere
nel mondo e poi uscirne e scrivere, poi rientrarci e allontanarsene ancora. È un
continuo movimento dai suoni e rumori al silenzio. Per le studentesse, più che
un consiglio un incoraggiamento: non rinunciate a trovare il tempo e il luogo
adatto per scrivere! Lo studio, per chi lo porta avanti seriamente, risulta
molto più impegnativo di un normale lavoro. Al termine della giornata
lavorativa, solitamente si torna a casa ed è possibile a quel punto dedicarsi ad
altro. Chi studia, invece, rischia di trascorrere tutta la giornata a lezione e,
al ritorno a casa, di continuare a prepararsi per esami e verifiche. Molti
studenti inoltre lavorano per guadagnare qualche soldo; aggiungendo il tempo per
le normali relazioni e amicizie, rimangono forse poche ore. In questa trottola
di impegni, si rischia di perdere l’attaccamento alla scrittura, di
dimenticarla, di non scrivere anche per mesi. Bisogna invece delimitarle, a
tutti i costi, uno spazio quotidiano».
Che progetti ha in cantiere per il futuro?
«I miei progetti cambiano in continuazione, perché io muto e
cresco ogni giorno! In ogni caso, mi sto dedicando allo studio di lingue
straniere, in particolare il francese. Proverò dopo la laurea specialistica ad
accedere ad una Scuola di Dottorato, magari a Torino, la città italiana che
finora amo di più. Da qualche tempo penso anche che la cosa migliore sarebbe
vivere per un periodo all’estero. Ho saputo che in Francia le borse di dottorato
ti garantiscono un assegno mensile che è quasi il doppio di quello italiano; la
recente riforma dell’istruzione poi, non mi incoraggia certo a rimanere. Per
quanto riguarda la scrittura, sto scrivendo il mio secondo romanzo e altri
lavori. Tema principale: la malattia, amica provocatrice». |
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TELEGIORNALISTI
L’Africa di Enzo Nucci di
Erica Savazzi
«L’Africa affascina perché è il Regno del Possibile. Qui a volte ancora sogno
e realtà si confondono, i confini diventano labili tra il racconto e il vissuto.
Convivono tutto il bene e il male del mondo, una inaudita violenza - che porta
alla costituzione di eserciti di bambini soldato ferocissimi - si sposa a una
solidarietà estrema. In alcuni paesi non esistono gli orfani perché i piccoli
sono adottati dalla comunità. E poi, nonostante tutto resta un territorio
totalmente inesplorato, ancora da raccontare. In Italia poi lo ignoriamo».
Enzo Nucci invece
l’Africa la conosce benissimo. Corrispondente Rai da Nairobi per tutto il
continente, lo vediamo alla prese con reportage e servizi da zone di guerra come
il Darfur. Nessuno potrebbe sospettare che all’inizio della carriera
giornalistica fosse invece il cinema a interessarlo:
«Il cinema è stato il mio grande sogno, la mia passione infantile. Per un
periodo - anche lungo e felice della mia vita - sono riuscito a trasformare
quello che era un piacere puro in un lavoro ricco di soddisfazioni. Ma poi ho
capito che la vita era altrove. La vita andava oltre la celluloide o le pagine
dei libri. La vita, l’avventura era nella strada, sotto casa, nelle persone che
puoi incontrare in autobus. Ho capito che rischiavo di rimanere soffocato nella
sala buia dove si proiettavano i film, prigioniero di sogni e, da un punto di
vista strettamente professionale, molto emarginato, chiuso in un limbo
giornalistico spesso dominato da signori della sala buia maldisposti a cedere il
posto ai nuovi arrivati. E così ho scelto di fare un bagno nella cronaca nera
nella mia città, Napoli.
Un passaggio impegnativo.
«La fine degli anni 70 e l’inizio degli 80 segnano il passaggio dalla camorra
impegnata nelle tradizionali attività del malaffare (droga, prostituzione, gioco
d’azzardo, usura, etc.) a una camorra in grado di controllare settori dello
Stato e delle istituzioni, di influire sulla vita quotidiana di una intera
città. La cronaca nera che ho conosciuto era appassionante proprio per questo,
perché già da allora si capiva il salto di qualità che si preparava a fare. È
stata una grande scuola professionale, fatta di maniacale precisione, attenzione
ai dettagli all’apparenza insignificanti, capacità di ragionamento e di mettere
insieme pezzi all’apparenza distanti. Ricordo che proprio a Napoli, in quegli
anni, fu siglato lo scellerato patto tra malavita e Brigate Rosse che portò a
sequestri ed omicidi ancora non chiariti a quasi 30 anni di distanza. Insomma,
formidabili quegli anni…».
