Archivio MONITOR Rossella Grandolfo, W la Puglia! di Nicola Pistoia Laureata in Lettere Moderne con una tesi su Telenorba, Rossella Grandolfo ha lavorato con direttori del calibro di Emilio Fede, e Paolo Liguori, che negli anni '90 si sono avvicendati alla direzione di Studio Aperto, il tg di Italia1. Nel 1999 Rossella accettò la proposta di trasferirsi in Puglia per lavorare come corrispondente per Studio Aperto, compito che svolge tuttora. So che la tua passione per il giornalismo è nata al cinema... «E' vero: galeotto per me fu il film Tutti gli uomini del presidente, visto da ragazzina: da lì, dalla vicenda di quei due coraggiosi e tenaci giornalisti che scardinavano un sistema politico per amore della verità si accese la passione per una professione vista come forte impegno civile. Ad alimentare quella che negli anni è cresciuta sempre più come passione erano anche, ai tempi del liceo, le inchieste di Camilla Cederna e i reportage di Oriana Fallaci. Come vedi, miravo proprio in alto!». Tu sei consigliere dell'Ordine dei Giornalisti, oltre che corrispondente per Studio Aperto, e mamma di due splendide ragazze: bastano 24 ore al giorno? «Carlotta e Matilde, di 11 e 8 anni, sono la cosa che più mi piace della mia vita. Ma per la famiglia non rinuncerei mai al mio lavoro, che ancora mi dà soddisfazioni! Certo, se qualcuno mi offrisse la possibilità di fare durare di più le mie giornate, che sono vere e proprie gimkane, la prenderei al volo!» La maggior parte delle donne in carriera sostiene di sentirsi in colpa nei confronti della famiglia; è così anche per te? «In passato, quando le mie figlie erano più piccole, e mi capitava di passare fuori intere giornate, per poi riabbracciarle solo la sera quando dormivano, ho provato forti sensi di colpa, insieme alla tentazione di mollare tutto, che qualche volta mi ha sfiorato. Ma, come è nel mio carattere tenace, da vero Toro quale sono, sono andata avanti». C'è un servizio o un personaggio che ricordi in modo particolare? «Guarda, non potrò mai dimenticare il mio arrivo a San Giuliano di Puglia, poche ore dopo il crollo della scuola elementare, in cui persero la vita 27 bambini e un'insegnante: il silenzio irreale intorno a quelle macerie, le mamme, che a bassa voce parlavano con i loro bambini intrappolati lì dentro. E poi, vederli uscire, quei corpicini, sulle barelle e capire, dagli sguardi, quando un cuore ancora batteva e, quando, invece, non c'era più niente da fare. Credo sia stata questa la mia esperienza professionale più forte». Se ti proponessero di trasferirti a Milano, ad esempio per condurre il tg, accetteresti con entusiasmo o no? «Ho lavorato nella redazione centrale di Milano per sette anni: dal 1991, dunque agli albori dei tg Mediaset, quando il Tg5 doveva ancora nascere, fino all'inizio del 1998. In questi anni ho vissuto direttamente ogni aspetto del giornalismo televisivo, dalla conduzione alla line, al lavoro da inviato. Ho scelto di tornare a Bari, nella mia città, un po’ per sfida, un po' perché mi piace il lavoro di cronista, quello che, dico sempre scherzando, batte i marciapiedi, mischiandosi alla gente, ai fatti, e testimoniandoli. Ritengo che fare il giornalista sia proprio questo, e spero di continuare a farlo!» MONITOR Patrizia Viola, pioniera del giornalismo sportivo di Giuseppe Bosso Questa settimana Telegiornaliste incontra per i suoi lettori Patrizia Viola, da vent'anni tgista per La7. Qualche anno fa scrisse al nostro sito dicendo di essere “invecchiata” con la sua emittente, allora Tmc; cosa trova di diverso a La7 oggi? «Molte cose: agli inizi eravamo una tv principalmente dedicata allo sport, che man mano si è fatta strada nel panorama nazionale puntando