Archivio MONITOR Maria Rosaria De Medici, tg per grandi e per piccini di Giuseppe Bosso Questa settimana incontriamo Maria Rosaria De Medici: nata a Napoli il 3 aprile del 1966, è iscritta all'Albo dei giornalisti professionisti dal 1997. Conduce il Tg3 e, dal 2004, il GT Ragazzi, sempre su Rai3. Maria Rosaria, quali differenze ha riscontrato tra la conduzione del Tg3 e quella di GT Ragazzi? «E’ diverso l’approccio con i telespettatori. I bambini hanno bisogno di un linguaggio semplice e diretto. Anche se le notizie vanno spiegate a tutti senza dare mai nulla per scontato, i più piccoli hanno maggiori esigenze di chiarezza». E' difficile porsi in modo adeguato verso un pubblico tanto giovane? «Cerco di usare parole essenziali e chiare. Quando ho avuto i bambini in studio con me, in diretta, è stato molto interessante e divertente suscitare i loro interventi sui temi di attualità, con qualche domanda sulle loro esperienze». Trattare argomenti anche dolorosi ma di attualità con i bambini è una necessità per mostrare loro anche gli aspetti negativi del mondo? «Su questo gli autori del telegiornale per ragazzi si sono interrogati, e hanno consultato studiosi, esperti del mondo dell’infanzia. Le notizie sulla guerra e sui fatti di cronaca vengono date con grande cautela, quelle troppo cruente che coinvolgono bambini vengono tralasciate». Lei è una delle tgiste più amate e seguite dai nostri lettori, come dimostrano le tantissime immagini e i messaggi su di lei: vuole lasciare un messaggio ai suoi fan? «Mi fa piacere e voglio approfittare di quest’intervista per ringraziare tutti voi, di cuore». Ha scritto Il lavoro del conduttore, prima opera dedicata al linguaggio telegiornalistico: come si è evoluto nel tempo? «Negli anni ’50, il telegiornale appena nato aveva un linguaggio molto simile a quello dei cinegiornali, rotocalchi di notizie, illustrate con filmati realizzati su pellicola cinematografica. La voce fuori campo del conduttore, un annunciatore, leggeva le notizie con tono formale e distaccato, mentre scorrevano sui teleschermi le immagini mute. Nel tempo, con la riforma della Rai a metà degli anni ‘70 e con la nascita delle tv commerciali più avanti, il telegiornale si è dovuto adeguare: intanto le tecniche di ripresa e di montaggio erano diventate più agili e permettevano di realizzare in meno tempo i servizi del tg. La conduzione è diventata meno formale, e tanti conduttori hanno personalizzato il proprio stile. Oggi, con il successo delle reti all news e dei siti internet, il tg deve raccogliere la sfida dell’informazione del futuro. Il linguaggio dei notiziari si modifica di giorno in giorno, con l’interazione tra spettatori e giornalisti, sui siti internet dei vari telegiornali, e con l’uso e la trasmissione di immagini girate su supporti digitali, come i telefonini. Tutti siamo chiamati ad aggiornare la nostra professione». Qual è lo spirito con cui i mass media devono portare a conoscenza del cittadino le notizie di nera, ma anche quelle politiche? «Lo spirito di verità, credo. Si cerca di verificare tutto, e di non enfatizzare inutilmente gli aspetti cruenti delle notizie di cronaca nera, di non indugiare su particolari morbosi che non aggiungono nulla alla comprensione dei fatti, ma solleticano la curiosità dell’audience. Difficilmente le notizie sono positive, altrimenti non sarebbero notizie. Vanno valutate con cautela e affidate al buon senso del pubblico, cercando di fornire il maggior numero possibile di elementi perché ciascuno si faccia una propria idea». C’è un servizio o un’intervista a cui è particolarmente legata e, se sì, perché? «C’è un documentario girato a Napoli e trasmesso su Rai3 il 14 settembre 2006. Si intitola Ferropoli e racconta la storia di due anziani ex dipendenti dell’Italsider di Bagnoli, che sognano di rimettere insieme la vecchia compagnia teatrale amatoriale del dopolavoro della fabbrica, ormai dimessa da anni. Ferropoli è stato un viaggio nel cuore di un mondo ormai perduto, e un confronto con le difficoltà della Napoli di oggi, un’avventura che mi lega per sempre alle persone straordinarie che mi hanno permesso di realizzarla, lavorando insieme con gioia e passione». Chi è lo spettatore medio del Tg3? «Non mi intendo di ricerche di questo tipo, credo che ci siano anche tanti telespettatori “di contatto”, quelli che cambiano canale e poi si fermano se trovano qualcosa di interessante». Per concludere, ritiene che siano maturi i tempi per vedere, nel nostro Paese, una donna dirigere un tg