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Telegiornaliste anno IV N. 25 (150) del 30 giugno 2008
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MONITOR
Anna Scafuri, sapori DOC al Tg1
di Giuseppe Bosso
Anna Scafuri,
giornalista professionista dal 1991, cura dal 2004 la rubrica enogastronomica
Terra e Sapori, in onda ogni venerdì durante il tg delle 13.30.
Giornalista enogastronomica per scelta propria o altrui?
«Assolutamente per scelta mia, naturalmente con l’appoggio e la fiducia del
caporedattore e del direttore. Curo con molta passione ed entusiasmo questa
rubrica dedicata all’agricoltura e all’alimentazione, temi che meriterebbero
maggiore spazio».
Uno sguardo all’attualità e al caso mozzarella di bufala che si è abbattuto
sulla Campania e non solo. Cosa ne pensa?
«E' una vicenda drammatica che ha creato molta confusione anche per il modo con
cui è stata affrontata dai media, e per il rincorrersi di notizie qualche volta
contraddittorie. La risposta delle autorità sanitarie è stata pronta ed
immediata, ma inevitabilmente molti Paesi concorrenti dell’Italia hanno
approfittato di questo clima che si era creato. La responsabilità è soprattutto
della camorra che scarica i rifiuti industriali nella regione dove sono nata.
Conforta il fatto che, in nessuno dei caseifici dove si produce mozzarella DOP,
siano state riscontrate irregolarità. Che occorrano monitoraggi e verifiche è
innegabile, soprattutto in un territorio così fragile, ma non dobbiamo allarmare
la gente più della realtà».
E infatti la vicenda della mozzarella è solo l’ultima di una serie di
emergenze alimentari che abbiamo vissuto in questi anni, come la mucca pazza e
l’influenza aviaria. Talvolta, però, è sembrato che i media tendessero ad
amplificare la portata delle vicende, lei è d’accordo?
«Certo. Purtroppo è una tendenza che abbiamo noi giornalisti, e tante volte non
ci rendiamo conto del danno che creiamo. Basti pensare all’inchiesta
dell’Espresso in occasione di
Vinitaly, ribattezzata Velenitaly
dall’articolo
che ha creato scalpore. Anche in questo, ahimé, chi ci guadagna sono i
concorrenti dei prodotti italiani. Io credo nella magistratura che riesce sempre
a mettere le mani sui frodatori di turno, e anche in questo caso la realtà era
di portata minore rispetto a quanto si era tentato di rappresentare. Le notizie
vanno date, ma nella massima trasparenza e correttezza, perché altrimenti si
rischia di danneggiare settori che sono portanti nella nostra economia».
L’agroalimentare italiano risente, al pari di altri settori, della
contraffazione e della presenza nei nostri mercati di prodotti stranieri,
soprattutto cinesi. Di chi sono le responsabilità maggiori?
«Le istituzioni non possono chiamarsi fuori, a cominciare dall’Unione Europea
che non riesce ad imporsi adeguatamente al di fuori dei suoi confini».
A chi rivolge maggiormente la sua attenzione nel curare la rubrica del Tg1?
«Ai consumatori che devono orientarsi in un momento economicamente non facile in
cui le famiglie fanno fatica ad andare avanti. I miei principi guida sono
questi, con uno sguardo particolare soprattutto ai temi dell’attualità».
E’ vero che in rubriche come la sua si punta più alla qualità che agli
ascolti?
«Certamente, almeno per quanto mi riguarda. Anzi, è difficile che io segua come
vanno gli ascolti che so essere buoni, in particolare da quando ci siamo
spostati dal tg della domenica a quello del venerdì. La cosa che più mi preme è
dare spazio a quei temi e a quegli argomenti altrove poco rilevanti, di cui
invece il pubblico consumatore ha grande esigenza. E in questo posso dire di
essere affiancata da una squadra validissima, a cominciare dai bravissimi
addetti al montaggio, in particolare da Marco Alfonsi che cura egregiamente
l’edizione».