sull’approfondimento, sulla politica e sui grandi avvenimenti internazionali, come le guerre in Medio Oriente che ci hanno permesso di trattare in maniera dettagliata questi temi». Ha iniziato occupandosi di calcio: una delle “pioniere” a inserirsi in un mondo rigorosamente maschile. Oggi che molte colleghe si occupano di cronaca sportiva, pensa di aver tracciato un sentiero? «È una cosa che mi fa molto piacere; agli inizi eravamo davvero poche, c’era qualche diffidenza che, spero, col tempo si sia superata, e mi fa molto piacere vedere oggi molte di queste ragazze farsi strada brillantemente». Attualmente fa parte della redazione cultura e spettacoli del tg di La7: ritiene che il 2006 per il nostro cinema sia stato un anno positivo, alla luce anche del grande successo riscosso dalla Festa Internazionale di Roma? «Nel 2006 si è parlato molto di più di cinema rispetto agli altri anni, in cui non sempre si riusciva a parlarne in maniera appropriata. Questi eventi non possono che far bene al settore». I suoi colleghi di La7 affermano che la forza della vostra redazione sta soprattutto nell'affiatamento consolidato: può confermare? «Certo, siamo molto affiatati: faccio parte dal 1986 della redazione, diciamo, “storica”, dell’allora Tmc, che poi dieci anni dopo si è accorpata con Videomusic, da cui sono giunti gli altri colleghi con i quali, comunque, non ci sono stati problemi. Ci siamo subito inseriti benissimo tra noi». Quali sono gli apprezzamenti che più le piace ricevere dai suoi spettatori, e in generale ritiene che immagine e professionalità vadano di pari passo? «La professionalità è essenziale, in questo lavoro in cui ti esponi attivamente, e non è detto che una bella immagine ti aiuti se poi non riesci ad esprimerti bene. Per quanto mi riguarda non sono una fissata dell’immagine esteriore, ma piuttosto cerco di essere il più possibile precisa e chiara nei confronti del pubblico». CRONACA IN ROSA Amici e alleati dalla nostra corrispondente Silvia Garnero BUENOS AIRES - Non appena Romano Prodi ha confermato la visita di George W. Bush in Italia per il prossimo mese di giugno, ha approfittato dell'opportunità per smorzare l'importanza delle recenti tensioni tra i due Paesi, alleati quasi incondizionatamente negli ultimi anni attraverso il governo dell'ex premier Silvio Berlusconi. E' una realtà che la linea "berlusconiana" di politica estera verso gli Stati Uniti prosegue pressoché intatta, salvo che per alcune dichiarazioni della sinistra massimalista, che, in ogni modo, non hanno cambiato il corso dei rapporti. Bush aveva tenuto in passato una stretta alleanza con Silvio Berlusconi che ha rappresentato, per anni, uno dei suoi più convinti ammiratori e difensori in Europa, e non sembrerebbe preoccuparsene ora. Quella di giugno sarà la prima visita a Roma da quando Prodi è stato eletto premier nelle elezioni d'aprile 2006, sebbene i due governanti si siano visti e incontrati in diverse occasioni internazionali. Lo stesso hanno fatto più volte il segretario di Stato americano Condoleeza Rice e il ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema. L'incontro Bush - Prodi si terrà il prossimo 9 giugno, dopo la riunione del “gruppo degli otto” che si svolgerà dal 6 all'8 giugno in Germania. Bush approfitterà di quest'occasione per incontrare anche Papa Benedetto XVI in Vaticano. «Due Paesi che sono stati amici e alleati per tanto tempo, come Italia e Stati Uniti, uniti da tanti valori in comune, possono sopportare alcuni problemi bilaterali», ha riferito Prodi alla notizia dell'annuncio ufficiale della visita. Prodi si riferiva a dispute che sono avvenute in campo militare, dove l'Italia accompagna gli USA in quasi tutti i suoi scenari in Medio Oriente. Le