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Telegiornaliste anno IV N. 31 (156) dell'8 settembre 2008 
  
  
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Paola Abrate, professionalità e personalità
di Giuseppe Bosso  
 
Paola Abrate è 
giornalista professionista dal 2002. Muove i primi passi nell’emittente Studio 1 
Treviglio per poi passare a Bergamo Tv.  
 
Gioie e dolori della tua esperienza da giornalista?  
«Le gioie sono tante, a cominciare dal poter operare in una piccola realtà a 
stretto contatto con tutto quello che ti circonda, spaziando su ogni tipo di 
argomento. Una tv provinciale presenta il vantaggio di poter creare un grande 
feeling con i colleghi con cui dividi queste quattro mura. Alla lunga, però, 
questo ha anche i suoi contro: finisci per sentirti stretto in questo ambito e 
hai voglia di cambiare aria. Non ho fatto il grande salto di qualità forse per 
timidezza, ma alla fine ho preferito rimanere a casa mia e non me ne sono 
pentita».  
 
Hai qualche modello professionale a cui ti ispiri?  
«Credo che ogni giornalista abbia la propria personalità e le proprie 
caratteristiche. E' sbagliato cercare di imitare gli altri. In ogni caso ammiro 
molto una professionista come 
Annalisa Spiezie».  
 
Ultimamente i tg sembrano soffermarsi soprattutto sulle notizie di cronaca 
nera e, in particolar modo, riguardo le violenze alle donne. Cosa ne pensi?
 
«Provo un forte disagio come donna ad assistere a questa escalation di violenza. 
Come giornalista cerco sempre di calarmi nel mio ruolo con professionalità, ma 
una volta tolta questa veste rimane forte la sensazione spiacevole».  
 
Le storie e i temi che più ti piace affrontare?  
«Temi sociali, quelli di cui mi occupo principalmente. Non è facile citare una 
sola storia di quelle che ho seguito, ma ricordo una signora anziana che aveva 
telefonato a Bergamo Tv per chiedere aiuto essendo a rischio sfratto. Mi colpì 
vedere come vivesse in una casa malandata che affacciava sulla ferrovia, con una 
copia dei Promessi Sposi in mano… Una vicenda molto toccante, per la 
quale ho ottenuto anche un riconoscimento. Cerco sempre di seguire le storie con 
molta passione e impegno. Ricordo ancora un reportage che realizzai in occasione 
del terremoto di Nocera Umbra, al seguito degli alpini di Bergamo che erano 
andati lì a prestare assistenza alle popolazioni colpite, e ultimamente alcune 
inchieste sul mondo giovanile, soprattutto a seguito del caso di Kristel 
Marcarini».  
 
Bergamo fa parte della "provincia dimenticata" di cui i media tendono a 
disinteressarsi?  
«Non mancano le "cattedrali nel deserto", ma non condivido questo pensiero. Per 
la nostra storia e per la nostra tradizione, abbiamo dato e stiamo ancora dando 
molto all’Italia, in tutti i campi. Abbiamo avuto un papa come
Giovanni 
XXIII, una grande imprenditorialità, tante personalità di livello, e adesso 
anche il Ct della Nazionale (ndr: al momento dell'intervista il ct era 
Donadoni)! Insomma, non si può dire che siamo passati inosservati».  
 
Cosa rappresenta e cosa può rappresentare il successo elettorale della Lega?
 
«A favorire il successo della Lega sono state molte idee, come il federalismo 
fiscale che condivido. Ma non credo che il risultato di queste elezioni sia 
stato, come in passato, un voto di protesta. In ogni caso credo sia da valutare 
cosa può dare l’alleanza Berlusconi-Bossi, e non solo al Nord ovviamente».  
 
Che effetto ti fa
vederti su Telegiornaliste?  
«Mi fa sorridere. È comunque una cosa bella vedere come ci sia gente che si 
interessi al nostro lavoro e agli aspetti buoni della nostra professione. 
Soprattutto mi ha dato una certa emozione vedere il mio nome accanto a quelli 
importanti delle telegiornaliste nazionali».  
 
