Archivio MONITOR Cristiana Barone: diavolo di una giornalista di Giuseppe Bosso Capo servizio di Telecapri, Cristiana Barone è direttore dell’agenzia “New Bigol” che, nel 2007, realizza la trasmissione Spy Investigation, in collaborazione con l’Università Palaparthenope di Napoli. Giornalista professionista dal 2000, Cristiana si è autodefinita “diavolo”. Cristiana, che cos’è il giornalismo investigativo a cui è dedicata Spy investigation? «Una forma di giornalismo, di quelli che non si fanno granché in Italia. Protagonisti sono tutti, potenziali cronisti di strada; Spy investigation nasce dai seminari che svolgo da anni in scuole medie e superiori della Regione Campania. L’anno scorso il progetto ha interessato i laureandi di Lettere e Filosofia, del POLO SUS, quest’anno ho coinvolto anche i ragazzi del carcere di Nisida, che hanno la possibilità di analizzare a fondo la notizia e imparare a leggerla, oltre che ad esserne protagonisti principali. Con la collaborazione dell’Università Parthenope analizziamo, insieme ai ragazzi, otto diversi casi di camorra: il primo omicidio, Annalisa Durante, il prossimo, Carmela Attrice. Indaghiamo su questi delitti con il supporto delle forze di polizia, che hanno messo a disposizione i loro tecnici e investigatori. Una visione diversa da quella, a mio giudizio distorta, che il mondo della comunicazione ha fornito di questi casi. Ogni delitto è analizzato secondo sette diverse prospettive specialistiche: quella del medico legale, del criminologo, della polizia scientifica, della squadra mobile, dell'avvocato penalista, del giornalista e del vigile del fuoco». Com’è fatto un giornalista - investigatore? «E’ curioso e attento. Capisce i limiti oltre i quali non può andare e, quando si trova sulla scena, sa tacere e osservare. E’ una figura latitante a Napoli, un’autentica chimera: ci sono solo i soliti vecchi volti noti dei giornali, ma nelle tv, esclusa Telecapri, questa figura manca». Lei è giornalista per passione o per missione? «Entrambe le cose: credo di avere un buon ascendente su chi mi è accanto perché cerco di capire cosa mi dice la gente, contrariamente ad altri. Prendo a cuore cosa dicono e per questo le istituzioni mi guardano con sospetto. In questo senso viene in gioco quella parte che, più che missionaria, definirei sociale del giornalismo. Credo che la gente abbia tante, troppe cose da dire, ma non sa come farlo. È un tema che sarà presente nel mio prossimo libro: Napoli: vicolo cieco ». L’informazione istituzionale è in crisi, va più forte quella del blog di Beppe Grillo. Come se lo spiega? «Perché l’informazione di oggi è paccottara. Chi la fa tende a vendersi alla politica, che può e riesce, ahimè, a tenere le fila. Mi vanto di non aver mai subito condizionamenti da nessuno, di qualunque schieramento politico. Ho sempre agito con la massima libertà e il tesserino che ho conseguito con tanti sacrifici me lo tengo caro! Non lo venderei al politico di turno. Si può lavorare essendo curatori dell’immagine di qualcuno, politici compresi, invitandoli a considerare che dietro di loro ci sono persone. Che votando hanno chiesto aiuto». Ha suscitato scalpore e commozione la morte della giornalista russa Anna Politkovskaya che non esitava a “fare le pulci” ai potenti. Si può rischiare la vita per amore di un’informazione veritiera? «Per quanto possa sorprenderla, le rispondo di si. Sarebbe stato un sogno per me, a cui ho dovuto però rinunciare per ragioni affettive, quello di fare l’inviata di guerra. Ci vuole molto coraggio perché, ovviamente, i rischi sono sempre dietro l’angolo, e ne so qualcosa anch’io: tempo fa mi incendiarono l’automobile… Ma scelsi di andare avanti. Assumendomi ogni responsabilità». Napoli è una realtà difficile: il mondo della comunicazione può contribuire a risolvere i suoi problemi? «Potrebbe farlo se non fosse costantemente al servizio dei palazzi». Tra tante inchieste e servizi cosa le è rimasto particolarmente impresso? «La