nazionale? «Nella storia del Tg3 ci sono già state alcune donne al vertice del giornale. In ogni caso credo che nel difficile compito di governare una struttura complessa come il tg contino la dedizione e la creatività, il coraggio e la voglia di innovare, l’onestà umana e intellettuale. Queste caratteristiche non dipendono dal sesso. Un buon direttore motiva la sua squadra e la porta al successo». MONITOR Alda Angrisani: non amo stare davanti alla telecamera di Erica Savazzi «Non amo stare davanti alla telecamera e credo si percepisca, poi ognuno lo esprime con i propri mezzi, e le opinioni vanno rispettate. Gli insulti, invece, spesso sono frutto della non conoscenza dei fatti, ma a questo si potrebbe porre rimedio solo informandosi prima di sputare sentenze». Alda Angrisani - giornalista di Raisport - risponde così a chi, su alcuni forum, critica il suo operato. «Comunque sia, con l’esperienza del tuo sito, mi insegni che i contenuti (non quelli del reggiseno) a volte non sono al primo posto. Scherzi a parte, non si può piacere a tutti: io sono certa di fare il mio lavoro onestamente e le critiche fanno parte del gioco, quindi vanno accettate e servono anche per migliorarsi». Impegnatissima tra programmi del week end (La domenica sportiva, Sabato Sprint), pagine sportive dei telegiornali e servizi dagli stadi, Alda trova comunque il tempo di rispondere alle domande di Telegiornaliste. Con simpatia e professionalità. E’ cominciato il campionato di calcio: mi fai un pronostico sulla stagione e sul vincitore? «Comincio subito dicendoti che la mia dote principale non è la diplomazia, ma sto cercando di migliorare, spero di non fare troppi danni. Veniamo al campionato. Ogni anno si ripropone il toto-vincitore: non ci ho mai azzeccato! Però questo è un campionato speciale per me perché il Napoli è tornato in serie A e ovviamente spero non faccia soffrire i tifosi fino all’ultima giornata. Per lo scudetto, come al solito, se la giocano Milan, Roma, Inter e forse Lazio e Fiorentina». Per il tuo lavoro hai incontrato molti sportivi: quali sono quelli che ti hanno colpito di più? Sei anche amica di Ronaldo... «Parlo prevalentemente di calcio perché sarebbe davvero troppo lungo raccontare tutto. E faccio una piccola premessa: adoro i brasiliani e il loro modo di vivere il calcio. Le esperienze in ritiro con la nazionale mi hanno regalato momenti esilaranti: anche coloro che sembrano inavvicinabili in realtà sono ragazzi normali e pieni di vita. Si divertono, ti coinvolgono. Cafù è una forza. Mi chiedevi di Ronaldo: sono stata fortunata perché fino a qualche anno fa era ancora possibile instaurare un dialogo con i protagonisti del pallone. Nutro per Ronaldo un affetto sincero, perché sa essere leale e riconoscente, anche nel tempo. Un amico prezioso è Clarence Seedorf: è una persona serena, positiva, ha cervello e lo usa. La chiave, comunque, è ascoltare senza parlare troppo. Poi ci sono anche giocatori con i quali si fanno commenti via sms, si scherza anche con alcuni allenatori e dirigenti ma è sempre più raro avere contatti umani. Ci vorrebbe un capitolo a parte per Giacinto Facchetti: quando sono arrivata a Milano, un po’ "sfigata", è stato uno dei pochissimi a non discriminarmi, mi ha voluto bene e la stima e l’affetto sono cresciuti negli anni. Poi ho conosciuto la sua famiglia e ho capito che sono tutti speciali. Ci sono anche persone che mi colpiscono ogni giorno per "pochezza" umana ma non meritano citazioni». Il campionato è iniziato con una partita (Genoa-Milan) vietata ai tifosi milanisti per paura di disordini. Secondo te queste misure sono efficaci o sono una rinuncia della “legge” a imporsi su chi non rispetta le regole? «Sport e violenza sono agli antipodi, in teoria. Ogni tanto facciamo finta di indignarci e, se ci scappa il morto, fermiamo i giochi per poi riprendere in fretta e furia altrimenti si perdono soldi. E’ un meccanismo malato al quale, temo, si rischi l’assuefazione, a meno che non si voglia davvero eliminare il problema a monte. Ma tutti dovrebbero fare troppi passi indietro e nessuno è disposto. La legge esiste, peccato che non la si faccia rispettare: è ridicolo voler importare i modelli stranieri se prima non siamo educati e pronti». Come funziona il lavoro in una redazione grande come quella di Raisport? «Si può chiedere la domanda di riserva? Ok, giro la ruota e compro una vocale. Come dici tu stessa, è una redazione grande e romanocentrica: a Milano, siamo in pochi, si lavora tanto, con fatica, con passione, con