La nascita di canali satellitari a tema possono sottrarre spazi come quelli
della sua rubrica alla tv generalista?
«Non direi. Questi canali sono rivolti principalmente al pubblico degli addetti
ai lavori che inevitabilmente richiede un linguaggio più tecnico e specifico.
Noi invece puntiamo alla generalità dei telespettatori. Questo, certo, ci impone
talvolta di sacrificare qualcosa, ad esempio una presentazione più specifica di
certi tipi di vino o di alimenti. Ma come dicevo prima, è all'attenzione verso
le esigenze dei consumatori che è orientato il nostro lavoro».
Continuerà ad occuparsi di temi enogastronomici?
«Spero di sì, è un settore a cui ho dedicato gli ultimi anni della mia vita
professionale e vorrei proseguire nei prossimi anni. A maggior ragione perché ho
la fortuna di lavorare in piena libertà».
Quindi non ha mai subito condizionamenti di alcun genere?
«Assolutamente no. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i vari direttori che
si sono succeduti in questi anni, e tutti mi hanno sempre dato piena autonomia
nella gestione dei servizi, nelle scalette e nei temi da trattare. Ho un
buonissimo rapporto soprattutto con il vicedirettore Claudio Fico, che ha molto
creduto in questa rubrica fin dalla sua creazione, quattro anni fa, da parte del
direttore
Clemente J. Mimun». |
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CRONACA IN ROSA Womenomics, oltre la solita
economia
di Erica Savazzi
Facendo un paragone forse azzardato potremmo dire che la
donna è “una e trina”: moglie e madre secondo la definizione più
classica, dagli anni del femminismo è anche lavoratrice. Se c’è chi oggi
ridiscute la (presunta) parità che troppo spesso – soprattutto in Italia –
diventa doppio lavoro e doppia fatica, fuori e dentro casa, c’è anche chi ha
scoperto nella womenomics, cioè nell’economia “femminile”, un
potenziale fattore di crescita economica.
Di womenomics ha parlato per primo un numero dell’Economist
ormai vecchio di due anni che individuava nelle potenzialità
non sfruttate delle donne un volano dell’economia
mondiale: occupazione femminile, PIL e natalità
risulterebbero strettamente legati. Più donne occupate significherebbe più
prodotto interno lordo, ma non solo: le donne, oltre a lavoratori, sono
consumatori,
imprenditori e investitori, e spesso con titoli di
studio superiori ai loro colleghi maschi. Energie positive, quindi, un bagaglio
di capacità, saperi e idee che dovrebbe essere adeguatamente sfruttato. E infine
le donne che lavorano – e quindi guadagnano - tendono ad avere più figli, come
dimostra concretamente il caso dei Paesi scandinavi.
Il tasso di occupazione delle donne italiane è di 9 punti
percentuali inferiore alla media europea: il nostro 46,3% nel 2007 ci colloca al
penultimo posto della classifica europea, con in più un divario di quasi 30
punti percentuali tra il Nord e il Sud del Paese. L’ultima ricerca Eurispes ha
un titolo eloquente: Donne e lavoro, la conciliazione che non c’è.
Purtroppo i contenuti non sono nuovi: è difficile
conciliare il lavoro con la vita familiare e con il tempo
dedicato a se stesse, la maternità rappresenta ancora un ostacolo alla
realizzazione professionale e il lavoro di cura, a causa della cronica mancanza
di servizi pubblici (es. asili) è affidato quasi completamente alle donne.
Infine, la mentalità. Pregiudizi che fanno sì, per
esempio, che il congedo dopo la nascita di un figlio sia sfruttato solo dalla
madre, nonostante una legge preveda il congedo di paternità. O che alcune
professioni (infermiere, insegnante) siano domini quasi interamente femminili. O
che le donne, anche se con i giusti titoli, abbiano più difficoltà a ottenere
promozioni e arrivare a posizioni di rilievo. |
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Gabriele Marconi: sono un "malincomico" di
Valeria Scotti
Figlio di quella scuola per imitatori in tv degli
anni Novanta – Stasera mi butto –
Gabriele Marconi ha lavorato, nel corso di
questi anni, in numerosi programmi – l’ultimo,
Guida al Campionato su Italia Uno -
impersonando figure del panorama politico, sportivo, culturale e dando voce
anche a personaggi nuovi. Definirlo, però, solo un imitatore è certamente
riduttivo.