La notizia che vorresti dare?  
«Semmai ce n’è una che non vorrei dare: non c’è più libertà di esprimere il 
proprio pensiero».
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CRONACA IN ROSA Cose da Turchi di 
Erica Savazzi
                    
                    
                   «Ma si può girare tranquillamente?». È stata la domanda più 
diffusa al mio annuncio di passare le vacanze in Turchia, seguita da un timido 
«Deve essere bello». In realtà camminare per Istanbul non è diverso dal 
passeggiare a Milano o Parigi. Con l’unica differenza che il turista impreparato 
e influenzato da chi fa di tutti i musulmani un fascio si sorprende delle 
diversità che lo aspettano.  
                    
                   Ragazze con jeans e maglietta col foulard in testa, 
donne con il niqab nero e solo gli occhi scoperti (la guida ci tiene a 
sottolineare che sono Saudite, in Turchia il velo integrale non si usa), donne 
coi capelli al vento, turisti europei, giapponesi – spesso anche loro coperti, 
ma solo per evitare l’abbronzatura - e arabi.  
                    
                   Come in tutti i paesi musulmani, anche a Istanbul il 
                   muezzin – ormai è sostituito da dischi e altoparlanti - 
invita alla preghiera cinque volte al giorno. Ma non succede niente. 
Nessuno che si metta a pregare in pubblico. In Turchia è un “peccato” smettere 
di lavorare per pregare, chi è credente e praticante può recuperare con un’unica 
preghiera da dire a casa propria intorno alla mezzanotte.  
                   Ovviamente in moschea si può andare in qualsiasi 
momento, e il turista è benvenuto. Togliere le scarpe, coprirsi le spalle, non 
sempre la testa, e si entra: tra ceramiche di Iznik e decorazioni calligrafiche, 
stando attenti a non accedere nell’area riservata ai fedeli, ci si può sedere a 
riposare sui morbidi tappeti. Anche se il 99% della popolazione turca è 
musulmana, a Istanbul si possono vedere spose vestite di bianco col 
foulard sul capo: tradizione cristiana e tradizione musulmana che si incontrano, 
la globalizzazione che avvicina, integra e contamina.  
                    
                   La Turchia è una repubblica laica, chiesa e stato sono 
rigidamente separati, come stabilito da Mustafà Kemal, detto
                   Atatűrk, cioè “padre dei Turchi” negli anni 20. 
Combattente nella prima guerra mondiale, fautore dell’indipendenza e dell’unità 
della Turchia, primo presidente della Repubblica nel 1923, Atatűrk aveva una 
visione moderna e vicina all’Occidente per il proprio Paese, compresa l’uguaglianza 
tra uomo e donna che applicò assicurando per la prima volta in Europa il 
diritto di voto alle donne nel 1934.  
                    
                   Se oggi i turchi più colti sono preoccupati dall’azione del 
governo Erdogan – primo fra tutti il tentativo di abolire il divieto di portare 
il velo nelle università – è perché sentono tradita quell’impostazione 
originaria che ha permesso alla Turchia di diventare uno Stato moderno. Il 
mausoleo di Atatűrk, su una collina al centro di Ankara, ricorda a tutti gli 
ideali che hanno ispirato la nascita dello Stato e ammonisce e non dimenticarli.  
                    