dispute riguardano sia le modalità di rilascio dell'ultimo sequestrato in Afghanistan, Daniele Mastrogiacomo, sia nell'incidente in Iraq, due anni fa, quando un marine USA uccise l'agente del SISMI Italiano Nicola Calipari, durante la liberazione dell'altra giornalista Giuliana Sgrena. Un altro caso, quello dell'Imam egiziano Abu Omar, ha suscitato tensione con la magistratura italiana, che ha accusato 26 agenti americani di averlo sequestrato a Milano, perché sospettato di terrorismo e come parte di un programma segreto della CIA. Per di più, la base USA di Vicenza è stata un altro dei recenti motivi di discordia, sebbene soprattutto interna, che ha registrato l'opposizione di parte della cittadinanza e di alcuni importanti esponenti della coalizione di governo, che però rimane intatta, come altre, in vari insediamenti in Italia. Nessuno di questi fatti mette in pericolo, a quanto pare, le buone relazioni bilaterali, che Prodi ha definito «senza traumi». Verrebbe da chiedersi se i “traumi” che non esistono all'esterno, esistano invece all'interno, generando risentimento e tensioni assolutamente irrisolti. La sinistra più radicale osserva e si defila in queste ore, con le decisioni sul nuovo Partito Democratico, alzando le bandiere tradizionali, dove il valore dell'ideologia tuttavia passa per coerenza. Al contrario, la linea moderata e “centrista” sembra vincere la lotta di potere all'interno del governo, tanto da costituire un “nuovo partito” moderato, quasi liberale e fuori dell'appartenenza storica al Partito Socialista Europeo, quanto da definire le linee d'azione e di pensiero con il resto dei Paesi del mondo… E se no, basta vedere i fatti. E forse i traumi... FORMAT Bentornato, Enzo Biagi! di Giuseppe Bosso Aveva lasciato il 31 maggio 2002, chiudendo Il Fatto dopo sette edizioni, allontanato da “mamma Rai” al pari di Michele Santoro e Daniele Luttazzi, a causa del tristemente noto editto bulgaro dell'ex premier Silvio Berlusconi. Ora, finalmente, dopo anni di silenzio, il piccolo schermo riabbraccia uno dei maestri del giornalismo italiano, Enzo Biagi, che è tornato in prima serata su Rai3. In questa fase di buio, interrotta da alcune - riuscitissime - ospitate da Fabio Fazio a Che tempo che fa, Biagi è mancato molto al pubblico, che lo ritrova con un programma il cui titolo è un vero e proprio tuffo nel passato: RT - Rotocalco televisivo, come il primo storico rotocalco che nel 1962 venne lanciato dagli studi Rai di Milano dall’allora direttore del tg. Dopo la prima puntata, andata in onda il 22 aprile scorso, dedicata a Resistenza e resistenze (un riferimento autobiografico?), la trasmissione si sposterà alla seconda serata del lunedì: otto puntate in cui, con il suo consueto stile, Biagi tratterà gli argomenti chiave della settimana, dalla sua ormai leggendaria scrivania e con una serie di ospiti di primo piano, dallo scrittore Andrea Camilleri al conduttore Fabio Fazio (definito «un vero amico»), fino all’ospite più atteso, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invitato personalmente dal giornalista, e che dovrebbe intervenire nell’ultima puntata. Per il suo grande rientro Enzo Biagi ha voluto circondarsi di una nutrita schiera di fidati collaboratori, dal regista Loris Mazzetti alla sua stessa figlia, Bice, ex direttore di Novella 2000, che affiancherà il celeberrimo genitore per la prima volta. «Comunque vada, sarà un successo», diceva Chiambretti dieci anni fa sul palco del Festival di Sanremo. Ed è questo lo spirito che accompagna la trasmissione che, al di là di una collocazione oraria non appropriata, ha il grande merito di restituire alla televisione e al mondo dell’informazione uno dei suoi grandi protagonisti, del