Sul sito
Articolo 21 hai parlato dell’impossibilità di fare il giornalista in
Darfur a causa di interventi governativi. Come agisce un inviato in questi casi?
«Sono stato espulso dal Darfur senza spiegazioni solo perché mi trovavo nella
zona del campo profughi di Kalma dove sono state uccise 46 persone e altre 200
ferite. Non mi è stato possibile fare il mio lavoro dopo che mi erano stati
accordati tutti i permessi. In questo caso, un giornalista non può che
continuare a denunciare quanto è successo, cercando di far capire che dietro una
macroscopica censura si nasconde il tentativo del governo centrale di celare le
condizioni di vita in cui versano i rifugiati e la popolazione locale. Per
quanto riguarda il Darfur, la questione è molto complessa: non ci sono confini
tra buoni e cattivi, anche lì operano signori della guerra interessati a
mantenere incandescente la situazione per continuare ad arricchirsi».
Sudan, Somalia, Etiopia, Eritrea, Nigeria: l’Africa è martoriata da
conflitti e pare non riuscire a uscirne. Qual è secondo te il ruolo del
giornalismo in questi contesti?
«L’Africa sconta il fatto di non avere una classe dirigente in grado di
governare un continente potenzialmente ricco di materie prime, autosufficiente
dal punto di vista alimentare, con un mare di intelligenze non utilizzate. La
fase di decolonizzazione è stata troppo veloce, improvvisa, caotica e il
continente per troppi anni è stato lo scenario in cui le superpotenze - Stati
Uniti, Unione Sovietica, Cina - si sono scontrate indirettamente appoggiando le
diverse fazioni in lotta. Anche Nelson Mandela non è riuscito ad individuare un
gruppo dirigente capace di guidare il Sudafrica che oggi vive una profonda
crisi. Il giornalismo occidentale ha il compito di illuminare queste realtà,
tenere accesa la luce perché il destino del mondo non dipende solo dall’elezione
di Obama alla Casa Bianca. Far conoscere queste realtà dove ci sono anche tante
cose positive che in occidente si ignorano, come tantissimi stilisti, registi
cinematografici, scrittori, pittori che non hanno nulla di meno dei loro
colleghi europei, statunitensi. Bene, cominciamo ad incontrali e conoscere:
hanno tanto da dire».
L’Africa – soprattutto quella non mediterranea - è un "continente
dimenticato": se ne parla solo in occasione di conflitti. Eppure è anche un
continente su cui si concentrano le attenzioni di molte potenze – basti pensare
alla Cina in Sudan – per non parlare poi dell’interesse per le risorse naturali,
petrolio in primis. Come spieghi questa ambivalenza?
«Le memorie dei nostri computer e i nostri telefonini funzionano solo grazie
ai materiali che si estraggono in Africa. Le industrie cinesi vanno avanti
grazie al petrolio africano. Diamanti, oro e altri materiali preziosi che vedete
nelle vetrine newyorkesi vengono da qui. Eppure si parla di Africa solo per
ricordare quanti soffrono la fame - e sono ovviamente tantissimi - le guerre...
Al massimo siamo disposti, quando siamo benevoli, a soffermarci sugli aspetti
esotici, il ritmo che hanno innato, una serie di inutili banalità. È un
continente che ispira tutto questo perché convivono cose diverse e opposte ma
dobbiamo anche cominciare a pensare che ci sono tante differenze. Pensate che in
Africa ci sono almeno 2500 etnie, un numero pari di lingue e stati spesso
costruiti dagli europei con il tratto di una matita, annullando tutte le
differenze. Cominciamo a capire la diversità e la complessità, altrimenti non
capire mai nulla. Come occidentali dovremmo innanzitutto prendere coscienza di
non conoscere».
Preparare dei reportage è molto impegnativo.
«Preparare un reportage richiede tempo. Innanzitutto documentazione. Internet
è importante, ma non è la chiave di volta perché la Rete non è il Vangelo.