qualche vaffa... Ma alla fine facciamo il mestiere che ci piace e che abbiamo scelto e questa è già una gran fortuna». Oltre a lavorare alla Domenica sportiva ora ti occupi anche del coordinamento giornalistico di Sabato Sprint. «Essendo in pochi, facciamo un pò di tutto: una settimana al mese ruotiamo sulla conduzione della pagina sportiva del Tg3, edizione nazionale delle 12.00; quotidianamente seguo l’attualità per i nostri notiziari, cerco di mantenere i contatti con i protagonisti delle varie società, e la novità è che da questo campionato mi hanno arruolata per la realizzazione di Sabato Sprint: in settimana, con il collega Enrico Testa, cerchiamo di tramutare le idee in fatti e poi, durante la trasmissione, sono in regia collegata con il conduttore, Enrico Variale (detta così sembriamo un po’ Ambra e Boncompagni ma non è così, lo giuro!). Infine, la domenica mi inviano sui campi per il servizio della Domenica Sportiva». Un sondaggio Demos per Repubblica mostra come i tifosi di calcio siano la metà della popolazione italiana e che, nonostante l’88% degli intervistati pensi che il calcio sia poco credibile, è in aumento il tifo contro alcune squadre, in particolare contro l’Inter. Dopo Calciopoli secondo te c’è davvero stata una polarizzazione delle passioni dei tifosi? «Credo che Calciopoli abbia avuto il merito di togliere il coperchio al pentolone ma non di averlo svuotato da tutto il marcio che c’era (almeno, non ancora). I tifosi sono umorali, sono tifosi, appunto, e si lasciano condizionare dai risultati della loro squadra. L’Inter era simpatica perché aveva un presidente che spendeva tanti soldi, non vinceva mai e tutti potevano sparargli contro: ora ha vinto, non si può sfottere, e non piace più. E’ come a scuola: il compagno grassoccio e brufoloso un giorno cresce, diventa alto e magro, piace alle ragazze. Così se prima era l’amico di tutti perché su di lui si potevano scaricare sfottò e frustrazioni, d’improvviso diventa antipatico. E’ la natura umana, credo». Qual è il tuo sport preferito? Sei una sportiva? «Sono stata una sportiva praticante fino a 18 anni ma dopo, tra lavoro e studio, basta. Ho ceduto alla pigrizia, ahimè, e si vede! Comunque, sono sempre andata allo stadio, sin da bambina, e direi che il calcio è la costante della mia vita. Però amo la danza: ho studiato sette anni danza classica, ma ho anche gareggiato nella ginnastica ritmica a squadre e ho giocato a pallavolo per cinque anni... Da "adulta" riesco a mala pena a coltivare una piccola passione...». CRONACA IN ROSA E le pagine restano bianche di Erica Savazzi «Bisognerà non smettere di credere che le parole possano dare un contributo, anche se piccolo, ma qualche volta grandissimo, nel cambiare le stupide cose che ci stanno intorno». Un auspicio per il futuro, un augurio, la speranza di non perdere quello in cui si è creduto e per cui si è lavorato. Parole che hanno in sé una dichiarazione d’amore per il giornalismo e la fiducia nella capacità della parola scritta di descrivere il mondo in cui viviamo per contribuire a cambiarlo, migliorandolo. In poche parole una lezione di giornalismo, e in particolare del giornalismo che caratterizzava Il Diario della settimana, per amici, lettori ed estimatori, semplicemente Diario. Caratterizzava, perché il settimanale che per undici anni ha occupato un posto nelle edicole, prima come allegato all’Unità, poi come creatura autonoma, ha cessato di esistere, l’ultimo numero in edicola il 7 settembre. Le motivazioni della chiusura sono illustrate lucidamente nell’editoriale d’addio del direttore, Marco Deaglio: poca raccolta pubblicitaria e forte concorrenza da parte degli altri media, soprattutto internet. Si chiude, ma con orgoglio, con la consapevolezza di non aver mancato al patto con i lettori, patto che prevedeva il raccontare fatti e situazioni lontani che nell’informazione “Italocentrica” non trovavano posto, patto che prevedeva di parlare di argomenti scottanti e scomodi (uno per tutti lo scandalo che aveva suscitato il dvd allegato al giornale Uccidete la democrazia, poi finito con il parziale riconteggio delle schede e la dichiarazione della regolarità del voto), patto che prevedeva di rispettare i propri principi, tra cui l’impossibilità di scendere a compromessi. «Il settimanale, intellettuale per scelta, si è costruito su un'idea fondamentale: fare quello che gli altri non fanno. Quindi, niente televisione e niente foootball. Al contrario, la cultura si estende su una trentina di pagine, percorrono il giornale recensioni, racconti, impressioni di scrittori, la politica internazionale occupa una porzione impressionante. Il tutto servito da una veste grafica elegante, discreta, che lascia spazio ai testi molto lunghi.