                   Se gli europei guardano perplessi e un po’ preoccupati 
all’ingresso della Turchia nell’Unione, lo stesso si può dire dei candidati: 
pesa soprattutto la differenza religiosa, ma anche quella economica. 
Un esempio banale: i contadini della Cappadocia hanno tutti i pannelli solari 
sui tetti delle case, ma non per motivazioni ecologiche. Semplicemente è il 
metodo meno caro (rispetto per esempio al gas) per avere l’acqua calda. Il 
turismo, da questo punto di vista, è una grande risorsa, un imprescindibile 
motore di sviluppo. Peccato cha a volte ci si spinga nell’urbanizzazione 
selvaggia, con alberghi e palazzoni giganteschi nelle località marine. Ma 
d’altronde è una fase dello sviluppo, ci siamo passati anche in Italia. | 
   
  
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Viaggio in Un Posto al sole
                               di Valeria 
Scotti
                                
                                
                               Si respira la storia della televisione italiana 
nel Centro di Produzione Rai di Napoli, in quell’Auditorium che fu 
scenario degli show musicali di Mina degli anni Settanta e nelle stanze in cui 
nacque la stagione dei grandi sceneggiati. I corridoi raccontano il passato, i 
volti e gli spettacoli attraverso i poster che danno il benvenuto a chi 
passeggia tra quelle mura.  
                                
                               Poi c’è il presente, i lavori più recenti con una 
creatività culturale non meno importante di un tempo, e un successo televisivo 
lungo più di dieci anni, cementato dal meccanismo perfetto con cui ogni giorno 
si cura la produzione sin dalle prime ore del mattino. Un’ala tecnica con 
riunioni, stesura della sceneggiatura, ricerca degli attori, figuranti e 
preparazione di questi, ricerca di location esterne. E poi il set 
                               con un positivo fermento, i tanti tecnici – 
sempre invisibili al grande pubblico – attenti a ogni particolare e dislocati 
sui due piani che accolgono le scenografie, e la concentrazione e 
professionalità degli attori.  
                                
                               Tutto è cominciato per caso, quando in pochi 
avrebbero scommesso sull'ennesimo tentativo di produrre una fiction seriale. 
Ma le vicende di Palazzo Palladini, in onda dall’ottobre 1996 su Rai Tre, 
hanno conquistato subito i fan di 
                               
                               Un Posto al sole.  
                                
                               Oggi la soap opera prodotta da Rai Tre, Rai 
Fiction, Grundy Italia e Centro di Produzione Rai di Napoli può dirsi 
soddisfatta del suo potere seduttivo in tutta Italia. Come sfondo, la 
città di Napoli, poi la costola estiva per il terzo anno consecutivo – 
                               
                               Un Posto al sole estate appena terminato 
- e una popolarità leggibile attraverso i numeri e le curiosità. Oltre 2500 
gli episodi andati in onda, più di 25.000 comparse, 150 sceneggiatori, 120 
registi, numerose guest star e debutti fortunati, e un impegno sociale al fianco 
delle campagne di sensibilizzazione. Tanti i temi trattati: l’affido familiare, 
la violenza sulle donne, l’aborto, l’alcolismo, la delinquenza minorile, le 
stragi del sabato sera.  
                                
                               Ora è giunto il tempo della tredicesima 
stagione, di nuove storie e di un colpo di scena già annunciato da 
settimane: l’addio al personaggio di Giulia Poggi, interpretato da Marina 
Tagliaferri, dopo dodici anni di presenza. Un contratto non rinnovato che 
porterà a un’uscita in punta di piedi, come lei stessa ha dichiarato amaramente. 
Un divorzio non consensuale, proprio come nella realtà. | 
   
  
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CULT Lucio 
Battisti, dieci anni dopo di Valeria Scotti
 
 
L’addio, la chiusura al mondo da tempo. Di lui restano la musica e quei tre 
percorsi ben distinti. Il voler giocare con i testi di Velezia, pseudonimo della 
moglie Grazia Letizia Veronese, gli esperimenti con il poeta Pasquale Panella, 
ma su tutti il compagno di sempre, Mogol, e la loro alchimia.  
 