morte di Manuel Addeo, avvenuta nel 2002 a seguito di un incidente stradale causato da un sedicenne che guidava senza patente: venne trasportato d’urgenza all'ospedale Santobono di Napoli. Io mi recai a casa dei genitori per raccogliere le loro reazioni: non ne sapevano niente, fui io ad avvisarli dell’incidente. Da allora sono rimasta in contatto con loro e porto sempre con me una foto del bambino». Come mai c’è tanto interesse per i casi di cronaca nera, ultimo dei quali Garlasco? «Soldi, sesso e sangue è una regola non scritta del giornalismo, spietata ma vera. Il pubblico vuole questo. Io mi impegno per fornirglielo sotto una luce diversa. Ad esempio il delitto Durante: analizzando tutte le componenti di entrambe le parti, quella della famiglia della vittima e quella del clan Giugliano, senza prendere posizioni ma cercando di far capire al pubblico il contesto e i risvolti che il delitto ha creato, al di là della vicenda giudiziaria che, come abbiamo visto, è sfociata nella sentenza d’appello». A chi si ispira? «A Carlo Lucarelli anzitutto, sebbene non sia propriamente un giornalista. E’ un grandissimo comunicatore per il suo metodo di scomposizione del crimine». Si è definita diavolo di una Cristiana: diavolo contro chi? «Posso dirlo? Contro i bastardi (ride, ndr). Sono una persona docile ed affidabile. Vera. Molto sincera, finché non mi accorgo che qualcosa non va. Non attacco mai, ma se mi toccano le persone che amo, distruggo. Vendicativa, ecco. Non dimentico mai di restituire un favore». In conclusione, Cristiana Barone è una giornalista a prova di bavaglio? «Se solo lo permettessi, dovrei cambiare mestiere, non sarei più io. Ho chiesto e ottenuto di essere libera, di fare come meglio credevo, e su questo non transigerò mai. Quindi, guai a chi prova a imbavagliarmi, in tutti i sensi!» MONITOR Giovanna Martini: sarò la Piccinini del futuro di Giuseppe Bosso Nata a Milano, Giovanna Martini è giornalista pubblicista dal 2005. Nel 2006 approda a Mediaset: cura la rubrica dedicata alla serie B di Guida al Campionato, collabora a Studio Sport e fa l'inviata per il digitale terrestre, sempre per la serie cadetta. Dal settembre 2006 inizia la sua avventura al Processo di Biscardi, come mediatrice dello studio di Milano. Giovanna, come ti sei avvicinata al mondo del calcio? «Da sempre ho due grandi passioni: il calcio e il tennis. Ho iniziato a frequentare San Siro, anni fa, con un ex fidanzato tifoso interista. Insomma, era una cosa a cui ero destinata, evidentemente». Com'è lavorare con Biscardi, sia pure a distanza? Ti senti un po’ la giovane allieva? «Assolutamente. Per me rappresenta il punto più alto della carriera ed è stato un grande onore essere scelta da Biscardi, due anni fa, per curare il dibattito de Il Processo dalla redazione milanese. Fino a quel momento lo conoscevo solo come spettatrice: entrare in contatto con lui è stata una continua sorpresa. Aldo mi ha aiutato tantissimo con la sua passione per il lavoro giorno dopo giorno, e con la sua capacità di comunicare in modo ironico con la gente da casa». Viceversa, a Diretta stadio, spesso devi fare da “professoressa” in un dibattito acceso tra veri e propri scalmanati. (Ride, ndr) «Sì, a pensarci è una sorta di trasformazione un po’ buffa. Anzitutto per l’entrare a far parte di una redazione fino a quel momento unicamente maschile, e poi, appunto, in questa veste in cui cerco, sempre con molta calma, di riportare il dibattito nei giusti termini quando qualcuno tende ad alzare la voce…». Celeberrime sono le diatribe tra Corno e Crudeli. Ma non pensi che il pubblico che li segue possa chiedersi se sta guardando una trasmissione sportiva o un programma di intrattenimento? «Il calcio è qualcosa che, per fortuna, non è sempre e solo tattica o schemi. È una passione che da sempre unisce la gente, permette di staccare la spina dai problemi quotidiani e ogni tanto è bene farlo in modo da far scappare un sorriso agli spettatori. Elio e Tiziano