(...) La testata più interessante, più originale tra le recenti pubblicazioni italiane. C'è molto da leggere, è molto ben scritto e molto letterario. Il solo giornale in cui il piacere non consista tanto nello sfogliare la carta patinata, ma nel soffermarsi sugli articoli». Così veniva descritto Diario nella motivazione che gli è valsa la conquista del prestigioso Prix de Le Guide de la Presse 2002, come migliore giornale al mondo per impegno, qualità e indipendenza. Mette malinconia, questa chiusura. Diario muore e in compenso nascono giornali patinati che trattano di moda, lifestyle, arredamento, viaggi. E l’offerta in edicola si fa sempre più desolante, con settimanali e mensili tutti uguali, che trattano gli stessi argomenti nello stesso modo, a volte perfino con le stesse parole. Deaglio chiude il suo articolo lasciando una speranza: un nuovo giornale, in forma completamente nuova, il più presto possibile. Peccato però che sembri quasi non crederci nemmeno lui. FORMAT La carica del mondo lesbo di Nicola Pistoia In un panorama così vasto di telefilm americani, che hanno quasi monopolizzato la tv italiana, ce n'è uno che sta suscitando scalpore ma anche ottime critiche. Ai lettori che si stanno chiedendo cosa ci sia che susciti ancora scandalo o scalpore, rispondiamo: The L Word, da quest’anno in onda ogni giovedì alle 21.00 sul canale satellitare Jimmy. All'apparenza, niente di diverso rispetto ai telefilm che siamo abituati a vedere: Los Angeles fa da sfondo, con le sue ville super lussuose, i soldi a non finire e gli amori impossibili fra i protagonisti. La novità sta proprio nelle protagoniste: belle ragazze, dagli abiti firmati, dal lavoro prestigioso, e lesbiche. In America il serial ha suscitato ammirazione e una critica brillante, grazie anche all’interpretazione di tutte le attrici, tra cui Jennifer Beals, ex ragazzina del sempre vivo Flashdance, che impersona il ruolo della direttrice del California Arts Center, intorno al quale ruotano gran parte degli episodi. All’arrivo in Italia, l’anno scorso, il telefilm è stato subito piazzato in terza serata da La7. L’Osservatorio sui minori aveva vietato di trasmettere il telefilm in orari cosiddetti “di fascia protetta”. Le scene di sesso tra donne ci sono, anche se rare. Interessante, piacevole e talvolta anche simpatico, The L Word affronta temi comuni e tocca argomenti di particolare importanza come la discriminazione, l'inseminazione artificiale e la difficoltà nell’accettare una "diversità" sempre più presente. Abbondano, forse, le parolacce. Promuoviamo il telefilm con un bel 7 perché riesce ad affrontare il tema dell’omosessualità femminile in modo dignitoso, senza eccessivi pietismi. Per chi ne volesse sapere di più è nato, già da diverso tempo, un sito italiano tutto dedicato al serial: Lword.it. CULT Gelardi, il "suo" Gomorra a teatro di Valeria Scotti Mario Gelardi, autore e regista teatrale, porta in scena da anni un teatro civile costruito su temi difficili. Storie che - prima di lui - nessuno ha avuto il coraggio di affrontare. E Napoli, la sua città, fa da sfondo. Vincitore di numerosi premi, Gelardi è il direttore artistico della rassegna di teatro Presente Indicativo. Tra poco più di mese, una nuova prova. Arriverà infatti sulle scene Gomorra, l’adattamento teatrale del romanzo di Roberto Saviano. Le sue mani, insieme a quelle di un giovane autore, a lavoro su un'opera coraggiosa. Gomorra debutterà il prossimo 29 ottobre al Teatro Mercadante di Napoli. Come attende quel giorno? «Più di un artista, più di un regista, più di un attore hanno cercato di convincere Roberto Saviano a portare in scena il testo. Alla fine la scelta è caduta su di me. E' quindi molto forte il senso di responsabilità nel riuscire a restituire il lavoro di Roberto in maniera efficace. E' una sfida che ho raccolto insieme alla produzione e a tutti gli attori. Io, Roberto ed Ivan Castiglione (attore, ndr) stiamo lavorando ormai da più di un anno a questo progetto. Ho la fortuna di avere un’equipe artistica scelta con sapienza e con un grande senso di responsabilità. Il Teatro Mercadante ha deciso di rischiare insieme a noi credendo in me, in Ivan, in Giuseppe Miale di Mauro (attore e autore teatrale, ndr) e nei collaboratori che ho scelto». Come è stato farsi accompagnare