La tua prima grande occasione televisiva è
stata nel 1990 con Stasera mi butto, il campionato nazionale per
imitatori su Rai Due. Per chi come te si avvicinava al mondo dell’imitazione,
cosa rappresentava quel programma?
«Quello che oggi difficilmente rappresentano i
programmi per gli specialisti. Ormai i programmi sono quasi una vetrina, e non
certo varietà per scoprire nuovi talenti. Per me Stasera mi butto è stata
una grande possibilità che non immaginavo potesse darmi soddisfazioni importanti
come quella di arrivare, con gli altri finalisti di quella edizione, a fare una
trasmissione con Raffaella Carrà tutte le domeniche. Non fummo abbandonati da
Rai Due, contrariamente a oggi che c’è più la tendenza a usare e buttare i
giovani».
Uno dei tuoi cavalli di battaglia è stato il
buon Antonio Lubrano. Come si fa poi a uscire da un personaggio, ma soprattutto
si riesce a non rimanerne vincolato a vita?
«Credo che sia più un problema per chi ti vede.
Quell’imitazione è stata per me quasi una scommessa: era un tentativo di uscire
dalle solite imitazioni, non ero sicuro che potesse essere così efficace. E poi
quel personaggio, in un certo senso, è più Gabriele che Lubrano: c’è una tale
simbiosi tra i due. Di Lubrano mi piaceva la cadenza, il modo di comunicare ed
il personaggio che si avvicinava molto al mio voler essere comico. Uscire da
quel nome è stato praticamente impossibile, perché in fondo ero me stesso. La
mia ironia si legava molto al suo stile e agli occhi degli altri appariva anche
una vaga rassomiglianza fisica. Ma quando non sono un autore e mi limito a fare
l’interprete, credo di poter entrare anche in personaggi diversi da lui. Magari
anche un po’ truccato, così anche gli altri ci credono. Forse il problema è
stato più per Lubrano che, da un certo punto in poi, non è più riuscito a
svincolarsi dall’imitazione che ho fatto di lui».
Nel corso di questi anni hai fatto tantissima
tv, sulle reti nazionali e su quelle private. C’è differenza nella libertà di
espressione?
«La differenza c’è. Soprattutto quasi vent’anni
fa, quando non si potevano dire molte cose, anche a livello di volgarità.
Ricordo una mia battuta quando imitavo Piero Angela: giocavo sul nome degli
uccelli e fui costretto a modificare alcune cose. E ricordo anche la Carrà – che
io adoro - quasi sbiancare prima che la dicessi. Diciamo che tra il 1990 e il
‘95 in televisione tante cose non si potevano dire. In seguito è tutto cambiato,
sia per la volgarità che per la satira. Io, comunque, ho sempre preferito
l’eleganza e non la battuta scurrile. Chiaramente la grande differenza con la
televisione privata è che potevo veramente parlare senza controlli e censure, ma
anche lì ho cercato di non essere mai troppo cattivo e volgare».
Tra i tuoi ultimi impegni in tv c’è stato
Guida al Campionato. Il calcio, come la
politica, è sempre stato il bersaglio ideale per le imitazioni. Come mai?
«Paradossalmente trovo più difficile fare satira
con il calcio, è un argomento più “sacro” rispetto alla politica in cui i
politici accettano di essere imitati e non c’è quella passionalità dei tifosi
nei confronti della squadra del cuore. Ultimamente, però, nel calcio c’è più
dissacrazione, come tanti anni fa per la satira politica, e poi c’è sicuramente
un coinvolgimento maggiore che spiega questo successo. Quanto alla politica, i
politici originali, a volte, sono anche più comici delle copie».