In Inghilterra è il tempo dei Beatles, mentre noi abbiamo Lucio Battisti 
e i suoi fiori in bocca, la sua anima latina, le sue giornate uggiose, i suoi 
esperimenti anglosassoni forse troppo azzardati. Lei, la canzone, protagonista 
su tutto. E poi la personalità forte di Lucio, il suo essere esigente con brani 
complessi e innovativi, la sua “non voce” bizzarra ed inusuale tra 
falsetto, recitato e cantato. Sorprendente la produzione di Mogol-Battisti dalle 
mille sfaccettature in un Paese sempre più coinvolto da storie di tradimenti, 
abbandoni e illusioni e dai suoi protagonisti, uomini e donne senza distinzioni.
 
 
Gli anni passano, e la favola pian piano si avvia alla conclusione che sa di 
distruzione. Mogol scrive nuove storie allontanandosi dal divo che si fa sempre 
più invisibile. Panella gli sta accanto professionalmente tra spose 
occidentali e teorie filosofiche, rispettando quel suo sentire la vita, ora più 
che mai, in maniera taciturna.  
 
Basta allora alla comunicazione con la parola: c’è solo la musica e il 
Battisti eremita protetto nella sua casa in Brianza, ma continuamente 
tormentato da chi si diverte a conquistare avvistamenti. Fino al 9 settembre 
1998 e all’ultimo viaggio, a suo modo silenzioso, nel cimitero di Molteno.
 
 
Dieci anni dopo, chiudo gli occhi e penso, ancora, a te.  | 
   
  
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DONNE Annarella 
non c’è più di Camilla Cortese
                    
                    
                   Annarella è morta. Un pezzo di Roma è perduto per sempre. 
Quella Roma ruspante, chiassosa, irruente, ricolma di vita per le strade. 
Marisa Merlini ci ha lasciati a 84 anni, nel sonno, come una dolce nonna.  
                    
                   Nata a Roma nel 1923, da giovanissima frequentò la scuola di 
recitazione della contessa Serra, partecipando agli spettacoli del Teatro dei 
fanciulli (oggi Teatro Flajano) curati da Vittorio Metz. Poi il padre abbandonò 
la famiglia e lei, per aiutare, iniziò a lavorare in una profumeria. 
Amava spesso raccontare che vi sarebbe rimasta a vita se un giorno non fosse 
entrata Mariuccia Giuliano, moglie di Erminio Macario, che selezionava con 
formidabile fiuto le famose “donnine” che circondavano il comico torinese nelle 
sue sfavillanti esibizioni.  
                    
                   Così nel 1941, a 17 anni, esordì nel teatro di rivista con 
                   Primavera di donne accanto a Wanda Osiris. Lo spettacolo 
fu un successo e la sua procace bellezza le valse il debutto al cinema 
con Mario Mattoli. Incline ai caratteri comici e grande macchiettista 
dalle forme prorompenti, il talento di attrice e l’impeto da "romana de Roma" 
la imposero in quasi cento commedie popolari al fianco di Totò e con registi 
come Mario Monicelli, Vittorio De Sica, Ettore Scola e Mario Camerini.  
                    
                   Chi non ricorda la levatrice Annarella in bicicletta con 
Vittorio de Sica in Pane, amore e fantasia (1953) e nel suo seguito 
Pane, amore e gelosia (1954) entrambi di Luigi Comencini, pellicole che le 
valsero enorme seguito e successo. Si vantava di aver interpretato il ruolo 
della levatrice, tipico del cinema di quegli anni, in quattordici film, e di 
aver recitato ogni volta in maniera diversa. Il regista Pupi Avati, l’ultimo ad 
averla diretta al cinema in
                   La seconda notte di nozze (2005), ricorda come 
riusciva a piegare ogni personaggio alla sua personalità, come sapeva muoversi 
sul set con competenza e rispetto dei ruoli e quanti preziosi aneddoti 
sul cinema fosse solita raccontare.  
                    