da Saviano, lavorativamente parlando, in questo percorso dai risvolti talvolta crudi e sconvolgenti? «E' un percorso che dobbiamo dividere in due parti. La prima coincide con l'inizio del lavoro mio e di Roberto sulle bozze, prima che uscisse il libro. Roberto è stato una specie di Virgilio per me. Mi ha condotto e mi ha aperto gli occhi su cose che io, come tanti, forse non riuscivo a vedere. Ma quando la sua situazione personale è diventata talmente importante, ha influito ovviamente sul nostro lavoro e sul nostro rapporto. Se prima c'era una grande libertà di vedersi, ogni incontro doveva poi passare attraverso una scorta, un magistrato. In questo caso il romanzo è diventato vita. Con il tempo ci siamo quasi abituati a convivere con questo senso di precarietà continua». Il libro di Saviano ha messo sotto i riflettori l'intero sistema della camorra, andando a scavare nelle storie e nei traffici di famiglie un tempo ignorate. Il pubblico ministero che si occupa dei processi più importanti contro la camorra casertana, Raffaele Cantone, continua le sue indagini. Saviano vive da recluso e sottoscorta. E la giustizia è sola. Qual è la sua opinione in proposito? «Credo che ognuno di noi debba fare il proprio dovere nell'ambito del lavoro che fa. Io faccio teatro e voglio fare teatro. Roberto voleva fare lo scrittore. Sono stati la vita ed alcuni avvenimenti a condurlo su un’altra strada. Spero non accada a me. Non credo quindi che la giustizia sia sola ma che la figura del magistrato sia talmente delicata da ritrovarsi sola comunque. Il magistrato è solo davanti alla sua coscienza. Come lo siamo tutti noi». E' sempre più tangibile la solidarietà verso Saviano, un uomo che ha scelto di denunciare in cambio della propria libertà. Altri hanno pagato con la vita, inseguendo il desiderio di cambiare ciò che non era giusto. Lei crede in un possibile cambiamento del Sud? «Credo non si possa parlare di un unico Sud. Ogni regione ha una realtà diversa dall'altra. Sono più speranzoso verso la Sicilia. Lì ho visto con quanta forza si sia radicata l'antimafia. Mi sento un po' più pessimista per la Campania perché qui, la divisione netta tra bene e male, purtroppo, non esiste. La reazione comune, quando ci troviamo davanti a qualcuno che commette un piccolo reato, è cercare di giustificarlo. Penso che nella vita ci sia sempre la possibilità di scegliere di stare dalla parte del perbene rispetto alla parte del permale. Chi sta dall'altra parte lo sceglie. Non ti capita. Ho amici che abitano nella 167 (quartiere di Napoli, ndr), persone stimabilissime e onestissime. Non si capisce perché qualcun altro non lo debba essere, semplicemente perché li ci è nato». Sul suo blog, riferendosi a Saviano, ha espresso la «sensazione di trovarsi vicino ad un uomo dalla personalità alta, un'anima vasta e complicata, vasta anche nelle contraddizioni». Quanta forza le trasmette la vostra amicizia? «La gente vive Roberto esternamente. Ho perso il conto delle fesserie che ho sentito dire su di lui. All'inizio rispondevo in maniera accalorata. Ora quasi cerco di non ascoltare perché il rapporto di amicizia mi porta ad una veemenza e ad un'irruenza che in certi casi non servono. Vedere la scorta, vedere una persona con cui prima andavi a pranzo fuori, a prendere un caffè e che ora non può più fare queste cose, cambia tutto. Se si è affezionati ad un amico, si partecipa emotivamente alla sua condizione di vita. Quella di Roberto poi, è talmente particolare che non credo di poterla comprendere appieno. La forza e il coraggio che ti trasmette Roberto sono fondamentali. Almeno per me è così». Quanta ostinazione, quanta sfida personale c'è nel “suo” Gomorra? «La prima sfida è stata quella di andare oltre il libro, di riuscire a dare ai personaggi una personalità, un'anima, un'emotività che nel testo originale, per ovvi motivi, non c'è. La seconda sfida è stata quella di lavorare con Roberto, di chiedergli di fare dei passi diversi rispetto al libro, di andare oltre la parte di reportage e di accentuare quella del romanzo. Vorrei che, dopo lo spettacolo, la gente avesse un immaginario del libro corrispondente a quello del teatro, che vedesse i personaggi di cui ha letto con le facce degli attori che ha visto in scena. Vorremo riuscire a raccontare il vero Roberto Saviano al di là degli articoli, al di là delle battaglie. L'uomo». Se dovesse associare uno stato d'animo a questo suo ultimo spettacolo, quale sceglierebbe? «Disagio. Quando ho letto Gomorra mi sono trovato a disagio