C’è qualche personaggio che non ha
particolarmente funzionato?
«Prima di Lubrano, alla fine degli anni Ottanta,
avevo tentato di imitare Funari, un personaggio ai più antipatico o addirittura
sconosciuto. Fu difficile da far digerire agli altri, tanto che a un certo punto
rinunciai. Poi l’ho riproposto e mi ha dato grandi soddisfazioni. Addirittura in
molti preferivano la sua imitazione a quella di Lubrano. Per il resto c’è un
personaggio che da tanti anni faccio nel campo sportivo, Ancelotti, ma con cui
ho trovato sempre una grande resistenza. E poi Moggi che scoprii prima di tutti:
lo proposi al Bagaglino, ma solo per una volta perché non ci credevano, dunque
non mi ha dato le soddisfazioni che mi aspettavo».
Qual è la tua opinione sulla comicità di oggi?
«Io non amo la comicità volgare: per far ridere
non occorre usare termini forti. Per esempio non mi piace molto Grillo o tutti i
vari “Grilletti” che sono in giro. Preferisco uno stile di comicità alla Troisi,
più raffinata, così come ho sempre amato molto la comicità napoletana nonostante
io sia romano. La comicità napoletana è addirittura filosofica. E mi spiace che
ci siano state trasmissioni che hanno portato avanti questo modo di far ridere
attraverso la volgarità».
Cosa rimproveri dunque agli imitatori del
presente?
«Non sopporto quando vengono bruciati dei
personaggi semplicemente con il travestimento o con l’utilizzo di un truccatore
bravo. Negli ultimi tempi tante persone si sono dedicate alle imitazioni senza
essere degli imitatori, semmai dei bravi attori, ma hanno avuto successo perché
si son potuti permettere i migliori truccatori sul mercato. Hanno dunque
lavorato molto sull’aspetto e poco sulla voce o sulle caratteristiche, magari
caricando anche oltre misura e uscendo proprio dal personaggio. Ai tempi di
Stasera mi butto, invece, non era così: il trucco non c’era, al massimo si
poteva giocare su un solo elemento come una parrucca o un paio di occhiali. Ho
apprezzato tantissimo Sabani e la sua coerenza: non ha mai voluto fare le sue
imitazioni truccato, ma ha cercato sempre di far ridere attraverso pochi
elementi, come un ghigno o un atteggiamento particolare».
Come ti definiresti oggi?
«Un “malincomico”, un comico che non è mai
riuscito a liberarsi dalla sua malinconia, anche perché non sono nato come
comico, ma come autore di canzoni. Volevo fare il cantante, però la strada era
dura e quando ho scoperto l’imitazione, a malincuore mi sono buttato su questa
strada. Ho imparato a scrivere cose comiche successivamente, e mi sento portato
più per l’ironia che la comicità. L’etichetta di imitatore mi ha sempre
limitato. Definirmi è difficile: mi sento più un attore che sa scrivere, anche a
livello di canzoni. Sono un artista che cerca di usare tutte le corde per poter
sentirsi appunto un’artista. E poi, dopo aver fatto una parte in un film di Pupi
Avati - uno dei pochi registi che non si fa suggestionare dalle etichette –
spero di avere prima o poi una grande chance come attore, magari proprio con
lui...». |
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CULT La
montagna nei ricordi di Monique Jacot
di Valeria Scotti
Sono immagini in bianco e nero, prive di colore ma non di espressività, quelle
che Monique Jacot dedica alle donne di montagna. Sono gli sguardi attenti
di una fotografa che, attraverso queste scene, nutre i ricordi della sua
gioventù caratterizzata anche da quelle donne del territorio montano svizzero,
simbolo di un mondo contadino universale.
E’ questo il tema di Con gli occhi della mia infanzia, la mostra
inaugurata lo scorso 20 giugno al Castello di Verrès e che è tratta dal
più ampio progetto Les femmes de la terre, raccolta realizzata tra il
1984 e il 1999 per documentare le condizioni di vita delle donne nelle campagne
e nelle fabbriche.