in questo sono interpreti strepitosi». Appartieni ad una generazione di giovani giornaliste sportive in continua crescita, che negli ultimi anni paiono prendere a modello due protagoniste come Ilaria D’Amico e Paola Ferrari. Cosa ammiri in loro? «In Paola la classe e lo stile; poche, come lei, sono riuscite ad avvicinarsi ad un ambiente maschile facendosi rispettare e ammirare. Ilaria la ammiro per la sua resistenza, per il modo con cui riesce a stare davanti alle telecamere in diretta continua mantenendo una grande lucidità». Questo campionato sarà davvero, come Lippi ha recitato in un recente spot, l’annata migliore? «Sì, è un campionato aperto in cui abbiamo potuto riabbracciare due piazze come Genoa e Napoli, dopo tanti anni. Credo che anche la stessa Juve e i suoi tifosi, dopo l’anno di purgatorio, abbiano ritrovato quella fame e quegli stimoli che avevano perso dando molte cose per scontate. Calciopoli è stato un bene da questo punto di vista». Diretta stadio, contrariamente a molte altre trasmissioni, si è spesso occupata dell’interesse del Real Madrid per Kakà. Non è che vi farebbe piacere se lasciasse il Milan? «Me lo dicono molti tifosi rossoneri che incontro spesso. Comunque no, assolutamente: non penso che il Milan voglia farsi scappare il suo fuoriclasse». Sei molto seguita tra i nostri lettori: quali sono stati gli apprezzamenti che ti hanno fatto più piacere? «Quelli delle donne, che dopo molti anni ormai mi guardano come a un’amica che entra nelle loro case: non è facile essere guardate con simpatia dal pubblico femminile. Dagli uomini, invece, mi piace che apprezzino i miei interventi e le domande che faccio agli ospiti, quando vengono colte sfumature non sempre individuabili». Molto seguita è anche la presenza di Viviana Guglielmi e delle altre ragazze alla postazione email di Diretta stadio; ma non rispecchiano quell’idea superata della bella e silenziosa? «Io ricopro il mio ruolo e loro anche. Ma la loro presenza non è certo limitata a fare bella mostra in studio: partecipano attivamente, sia presentando gli ospiti che leggendo le email degli spettatori». Dove vuole arrivare Giovanna Martini? «Spero di fare sempre questo lavoro e di arrivare il più in alto possibile. A tal proposito ci tengo a ringraziare Mediaset per la possibilità che mi ha dato, l’estate scorsa, di lavorare come inviata sui campi in sostituzione di altre colleghe. Collaborazione che continuo quest’anno per la serie B. Proprio a Mediaset c’è quello che considero il mio modello, Sandro Piccinini, per come conduce con polso Controcampo. Ecco, magari non proprio ai suoi livelli, ma mi piacerebbe essere come lui». CRONACA IN ROSA Professione reporter di pace di Erica Savazzi Raccontare la guerra e la pace con le loro sfumature, in tutti i cinque continenti, con corrispondenti in loco, testimoni diretti di quello che raccontano. E' da quattro anni - da quel 2003 che vide l’inizio dell’infinita guerra in Iraq – l’esperimento di Peace Reporter. Nata dalla collaborazione tra Emergency e l’agenzia Misna, il sito web e agenzia giornalistica da settembre è anche rivista mensile: undici numeri all’anno per raccontare il mondo, e soprattutto quella parte di globo che nei tg e nei quotidiani non trova spazio. Storie di guerre e violenze, ma anche di gente comune che non farebbe mai notizia. Storie di scelte di pace, per raccontare anche chi contro la guerra lotta, dall’Europa all’Africa, dall’America all’Asia. Anche grazie a collaboratori d’eccezione come Gino Strada, che risponde alla posta dei lettori, e Claudio Sabelli Fioretti. «Peace Reporter esce dal mondo di internet e si cimenta con la difficile sfida della carta stampata, e in un momento in cui – come tanti settori dell’economia italiana – questa è in crisi. Una doppia sfida dunque, che pensiamo necessaria. Perché mai come oggi il mondo è travagliato da conflitti terribili e da altrettanto terribili violazioni dei diritti più elementari», scrive il direttore Maso