in quanto napoletano, in quanto autore e persona dell'ambiente culturale. Un senso di disagio che dovremmo avere tutti e che renderebbe costante anche l'allarme. Per quanto io creda che il teatro abbia un potere limitato, spero che questa sensazione possa accompagnare chi guarderà lo spettacolo e che possa sentire alla fine, anche se per pochi minuti, il disagio di vivere in questa città e di essere, in qualche modo, complice anche nei piccoli gesti quotidiani». DONNE Una Rete contro la violenza sessuale di Silvia Grassetti C'è una donna che si batte da sempre, nelle sedi della politica e della formazione, perché il tema della violenza sessuale non sia più relegato sulle pagine di cronaca nera, ma si trasformi in prevenzione, coinvolgendo tutta la società civile. Per fortuna questa donna fa parte della squadra di governo: si chiama Donatella Linguiti, ed è la sottosegretaria al ministero delle Pari Opportunità. Ha inventato il "Piano Antiviolenza", che non è più solo un progetto. Le abbiamo chiesto di parlarcene. Sottosegretaria Linguiti, che cos’è il Piano Antiviolenza? «E’ un piano nazionale contro la violenza sessuale, previsto dall’articolo 1261 della Finanziaria 2007, che dovrà essere costruito in sinergia tra diversi ministeri, per ovvie ragioni di competenza, e dovrà definire obiettivi strategici per conseguire risultati nel breve e nel medio termine. Coinvolgendo i diversi attori protagonisti, cioè istituzioni ed esperti di settore». Quanto conta la prevenzione, in materia di aggressioni sessuali? «La prevenzione è sicuramente importante, e naturalmente è prevista anche nella proposta di legge attualmente in discussione: cambiare le norme non è sufficiente, se a questo non si accompagna una maggiore sensibilizzazione al problema. Insomma, occorre cambiare il modello sociale delle relazioni tra uomini e donne». La maggiore novità è la creazione di una Rete tra enti, istituzioni e associazioni di cittadini: quali sono queste associazioni e come possono aderire al progetto? «Crediamo che l’asse portante del Piano dovrà essere rappresentato da forze esperte che nel nostro caso non possono che essere i Centri antiviolenza e le Case rifugio, che negli anni, oltre a maturare notevoli conoscenze teoriche, hanno saputo effettuare interventi molto incisivi. Altro strumento indispensabile sarà l’Osservatorio che stiamo costituendo per trovare le necessarie sinergie tra pubblici poteri e società civile organizzata». I fondi destinati dalla Finanziaria sono sufficienti a sostenere le spese di formazione e le campagne di sensibilizzazione? Dureranno abbastanza da far sì che questo progetto divenga realtà? «I soli fondi speciali appositamente istituiti presso il nostro ministero sono sufficienti per dare l’avvio al Piano, ma certo non per la sua completa realizzazione. Bisognerà pensare quindi anche in questo caso ad una sinergia tra diversi ministeri, i quali dovranno prevedere attività specifiche per formare gli operatori sul tema della violenza di genere, con una parte dei propri fondi destinati alla formazione del personale in servizio (penso in particolare alla Pubblica Amministrazione, o alla Pubblica Istruzione). Comunque credo che, se c’è la volontà politica di realizzare un intervento reale ed efficiente, si può agevolmente superare questo tipo di difficoltà». Infine una domanda di attualità: la Legge 194 è di nuovo sotto assedio da parte della Chiesa cattolica, che asserisce che dopo 30 anni quella legge sia anacronistica e vada migliorata: cosa risponde? «Che lo Stato del Vaticano ha da sempre cercato di interferire con le scelte dello Stato italiano; ritengo che questa legge abbia sempre funzionato bene, come testimoniano i dati degli ultimi anni. Non credo che si possa cambiare una legge rifacendosi a precetti di fede religiosa, a maggior ragione perché i trattamenti a cui si riferisce la Legge 194 non possono essere, e non sono mai stati, imposti in nessun modo a una donna o a una famiglia, cristiana o musulmana che sia». TELEGIORNALISTI Xavier Jacobelli: l'Italia non meritava gli Europei di Giuseppe Bosso «Le società hanno bruciato negli anni miliardi su miliardi per acquistare giocatori che si sono rivelati spesso grandi delusioni, anziché investire in maniera massiccia per ammodernare le misure di sicurezza negli stadi. Questi signori contavano molto sull’assegnazione degli Europei del 2012, cosa che avrebbe permesso di ammodernare gli stadi a spese dei contribuenti. E invece, come abbiamo visto, le cose non sono andate così, ma