La Jacot, nata nel 1934 in Svizzera, è da anni al servizio della sua macchina
fotografica. Freelance per riviste di prestigio, ha lavorato anche per l'Organizzazione
mondiale della sanità, essendo particolarmente interessata a temi sociali e
culturali.
Una mostra che introduce un altro grande evento legato alla montagna, la prima
edizione del
Mountain Photo Festival, che si svolgerà ad Aosta dal 22 agosto al 21
settembre.
Open your mountains, lo slogan dell'appuntamento, è un invito al confronto,
al dialogo e allo scambio culturale, sulle tematiche che coinvolgono i territori
di montagna di tutto il mondo.
E invidiabile è la presenza proprio della fotografa all’evento perché, come
spiega Lorenzo Merlo, critico e Direttore Artistico del nuovo festival, «Monique
Jacot dedica alle donne rappresentate delle immagini “miracolose”. Queste
fotografie frenano il nostro sguardo eccitato dalla modernità,riportandoci a un
popolo dal viso prodigiosamente semplificato dal lavoro e dal silenzio e finendo
per condurci fuori dal tempo». |
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DONNE Arabia
Saudita, piccole giornaliste crescono
di Federica Santoro
Il giornalismo in Arabia Saudita è sotto controllo
governativo: stampa e tv devono sottostare a una rigida censura. Per le
donne la situazione è anche più difficile: persino condividere lo stesso spazio
lavorativo con gli uomini è vietato. Ma le cose stanno cambiando.
Rania al Baz, nota giornalista, presentatrice di un
programma della televisione pubblica, si mostra in video con il velo ma con il
viso scoperto e un foulard sgargiante. Per le donne saudite diventa subito un'icona,
il simbolo della lotta per la libertà. Ma improvvisamente Rania non va più in
onda. Qualche settimana dopo si saprà che il marito, in preda alla gelosia, l’ha
percossa fino a sfigurarla. Uscita viva da quella terribile esperienza, decide
di raccontare al mondo la sua storia e di portare la sua
coraggiosa testimonianza come una bandiera per la difesa
dei diritti delle donne arabe, contro ogni pregiudizio: «Coloro che si
trincerano dietro l’Islam per giustificare un'azione del genere mentono - dice -
coloro che pensano sinceramente che il Corano incoraggi tali pratiche,
sbagliano. È una faccenda di mentalità maschile, niente di più».
Storie di violenza come questa accadono spesso alle donne
musulmane che subiscono forti discriminazioni in molti aspetti della loro vita,
dall’educazione al lavoro, alla vita privata, compresa la famiglia. «Le donne
saudite - racconta
Fatima Al-Faqih, giornalista del quotidiano Al
Watan - non possono guidare l’automobile, fare viaggi senza il permesso (del
marito del padre o di colui che ha potestà su loro, ndr), stare sole in
un albergo senza permesso, scegliere il nome del figlio senza il consenso (del
marito, ndr), lasciare casa o accettare un lavoro senza permesso.
Proibito cambiare il colore delle abaya
(la tradizionale lunga tunica, ndr) senza permesso,
proibito andare a scuola o all’università senza permesso».
In una cultura dove la donna vive nella costante paura
che il marito possa prendere un’altra moglie, intimidita,
controllata e spesso punita, sono molte le giornaliste che rischiano la vita
perché tutto questo cessi. Per incoraggiare le donne saudite a lavorare nel
giornalismo e aiutarle a sviluppare le loro capacità professionali, la
principessa Hassa Bint Bin Abdulaziz, figlia del governatore di Riyad, ha
lanciato di recente un'importante iniziativa che mette a disposizione 160 mila
dollari in premi e borse di studio rivolti soprattutto a quelle donne che
eccellono nonostante le difficili condizioni professionali in cui lavorano.