                   Marisa Merlini ha saputo accettare man mano parti, 
anche televisive e teatrali, consone alla sua età, interpretate sempre 
con la verve dell’allegra prostituta di
                   Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca 
                   (1970) di Ettore Scola e con la malinconia di Tempo di 
villeggiatura (1956) di Antonio Racioppi, ruolo che le valse il Nastro 
d'Argento nel 1957 come miglior attrice non protagonista.  
                   Oggi Roma è un po’ più piccola, e Marisa ci mancherà 
tantissimo.  | 
   
  
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TELEGIORNALISTI 
             
             
        
       Giuseppe Ciulla, il pubblico è la nostra 
fonte 
  di Giuseppe Bosso 
   
  Giuseppe Ciulla è 
giornalista professionista dal 2001. Coordinatore responsabile del Tg di 
Telelombardia, conduce le trasmissioni Orario continuato e Prima 
Serata. Vincitore nel 2006 del Premio Vergani come cronista dell'anno per 
un'inchiesta sulle donne islamiche, l'anno seguente ha ricevuto anche il Premio 
Lingotto d'oro Sesto San Giovanni.  
   
  Siciliano trapiantato a Milano: quali difficoltà hai incontrato?  
  «Nessuna in particolare, se non quelle di chiunque scelga di vivere a Milano: 
caro-affitti, caos, smog, un'umanità piegata alle esigenze del lavoro. Milano è 
una città difficile per tutti, non solo per i siciliani "trapiantati". Col 
tempo, però, ho imparato ad amarla per le opportunità che può darti».  
   
  Sei il coordinatore responsabile del Tg di
  
Telelombardia. Cosa comporta questo ruolo?  
  «La responsabilità di un telegiornale che ha l'ambizione di parlare alla 
regione più popolosa del Paese nella quale sono nati fenomeni come la Lega o il 
berlusconismo, dove convivono forti conflitti sociali, soprattutto nelle aree 
più urbanizzate. La Lombardia si dice sia la locomotiva d'Italia, e noi dobbiamo 
spiegarne le ragioni, raccontarne le trasformazioni, ma anche le storie semplici 
di un territorio molto vario».  
   
  A Qs hai avuto modo di intervistare i personaggi della politica 
sulle loro passioni sportive. Chi ti ha colpito maggiormente?  
  «Far conoscere i politici sotto il profilo sportivo è stato molto divertente. 
Ricordo che Borghezio mi raccontò delle lunghe nuotate che ama fare in estate, e 
che se gli fosse capitato di imbattersi nella barca di D'Alema, gliela avrebbe 
affondata. Mastella (calcio), simpatico; la Melandri (sci), molto disponibile; 
il comunista Rizzo (boxe), il più vanitoso».  
   
  Due anni fa hai vinto il Premio Vergani come cronista dell'anno per 
un'inchiesta sulle donne islamiche. L'integrazione degli extracomunitari nella 
nostra società è un tema sempre al centro dell'attenzione dei media. Come può un 
giornalista contribuire a favorire lo sviluppo di una vera Italia multietnica?  
  «Non credo che il nostro compito sia quello di favorire o di sfavorire 
un'Italia multietnica. Quella, semmai, può essere una conseguenza. Ciò che 
possiamo fare rispetto al fenomeno dell'immigrazione è raccontarlo bene, senza 
lasciarci trascinare o condizionare dall'opinione comune, non perdere la voglia 
di scandagliarlo in ogni suo aspetto, non fermarci in superficie. L'inchiesta ha 
fatto parlare le donne islamiche del loro rapporto con il velo, delle ragioni di 
quella che per loro è una scelta e non una maschilistica imposizione da parte 
del marito. Io credo che non per tutte sia così, che ci siano molte donne di 
fede islamica alle quali il velo viene imposto, che sognano un'emancipazione 
che, anche qui in Italia, ancora non c'è. E' comunque importante non assecondare 
i luoghi comuni».  
   