Quindi è necessario leggere libri, documenti delle organizzazioni internazionali
che spesso non sono reperibili in rete. È necessario individuare gruppi, singoli
che operano e conoscono il territorio per ricevere da loro suggerimenti, idee.
Chi opera sul campo è più aggiornato delle notizie che hai sulle rete che spesso
sono fallaci. L’esperienza diretta in posti difficili conta più di tutto. E poi
notizie sul clima che troverai, necessità di vaccinazioni particolari, di
oggetti da portarsi che sono magari di uso comune in Kenya, ma impossibili da
trovare in loco».
Spesso chiediamo alle telegiornaliste se hanno problemi a conciliare vita
privata e lavoro. Data anche la tua lontananza dall’Italia, ti sei mai dovuto
confrontare con questo problema?
«Conciliare vita privata e lavoro è difficilissimo. Si paga un prezzo alto.
Una volta si diceva che le mogli dei giornalisti erano le vedove bianche perché
con i mariti in giro per il mondo c’era poco da stare allegre. Ovvio che ognuno
ha storie e rapporti diversi alle spalle, capacità di tolleranza casalinga che
variano. Sicuramente questo lavoro impone delle rinunce nella vita privata, al
di là della retorica. Il prezzo della tua lontananza da casa lo paghi, sempre e
comunque. Un bel servizio spesso ti lascia l’amaro in bocca per una situazione
privata. Insomma, conciliare famiglia, affetti e il lavoro di giornalista su
campo - che ti impone assenze da casa e dagli affetti - è una bella sfida. I
fortunati si facciano avanti». |
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Una morte assurda di
Pierpaolo Di Paolo
Sono passati pochi giorni dalla tragedia
che si è abbattuta sul mondo del tennis
lasciando tutti increduli. Una notizia piombata come un fulmine a ciel sereno,
di quelle a cui si fa fatica a credere.
Federico Luzzi, ricoverato giovedì per i
sintomi di una polmonite, è morto.
Nato ad Arezzo nel 1980, Luzzi
è stato una delle più grandi promesse del
tennis italiano di questi ultimi anni. La
sua carriera ha una svolta nel 2001, quando - a soli 21 anni - si
guadagna la prima convocazione in Coppa Davis, esordendo con una vittoria
contro il finlandese Liukko. Grazie a lui, l'Italia tennistica non
sprofonda in serie C.
All'apice della sua carriera, Luzzi scala le
classifiche diventando 92° nel
ranking mondiale e terzo in
Italia, ma proprio quando i tempi
sembrano maturi per la sua definitiva consacrazione, la sfortuna comincia ad
accanirsi sul giovane talento italiano. Nel
2002 un grave infortunio alla spalla
condizionerà la sua carriera. Finito al
500° posto del ranking, per Luzzi inizia
un periodo buio e tormentato.
Nel 2004, mentre tenta una difficile
risalita, Federico si trova di fronte l'avversario sbagliato al momento
sbagliato. Il tabellone lo oppone all'austriaco
Koellerer, personaggio noto per la scarsa
educazione e la provocazione facile. Il match racconta di una gara molto
difficile per Luzzi, in cui l'austriaco sottolinea ogni suo punto esultando in
maniera spropositata, suonando la racchetta a mo' di chitarra, deridendo il suo
avversario.
A partita oramai compromessa, l'aretino perde
la testa. Abbandona la gara ancora non terminata e in luogo della consueta
stretta di mano l'austriaco si ritrova un meno accomodante pugno sul viso.
Il comportamento di Koellerer è stato così
palesemente antisportivo, e tanti sono i campioni che si schierano con Luzzi
contro l'antipatico austriaco, che - clamorosamente - l'ATP decide di
squalificare anche Koellerer.
Superato questo brutto episodio, inizia per
l'aretino una lenta risalita, fermatasi bruscamente sabato 25 ottobre. Poco dopo
aver giocato un match, Luzzi si sente male. Ricoverato giovedì 23 all'ospedale
di Arezzo per una sospetta polmonite, la diagnosi è impietosa: leucemia
fulminante. Federico muore due giorni dopo. Lo stupore, che si è abbattuto su
tutti, emerge dalle parole che
Rafael Nadal dedica all'amico
scomparso: «Non volevo credere alla notizia della sua morte. È andato via uno di
noi. Spero che adesso, ovunque tu sia, ti trovi bene». |
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