Inoltre due premi speciali di 27 mila dollari andranno alle croniste più
meritevoli. Un ulteriore passo in avanti verso quei diritti negati alle
donne musulmane, che oggi grazie alla loro forza emergono dal silenzio. |
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TELEGIORNALISTI
Andrea Longoni, il giornalista sognatore
di Giuseppe Bosso
Andrea Longoni è
iscritto all'albo dei praticanti della Lombardia dal novembre 2007. Dopo uno
stage a Telelombardia e Antenna 3, oggi lavora alla redazione sportiva della
storica emittente.
Gioie e dolori di un giornalista di Telelombardia?
«Ho sempre sognato di lavorare per questa emittente, fin da piccolo è stata un
grande punto di riferimento per la mia passione sportiva. Aver realizzato il mio
sogno, aver fatto della mia più grande passione il mio lavoro è motivo di grande
felicità. Telelombardia mi ha avvicinato alla professione di giornalismo e,
giorno dopo giorno, mi sta facendo crescere e migliorare sempre più. E'
l'ambiente ideale per crescere, ricco di giovani, come una palestra del
giornalismo, ma non solo. Con il passare del tempo e un po' più di esperienza ci
si può togliere soddisfazioni davvero incredibili. Quanto ai "dolori", questo
lavoro richiede tanto impegno: il tempo libero non è tanto, ma i sacrifici
vengono ripagati».
Una storica emittente come quella dove lavori può costituire un buon
trampolino di lancio per chi intende intraprendere il nostro mestiere?
«Assolutamente sì. Telelombardia è l'emittente regionale di più grande
successo, qui sono nati giornalisti molto importanti, soprattutto nell'ambito
sportivo. E' un ottimo trampolino di lancio, ma si tratta di un'importante
realtà e, come tale, è da considerarsi anche punto di arrivo. Parlo soprattutto
della redazione sportiva della quale faccio parte: ci sono ottimi giornalisti
che non hanno nulla da invidiare a colleghi di testate nazionali».
Sei al seguito del Milan: l'Andrea tifoso e l'Andrea giornalista come
riescono ad andare a braccetto?
«Sono tifoso del Milan e nel mio lavoro mi occupo principalmente di questa
squadra. Penso di aver trovato la giusta dimensione di imparzialità quando nei
servizi o telegiornali parlo del Milan. Quando ho in mano un microfono e devo
intervistare un protagonista, non vedo i colori rossoneri e cerco di fare le
domande a mio avviso più interessanti. Anzi, in questo senso ho sviluppato forse
un atteggiamento più critico nei confronti di questa squadra, pur conservando
intatta la mia fede calcistica».
Si fa un gran parlare di Ronaldinho: serve davvero ad una squadra che dopo
un grande ciclo ha soprattutto bisogno di rinnovarsi?
«Da amante del calcio vorrei vedere un giocatore come Ronaldinho nella nostra
serie A. D'altro canto penso che al Milan ci siano già giocatori con le sue
caratteristiche, su tutti Kakà, mentre manca una prima punta, forte fisicamente,
che dia garanzie in fase di realizzazione. Pertanto, senza spostarsi da
Barcellona, penso che la dirigenza rossonera debba puntare su Samuel Eto'o.
Sembra proprio che l'obiettivo numero uno sia diventato il camerunese, che in
tempi non sospetti Ancelotti aveva definito come il centravanti più forte in
circolazione. Pato è un ottimo giocatore, ma forse non è ancora all'altezza per
colmare il vuoto lasciato da Shevchenko, soprattutto in termini di reti. In ogni
caso non basta soltanto una punta top class, penso che si debba rinnovare la
squadra in tutti i reparti, con un occhio ai giovani già di proprietà del Milan
che bene han fatto altrove nell'ultima stagione».
L'entusiasmante finale di campionato che ha visto la Roma mancare di un
soffio il sorpasso all'Inter è un buon segnale per uno sport che, dopo
Calciopoli, sembra ancora non voler uscire dal calderone di polemiche e veleni a
distanza?