Notarianni nel numero pilota della rivista. Allora in bocca al lupo a Peace Reporter e ai suoi corrispondenti. E buon lavoro, perché «conoscere il mondo, capirne le sue sofferenze ma anche le tante cose splendide che troppo spesso non si raccontano è sempre più indispensabile». Per comprendere che un mondo senza conflitti è possibile. FORMAT Sette vite per una sitcom di Nicola Pistoia Davide, Carlotta, Sole, Leo, Franco, Laura e Giovanna. Sette personaggi in cerca d’autore, ci viene da dire, modificando il titolo di una celebre opera teatrale di Pirandello. Sette personaggi che cercano se stessi attraverso il sostegno degli altri. Sette vite che s’incontrano e si scontrano. Sette diversi modi di fare, di pensare e di agire. 7 Vite è il titolo, appunto, della nuova situation comedy targata Rai2 e prodotta dalla Publispei di Bixio (già produttore dei Cesaroni). La storia. Davide esce dal coma dopo 15 anni. Al suo risveglio si ritrova circondato da tante persone che vogliono aiutarlo. Innanzitutto la sorella Carlotta, con la quale ha un ottimo rapporto. E poi la cugina un po’ snob Laura, i vicini di casa Leo e Sole, rispettivamente figlio e madre in perenne contrasto, Franco, il barista depresso e Giovanna la psicologa, a cui Davide confida paure e insicurezze. Il redivivo Davide, però, si accorge che non è cambiato molto rispetto a 15 anni prima, e inizia la sua riabilitazione confrontandosi con gli altri protagonisti. Nella serie ritroviamo alcuni volti già noti ai telespettatori. Elena Barolo, velina di Striscia la notizia, che interpreta il ruolo della cugina milanese. Carlotta alias Michela Andreozzi, poliziotta nella fiction La Squadra. Ancora Lucia Ocone, meravigliosa imitatrice e comica di Quelli che il calcio, che veste i panni della psicologa, e per finire Max Pisu e Marzia Ubaldi, una delle doppiatrici italiane più brave in assoluto. Come nei prodotti made in Usa, tantissime le guest star che si alterneranno nel corso dei 50 episodi. Tra queste Maria Amelia Monti, Monica Scattini e Amanda Lear. Inoltre, una delle novità di 7 vite rispetto alle tantissime sitcom italiane, è la presenza del pubblico che fa da contorno alle vicende dei protagonisti. 7 Vite è un un prodotto simpatico e talvolta originale. Rispecchia, attraverso una storia non banale, i problemi e le ansie della gente comune. Apprezzabile la scelta di personaggi giovani e freschi. La sitcom è in onda ogni giorno su Rai2, dallo scorso 20 settembre. CULT Yoko Ono, artista concettuale ed ex signora Beatles di Valeria Scotti Non solo vedova Lennon. Yoko Ono era già una celebrità nel mondo dell'arte, quando nacque la sua relazione con il beatlesiano John. Galeotta fu proprio una mostra di lei, a Londra. Tra i primi membri di Fluxus, un'associazione libera di artisti d'avanguardia degli Anni 60, Yoko Ono è stata spesso protagonista di numerose performance artistiche e provocatorie. Tra le più recenti, My Mummy Was Beautiful, alla Biennale di Liverpool del 2004. L’artista giapponese dedicò l’opera - che riproduceva le immagini del seno e della vagina di una donna - alla madre di John Lennon, Julia, prematuramente scomparsa. Una nuova versione del lavoro è in programma a Treviso, dove il Museo Civico di Santa Caterina omaggerà l’artista settantaquattrenne: l’Associazione Culturale Lazzari, il Comune di Treviso e l’Archivio Bonotto di Bassano del Grappa promuovono infatti Sognare, esposizione di 15 opere, dal 29 settembre 2007 al 7 gennaio 2008. Yoko Ono inviterà gli spettatori a portare una fotografia della propria madre. Play It By Trust, l'opera più imponente. La scultura - scacchiera verrà esposta in piazzetta Botter. Pedine a grandezza naturale e marmo chiaro per caselle rigorosamente bianche, a simboleggiare il richiamo al dialogo, all’interazione e alla pace nel mondo. Un messaggio che la Ono manifestò anche ai tempi della guerra in Vietman e che la contrappose all’allora Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Yoko