  A Orario continuato si assiste al confronto tra il mondo politico e 
il giudizio del cittadino, da tempo alle prese con rincari e emergenza 
sicurezza. In questi casi, il conduttore deve comportarsi come mediatore o 
cercare di sostenere le giuste rimostranze della gente?  
  «Il contatto con la gente è uno dei punti di forza di Telelombardia. Le 
telefonate sono spesso vere e proprie fonti, forniscono notizie dal territorio e 
ci permettono di avvertire il comune sentire della gente. Penso sia giusto 
intervenire a sostegno di ciò che le persone dicono, quando riteniamo giuste le 
loro rivendicazioni. Ma allo stesso tempo occorre evitare che in televisione 
passino informazioni sbagliate o considerazioni offensive nei confronti degli 
ospiti o di determinate categorie. Se ad esempio un telespettatore mi dice - ed 
è successo - che gli stranieri che arrivano con i gommoni dovrebbero essere 
ributtati in mare, "taglio" la telefonata e non ho nessun problema a replicare 
che ha detto una stupidaggine. Insomma, distinguiamo una trasmissione di 
approfondimento giornalistico dalle fesserie da bar».  
   
  E' corretto affermare che un tg come quello di Telelombardia può dare 
spazio anche alle provincie trascurate dai tg nazionali?  
  «Le province spesso sono la vera anima di questo Paese. Noi cerchiamo di 
seguirle il meglio possibile. Credo che ancora ci sia tanta strada da fare per 
far capire agli editori di livello nazionale quanto sia importante 
l'informazione locale».  
   
  Qual è la notizia che un giorno vorresti dare al tg?  
  «Tutte le notizie hanno pari dignità, ma se mi chiedi di sognare, direi: 
"Catturato oggi l'ultimo mafioso in circolazione in Sicilia..."».  
   
  Un tuo commento sull'incredibile vicenda dei diritti televisivi sul 
campionato che ha rischiato di negare ai tifosi i gol della prima giornata?
   
  «Mi sembra che i club di serie A, ancora una volta, abbiano dimostrato di 
sentirsi parte di un mondo che vive al di là del reale, al di fuori delle regole 
(ricordate il decreto spalma-debiti?) e del comune sentire della società, una 
sorta di enclave dove le norme possono essere stiracchiate perché tanto "noi 
siamo il calcio", e dove le persone che seguono le proprie passioni sportive 
sono più clienti che tifosi. Insomma, che conti più il portafoglio che il cuore 
per le società calcistiche, si sapeva. Il pallone è però per gli italiani una 
sorta di religione laica, è quasi parte del ménage di famiglia, e per fortuna 
alla fine tutto si è risolto per il meglio. Ma in ogni caso occorrerebbe anche 
una seria riflessione sulla classe dirigente che ha guidato i club in questi 
anni, senza dimenticare le responsabilità della politica». | 
   
  
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SPORTIVA 
Pechino 2008: i voti agli azzurri di
                                   Mario Basile  
                                    
                                   La ventinovesima edizione dei Giochi 
Olimpici va in archivio con un discreto
                                   nono posto nel medagliere per la 
nostra nazione. A Pechino 2008 il computo totale delle medaglie italiane 
recita così: 8 medaglie d’oro, 10 
                                   d’argento e 10 di bronzo. Come al 
solito non sono mancate sorprese e delusioni. Noi di Telegiornaliste 
abbiamo dato i voti ai protagonisti della spedizione azzurra.  
                                    
                                   10 e lode a Valentina Vezzali. 
«Che Olimpiade sarebbe senza un oro della schermitrice marchigiana?» si sono 
detti in molti dopo la conquista della medaglia d’oro nel fioretto individuale. 
Il voto massimo vale come premio alla carriera: è l’azzurra che ha vinto più 
medaglie d’oro alle Olimpiadi. Stesso discorso per Giovanna Trillini, 
vincitrice del bronzo nel fioretto a squadre e scippata della finale in quello 
individuale da un arbitraggio sospetto. Il quarto posto finale è stato l’epilogo 
della sua avventura: a 38 anni suonati ha deciso di ritirarsi. Il 9 
                                   in pagella se lo merita ampiamente.  
                                    