«Sì, penso che la stagione che si è appena conclusa sia stata un bel messaggio
per tutti, o meglio, debba essere un bel messaggio per tutti. E' stata una
stagione avvincente ed entusiasmante fino all'ultimo, ma anche quest'anno le
polemiche e i veleni non sono mancati. Fanno parte del gioco e forse non
mancheranno mai, ma almeno certi sospetti che hanno macchiato questo sport
sembrano davvero cancellati».
La stagione appena conclusa purtroppo ci ha portato in dotazione altre due
vittime dell'incredibile escalation di violenza che il nostro Paese sta vivendo.
Per il futuro cosa dobbiamo aspettarci?
«Purtroppo quello della violenza è un problema che rovina lo sport più bello
del mondo, è assurdo che ancora oggi si possa perdere la vita per una partita di
calcio. Ci vuole l'impegno di tutte le componenti del calcio e del nostro
Governo, è necessaria una svolta e misure drastiche. Per il futuro mi aspetto
questo, perché il calcio è uno sport e come tale possa tornare a splendere».
Dove vuole arrivare Andrea Longoni?
«Essere arrivati qui è già un bel successo, d'altro canto per natura sono
molto ambizioso e non mi pongo mai dei limiti. Spero di poter crescere sempre
più in questa carriera che è solo all'inizio, di togliermi tante soddisfazioni e
diventare un buon giornalista».
Nella tua scheda di Telelombardia c'è scritto che ami i film con i finali a
sorpresa. E nella vita?
«Sì, mi piace il finale a sorpresa nei film ma anche nella vita, dove la
sorpresa ovviamente si spera sia piacevole e gradita. Il mio motto, come scritto
in quella scheda, è legato al mio film preferito, Forrest Gump, e cioè
che "la vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti
capita". I miei 25 anni di vita mi hanno insegnato questo, che le sorprese sono
dietro l'angolo, vale la pena sognare e non smettere mai perché spesso i sogni
si realizzano, e sono davvero delle belle sorprese». |
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SPORTIVA Velista - ma non per caso
di Silvia
Grassetti
Italia: popolo di santi, navigatori ed
eroi.
Ci cospargiamo il capo di cenere perciò, come
italiani, di fronte a Philippa Wood.
Ma come donne siamo più che
orgogliose dell’impresa di questa
ragazzina neozelandese che ha
attraversato lo stretto di Cook a bordo del suo (beneaugurante)
Optimist.
E di ottimismo, a 14 anni e per
quella impresa, ce ne è voluto parecchio. Philippa detiene da pochi giorni il
primato di aver attraversato la striscia
di mare che divide l’isola settentrionale della Nuova Zelanda da quella
meridionale proprio su quell'Optimist. Ed è diventata famosa in
tutto il mondo.
La traversata è durata cinque ore e mezza.
Lo scorso 20 giugno, all’alba, Philippa ha levato gli ormeggi. Il vento leggero
increspava il mare. Con il passare delle miglia le condizioni meteorologiche
sono diventate più impegnative, e hanno costretto la giovane ad approdare su una
spiaggia diversa da quella stabilita all’inizio.
«Sono un po’ stanca, ora», ha dichiarato al
termine della sua impresa la velista
di Nelson, una cittadina situata nel
nord dell’isola meridionale della Nuova Zelanda. Chissà quante volte Philippa si
era affacciata alla finestra sognando di attraversare lo stretto di Cook
sul suo
Optimist, una imbarcazione talmente
piccola che nessuno prima di lei aveva avuto il coraggio – o l’ottimismo - di
usare.
In effetti, il soprannome di quella barchetta
è “vasca da bagno”: si tratta di una scatola in vetroresina con un albero
che sostiene l’unica vela. In quanto a
maneggevolezza, di certo non la batte
nessuna. Attraversarci lo stretto di Cook è stato un sogno che si realizza.
E noi, quando le donne realizzano i loro
sogni, ci commuoviamo. |
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