non c’è da sorprendersi: l’Italia non meritava certo di ospitare una rassegna così importante». Xavier Jacobelli, direttore di Quotidiano.net e giornalista sportivo di grande fama, mostra di non aver paura di dire quel che pensa sul mondo del calcio. Anche la sua lettura del dopo Catania non lascia spazio a interpretazioni: «La realtà è questa: sono passati ormai sette mesi da quella tragica notte, e di fatto nulla è cambiato. I signori che occupano i vertici della Federazione si sono illusi che bastassero i tornelli per risolvere il problema, senza rendersi conto che gli impianti sono obsoleti e fatiscenti. Come al solito, nel nostro Paese, si pensa che quando capitano emergenze si possa risolvere tutto intervenendo drasticamente sul momento per poi annacquare le cose col passare dei mesi». E Luciano Moggi, che aleggia sempre sul nostro calcio nonostante Calciopoli? «Moggi è sicuramente una presenza mediatica, malgrado la giustizia sportiva lo abbia squalificato. In ogni caso, è certo che fino a quando non interverrà una sentenza di condanna definitiva da parte della magistratura ordinaria, Moggi ha diritto di potersi difendere come meglio crede; lo sta facendo in maniera diversa da Giraudo, che da quando è scoppiato lo scandalo si è trasferito in Inghilterra ed è rimasto praticamente in silenzio, a differenza dell’ex dg juventino». Direttore, che campionato dobbiamo aspettarci con la Juve di nuovo in serie A insieme a Napoli e Genoa? È l’Inter la squadra da battere, o i nerazzurri punteranno tutto sulla Champions League? «Il ritorno di Juve, Genoa e Napoli è un motivo di grande interesse, e del resto le statistiche parlano di un grande rientro di pubblico per questa stagione. I nerazzurri sono la squadra favorita, che con Chivu e Suazo si è ulteriormente rafforzata, ma non ritengo che l’esito possa essere così scontato; la Roma mi ha davvero impressionato, c'è il Milan e poi ci sono squadre come Fiorentina, Udinese e Sampdoria che possono costituire delle grandi sorprese». Stupisce vedere i due tecnici italiani più vittoriosi degli ultimi anni, Capello e Lippi, fermi ai box, sia pure per ragioni diverse. Crede che prima o poi li rivedremo su qualche panchina di prestigio? «Situazioni diverse tra loro. Capello paga le scelte azzardate del Real Madrid, che non stanno né in cielo né in terra, per il fatto che malgrado le difficoltà in cui il tecnico italiano si è trovato ad operare sia riuscito a conseguire il traguardo della Liga. Calderon, presidente delle Merengeus, probabilmente ha agito in tal senso proprio perché non sopportava il carisma e la presenza di Capello; ma, come possiamo vedere, i risultati finora deludenti ottenuti da Schuster non fanno altro che aumentare il rammarico dei tifosi e anche di quegli stessi media spagnoli che pure non erano stati molto benevoli verso Capello. Lippi, invece, è ammirabile per il grande coraggio dimostrato nel lasciare la panchina azzurra dopo il trionfo di Berlino; ad ogni modo, credo che questa sarà veramente la sua ultima stagione da inattivo, dopo la parentesi a Sky come opinionista per la Champions League. E' pur sempre l’allenatore campione del mondo e credo che a breve ci sarà per lui un’importante offerta, che per esempio potrebbe venire dalla Federazione inglese nell’ipotesi che McLaren fallisca la qualificazione agli Europei del 2008». Totti e Nesta hanno detto addio alla nazionale, non senza polemiche. Quest'estate il Brasile ha vinto la Coppa America pur senza i suoi assi Ronaldinho e Kakà che avevano chiesto a Dunga di essere dispensati dalla manifestazione. Le nazionali non attirano più i grandi fuoriclasse? «No, sono casi a parte. E comunque mi sento di fare alcune considerazioni. Anzitutto, per quanto riguarda Totti, la maggior parte della gente che ha criticato questa sua decisione ha forse dimenticato che, nel gennaio del 2006, il capitano giallorosso ha subito un gravissimo infortunio che ha messo seriamente a rischio la sua stessa carriera, e che nei mesi successivi ha affrontato enormi sacrifici proprio per rispondere puntualmente alla chiamata di Lippi per partecipare al Mondiale di Germania. Mondiale che, a mio parere, ha vissuto da vero protagonista malgrado qualcuno non lo abbia riconosciuto, soprattutto nel momento in cui con molto coraggio ha deciso di tirare il rigore contro l’Australia. Poi, non dimentichiamolo, c’è anche un discorso fisico legato all’età del calciatore, che sta giocando con una placca che non gli consente certo di affrontare una stagione