giungerà a Treviso un paio di giorni prima dell'inaugurazione per occuparsi personalmente degli ultimi ritocchi. Al via l'esposizione, la sera del 29, con la performance Blue room event, nel corso della quale l’artista cercherà, attraverso scritte sui muri, di trasmettere al pubblico l’impressione che la stanza si tinga completamente di blu. In attesa di quella data, Treviso è stata tappezzata da centinaia di manifesti dove spicca unicamente il titolo della mostra. Lo stesso metodo utilizzato dai coniugi Lennon negli Anni 70 quando, su cartelloni pubblicitari, scrissero War is over if you want it. La guerra è finita se lo vuoi. Ora è il momento di Sognare. DONNE Maria Teresa di Calcutta di Pinuccia Carbone Battezzata col nome di Agnes Gonxha, conosciuta e amata come Madre Teresa: nasce nel 1910 a Skopje, città dei Balcani, da una famiglia agiata di origine albanese, ma sceglie una vita povera tra i poveri. La più piccola di cinque figli, riceve la Prima Comunione a soli cinque anni e mezzo, e qualche mese più tardi la Santa Cresima. Dopo la morte del padre, avvenuta quando aveva otto anni, si nota sempre di più la vocazione religiosa di Agnes, rafforzata dalla parrocchia gesuita del Sacro Cuore, che frequentava. A soli 18 anni, recandosi al santuario della Madonna di Letnice, sul Monte Nero, sente "la chiamata di Dio". Si rivolge alle Suore di Loreto e va novizia in Irlanda, dove riceve il nome di Mary Teresa. Qualche mese più tardi arriva in India, a Calcutta. A 28 anni si fa suora e diventa per tutti Maria Teresa. Nel 1946 lascia le Suore di Loreto e incomincia una nuova vita. Durante un viaggio in treno, riceve la "chiamata nella chiamata", sente il bisogno di servire Dio attraverso l'amore donato ai poveri. Era il 1948 quando Madre Teresa indossava per la prima volta il sari bianco bordato di azzurro. Due anni più tardi, fonda a Calcutta l'ordine religioso delle Missionarie della Carità, con la missione di prendersi cura degli "ultimi". Nel 1951 diventa cittadina indiana. Negli anni successivi Teresa fonda altri ordini religiosi, sparsi in tutto il mondo, tra i quali i Fratelli Missionari della Carità e il Movimento Corpus Christi per Sacerdoti. Nel 1971 Paolo VI consegna a Madre Teresa 15 milioni di lire del premio della pace intitolato a Giovanni XXIII, per la prima volta assegnato ad una donna. Tutti i premi che riceverà saranno convertiti in denaro per sostenere le sue opere a favore degli "ultimi". Nel 1979 giunge il Nobel per la pace: Teresa rinuncia al convenzionale banchetto cerimoniale e chiede che i seimila dollari di fondi vengano destinati ai poveri di Calcutta. Nel 1973 la premier Indira Gandhi le concede di viaggiare in aereo gratuitamente. Nel marzo del 1997 Madre Teresa lascia la guida dell'ordine da lei fondato e il 5 settembre dello stesso anno muore. Aveva 87 anni. Le vengono concessi i funerali di Stato, alla presenza di un milione di persone, oltre alle autorità di tutto il mondo. Nell'ottobre del 2003, Giovanni Paolo II la proclama Beata. Oggi, le Suore di Madre Teresa sono quasi cinquemila, presenti nelle oltre 700 case di missione aperte in tutto il mondo. TELEGIORNALISTI Romita: non sono un morto di fama di Silvia Grassetti «Chi ha titolato: Romita, la mia vita per un po' di mondanità cercava di farmi passare per uno di quei "morti di fama" di cui parlavo nell'intervista a Nicola Pistoia». Il popolare mezzobusto del Tg1, Attilio Romita, non ce l'ha fatta passare liscia. Attilio, allora abbiamo preso un granchio: non è vero che daresti la vita per un po' di mondanità, eppure la vita mondana ti affascina: dove abbiamo sbagliato? «Dare la vita per un po' di mondanità credo sia una scelta da imbecille. Io non lo sono. Alla domanda sulla mia presenza a numerosi eventi mondani ho risposto che quando la mondanità è fatta di tavole ben apparecchiate, vini eccellenti, buona musica e belle donne, allora mi piace. Non mi piace quella popolata dai soliti "morti di fama" che farebbero