                                   Mezzo voto in più (9,5) per un’altra 
donna-fenomeno del nostro sport: Josefa Idem. Anche per la 44enne 
canoista tedesca naturalizzata italiana non è arrivata la medaglia d’oro, ma un 
argento che sa di vittoria. Quella con se stessa. Pechino 2008 è stata per lei 
la settima olimpiade consecutiva e la quarta in cui è salita sul podio. Se non è 
una vittoria questa.  
                                    
                                   Luccica come l’oro anche l’argento di 
                                   Davide Rebellin, primo azzurro a salire 
sul podio nell’Olimpiade. A 37 anni, è il coronamento di una carriera. Voto 
7,5 
                                   a lui e agli altri azzurri d’argento: 
                                   Alessia Filippi, Alessandra Sensini,
                                   Mauro Sarmiento, Giovanni Pellielo,
                                   Francesco D’Aniello, la squadra 
maschile del quattro di coppia di canottaggio formata da Luca Agamennoni, 
Simone Venier, Simone Ranieri e 
                                   Rosario Galtarossa, senza dimenticare il 
trio del tiro con l’arco Ilario Di Buò,
                                   Marco Galiazzo e Mauro Nespoli.
                                    
                                    
                                   Otto pieno (8), invece, per gli 
azzurri che hanno vinto la medaglia d’oro: l’attesissima Federica Pellegrini, 
la judoka Giulia Quintavalle (a cui va anche riconosciuta la battuta più 
simpatica dei giochi: «Dopo questa vittoria potrete chiamarmi Primavalle…»), lo 
schermidore 
                                   Matteo Tagliarol capace di riportare sul 
gradino più alto del podio la spada italiana dopo 48 anni, la tiratrice 
Chiara Cainero, il lottatore Andrea Minguzzi, il boxeur Roberto 
“Bob” Cammarelle e, per finire, il re della 50 km di marcia Alex Schwazer.  
                                    
                                   Sette (7) ai vincitori del bronzo: la 
squadra femminile di fioretto (Granbassi,
                                   Trillini, Vezzali e 
                                   Salvatori) e quelle maschili di sciabola 
(Tarantino, Montano e 
                                   Pastore )e spada (Tagliariol, 
                                   Rota, Carozzo, Confalonieri),
                                   Margherita Granbassi (vincitrice anche 
nel fioretto individuale), Elisa Rigaudo,
                                   Diego Romero, Tatiana Guderzo,
                                   Salvatore Sanzo, Vincenzo Picardi 
                                   e i ragazzi del K2 Andrea Facchin e 
                                   Antonio Scaduto.  
                                    
                                   Sufficienza rotonda (6) per la 
                                   pallavolo maschile. Non siamo più i più 
forti e lo sapevamo, ma gli azzurri hanno dimostrato di avere un grande cuore e 
lottato anche contro diversi infortuni. Mezzo punto in meno alle loro colleghe 
donne (5,5), fuori ai quarti di finale.  
                                    
                                   Insufficienza piena (5) per le 
delusioni di Pechino 2008. Nel gruppone rientrano nomi illustri. C’è chi puntava 
all’oro e chi, invece, poteva fare meglio: da
                                   Bettini a Rosolino, Howe,
                                   Di Martino, Scapin, Cassina,
                                   Maddaloni fino ad arrivare a 
                                   Gibilisco.  
                                    
                                   Voto più basso (4) ai ragazzi del 
                                   calcio. Gli under 23 di Casiraghi si sono 
fatti buttare fuori a sorpresa dal modesto Belgio. È vero, Argentina e Brasile 
erano una spanna sopra, ma le potenzialità per arrivare almeno sul podio c’erano 
tutte.  
                                   Altro appuntamento olimpico fallito per lo 
sport principe del nostro Paese. È ora di invertire la rotta. 
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