da 80 partite. Anche per Nesta il discorso è più o meno lo stesso, non dimentichiamoci che nelle ultime stagioni ha subito non pochi infortuni. Causa di questo problema,secondo me, è anche il fatto che le squadre sono impegnate troppo spesso in inutili amichevoli ai quattro lati del globo, che servono soltanto per portare liquidità nelle casse, ma che possono danneggiare non poco i calciatori. Tornando al discorso sulla nazionale: non credo si possa parlare di scarso amore da parte dei fuoriclasse, basti vedere l’impegno con cui scendono in campo in azzurro i vari Del Piero, Inzaghi e Cannavaro». Dopo una carriera prevalentemente sportiva, nel 2003 ha assunto la direzione de Il Giorno. Come ha vissuto quella parentesi? «Credo che un giornalista sportivo possa occuparsi tranquillamente anche di altri argomenti. Pensi, ad esempio, che un grande professionista come Antonio Ghirelli, dopo essere stato direttore de Il Corriere dello Sport, è stato anche portavoce del presidente Pertini. Io ho iniziato a lavorare, prima come praticante e poi come professionista, nella redazione di un glorioso quotidiano del pomeriggio , La Notte di Bergamo, dove seguivo non solo lo sport, ma anche la cronaca. L’esperienza de Il Giorno è stata una parentesi molto gratificante che ancora oggi mi è di grande aiuto, per Quotidiano.Net. Da quest’anno è in vigore un codice di comportamento per le trasmissioni sportive. Sarà davvero la fine della “tv urlata” nei programmi sportivi? «In Italia siamo bravi a pensare che occorrano codici su codici per risolvere ogni tipo di problema. Ad ogni modo, avverto, almeno per quanto riguarda i programmi sportivi, un’inversione di tendenza rispetto al resto della televisione, e mi pare davvero che ci si stia ponendo in maniera diversa rispetto al pubblico. Altra cosa positiva per il pubblico è la presenza di autorevoli opinionisti del calibro di Sacchi, Capello e Lippi, i quali meglio di chiunque altro possono dare agli spettatori quello che chiedono ai programmi sportivi, e cioè commenti di natura tecnica». SPORTIVA Al via gli Europei Assoluti di Sci Nautico di Mario Basile Tre campi slalom, tre laghi artificiali, un trampolino e un campo per atleti diversamente abili. Si presenta così il Centro Federale della FISN (Federazione Italiana Sci Nautico), fiore all’occhiello di Recetto: paesino che non conta neanche 1000 abitanti della provincia novarese. Piccolo sulla carta, ma di grande importanza per gli amanti dello sci nautico, visto che proprio lì, dal 19 al 23 settembre, si svolgeranno i Campionati Europei Assoluti di Discipline Classiche, ovvero: slalom, figure e salto. Appassionati, giornalisti specializzati e, soprattutto, i migliori atleti europei saranno accolti, a Recetto, da un villaggio sportivo realizzato appositamente per la kermesse. A proposito di atleti, le nostre speranze sono riposte tutte, o quasi, in Thomas Degasperi e Marco Riva. Entrambi poco conosciuti, data la cronica insofferenza dei media agli sport “non di grido”, entrambi grandi campioni: il primo si è appena laureato campione del mondo a Linz ed ha già in bacheca tre europei di slalom; il secondo, sempre agli ultimi mondiali, ha conquistato il bronzo nella combinata. E le ragazze? Naturalmente non mancano. Marina Mosti, Simona Ravaioli e la giovanissima Silvia Caruso sono le punte di diamante della squadra azzurra femminile. Si dividono tra lavoro, studio e allenamenti. Una di loro, Marina, ha cercato di seguire la strada del professionismo, grazie agli sponsor. Finito l’appoggio di questi, è svanito il sogno. Il fatto che non ci riesca lei che è considerata la regina dello sci nautico azzurro, con due argenti e un bronzo ai mondiali e 31 titoli italiani vinti, la dice lunga. Le premesse per un grande spettacolo e per vedere i nostri ragazzi trionfare ci sono tutte. La tv, però, non ci sarà. Non sono previste gare in diretta né in differita. Solo servizi giornalistici di network locali o del settore per la manifestazione che circa cinquant’anni fa vide vincitore nientemeno che Franco Carraro. Pochi sanno, infatti, che il “poltronissimo” è stato un grande dello sci nautico italiano di fine anni ’50, vincendo gli europei per ben tre volte. Nello stesso periodo in campo femminile splendeva, invece, la stella di Marina Ricolfi Doria. La futura consorte di Vittorio Emanuele di Savoia si ritirerà dalla carriera agonistica con un palmares di tutto rispetto: 23 titoli svizzeri, 12 europei e 4 mondiali. |
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