qualsiasi cosa pur di apparire». Non per la mondanità, dunque, ma allora per cosa daresti la vita? «Darei la mia vita per vedere felici le persone che mi stanno vicine, a cominciare da mia figlia Alessia. Per avere successo nella mia professione, mi limito a liberare tutte le mie energie fisiche ed intellettuali». Chiarito il qui pro quo, approfittiamo della disponibilità del tgista per rivolgergli alcune domande sull'associazione Li.Sta, di cui è fondatore. In un intervento sull'Unità, il 23 febbraio del 2005, Travaglio criticava l'associazione Libera Stampa, fondata, citiamo testualmente, «dai vicemimun Alberto Maccari e Francesco Pionati, dal caporedattore politico del Tg1 Cesare Pucci, dai conduttori del Tg1 Attilio Romita e Susanna Petruni, nonché dai redattori politici Ida Peritore e Angelo Polimeno, e dall'inviato del Tg2 Emilio Albertario. La sigla dell'indomito pool, che ha sede nell'ufficio di Pionati, è tutta un programma: Li.Sta. E così la cerimonia di battesimo, in un noto ristorante romano, alla presenza del ministro Gasparri. In effetti i maligni assicurano che i Magnifici Otto sono tutti berlusconiani devoti». Attilio, come rispondi a questa critica? «Travaglio scrisse alcune inesattezze. Tra queste i nomi di Susanna Petruni e Ida Peritore tra i fondatori di Libera Stampa. E inoltre: i fondatori, secondo Travaglio, erano talmente devoti berlusconiani che il loro numero uno, Francesco Pionati, è stato eletto senatore dell'Udc!». Li.Sta è un progetto ancora attivo, e quali iniziative promuove? «Non so nulla di Li.Sta da molti mesi. Come già detto, il suo principale ispiratore, Pionati, fa il senatore. E quindi immagino che l'associazione di giornalisti sia stata sciolta. Ma potrei sbagliarmi». SPORTIVA Se lo sponsor invade la religione di Pierpaolo Di Paolo Il 2 settembre si sono conclusi i Campionati Mondiali di atletica leggera a Osaka. Lei non c'era. Ruqaya al Ghasara è passata alla storia non solo per le sue straordinarie capacità sportive, che l'hanno portata a vincere a soli 24 anni l'oro nei 200 metri di corsa agli Asian Games del 2006; ma anche e soprattutto per l'inconsueto "costume" indossato. Si dirà che non è certo la prima atleta che indossa il velo - o, per maggiore precisione, l'hijab - e che le cronache sportive sono piene di esempi di intromissione più o meno evidente di simboli e sentimenti religiosi, anche musulmani. Ma se può aver fatto sorridere l'episodio di Taribo West - che all'Inter disse a Marcello Lippi: «Dio mi ha detto che giocherò», ricevendo in risposta un secco: «Strano, a me non ha detto niente», poco invece avran riso le autorità del Bahrain di fronte a quel piccolo baffetto nero sul velo di Ruqaya, che ha marchiato l'hijab catapultando la giovane sportiva all'attenzione mondiale più di quanto non abbiano potuto le sue imprese in pista. Già di per sé l'accostamento tra uno sponsor e un simbolo religioso può destare prevedibili reazioni di sdegno e scandalo, ma di certo alla nostra corritrice poco ha giovato il fatto di aver scelto proprio uno dei simboli di quell'imperialismo americano tanto odiato negli ambienti più intolleranti del mondo musulmano. In un connubio perverso tra sport e religione, che avrà solleticato fastidiosamente anche i musulmani più tolleranti, Ruqaya al Ghasara, come un'eroina che ha appena indossato il suo costume ed è pronta per le imprese più incredibili, corre con un hijab griffato Nike. Ingenuità, superficialità, forse venialità ed irriverenza verso la religione, che rischiano di costar caro a Ruqaya: il Bahrain già sembra poter fare a meno della migliore atleta della sua storia. E pensare che neanche due settimane fa, proprio sulle pagine di Sportiva, avevamo parlato dell'impresa di Fatima Mohammadi: la centometrista afgana che aveva avuto il placet dalla sua federazione per partecipare ai mondiali di Osaka. A patto che gareggiasse col velo. Non griffato, naturalmente. |
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