quale tanto si è sentita la mancanza nell’ultimo lustro e la cui professionalità ancora tanto riesce a dare. CULT Addiopizzo, il volto della libertà in Sicilia di Antonella Lombardi «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Il 29 giugno 2004 questa frase, scritta su centinaia di adesivi listati a lutto, ha tappezzato le strade del centro di Palermo, svegliando la città dal suo torpore. Vertici delle forze dell’ordine, associazioni di categoria dei commercianti, giornali e televisioni, spiazzati da quei messaggi anonimi, senza loghi né firme, hanno pensato all’iniziativa disperata di qualche commerciante taglieggiato, mettendo in grande risalto la notizia. Poco tempo dopo, gli attacchini autori di quei messaggi, hanno rivelato la propria identità con una lettera aperta alla città in cui c’era scritto: «Ogni esercizio commerciale che fa un buon fatturato, se non è "amico degli amici", deve pagare il pizzo... Paghiamo per dimenticare che l’insieme di tutti i passi che percorriamo quotidianamente per fare la spesa definisce le maglie della rete economica con la quale la mafia si sostenta e ci opprime». Una protesta spontanea, partita dal basso, da un gruppo di «Uomini e donne abbastanza normali, cioè ribelli, differenti, scomodi, sognatori». Per lo più ragazzi, chi alle prime esperienze col mondo del lavoro, chi ancora studente, tutti comunque accomunati dalla preoccupazione del controllo della mafia nei luoghi produttivi e decisionali della Sicilia. Ciascuno a chiedersi, come molti altri ragazzi del Sud, se andare via e cercare altrove un’opportunità di lavoro, o restare. Dall’iniziativa coraggiosa, avviata tre anni fa dal "Comitato Addiopizzo", associazione volontaria e apartitica, guidata inizialmente da poco più di sette ragazzi, sono seguiti altri fatti: contro il pagamento del pizzo, in forme dirette e indirette, l’attività del comitato è riuscita a realizzare una campagna di "consumo critico", con una lista di circa 200 imprenditori e commercianti che hanno detto no al pizzo e 9000 consumatori che li sostengono con i loro acquisti; attraverso il "progetto scuole" sono stati coinvolti 91 istituti nella formazione antiracket; più di 1364 i messaggi di solidarietà che da tutto il mondo sono arrivati al sito; ultima, una proposta di sottoscrizione formale contro il racket ai candidati sindaci di Palermo alle prossime elezioni amministrative. Dei 5 aspiranti candidati, hanno risposto in 4. Tutti, tranne Diego Cammarata, sindaco uscente. La rivoluzione culturale degli "attacchini" va avanti, nonostante i silenzi complici che ancora coprono le estorsioni. Libera, volontaria, autofinanziata, l’attività del comitato lotta contro un fenomeno che, secondo i dati della Procura di Palermo, riguarda l’80% dei commercianti della città. Inoltre, secondo L’Eurispes, il profitto che la mafia ricava dal pizzo ammonta a circa 10 miliardi di euro l’anno. Se non ci fosse questa zavorra il Pil del Sud Italia sarebbe pari a quello del Nord. Una "tassa" per qualcosa che spetta di diritto ai propri cittadini e attraverso la quale la mafia di fatto afferma la propria signoria sul territorio. Negando la sovranità al popolo siciliano che intanto, però, si prepara a una nuova, pacifica, mobilitazione. Nel popolare quartiere della Kalsa, dove sono nati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in piazza Magione, il 5 e il 6 maggio cittadini e commercianti si incontreranno: due giorni di attività per coinvolgere i ragazzi di 50 scuole, ma anche per riflettere insieme a magistrati, giornalisti, scrittori. E per divertirsi in piazza. Riprendendosi ciò che spetta di diritto. DONNE 95 anni sprint! di Tiziana Ambrosi 94 anni compiuti, una vita ricchissima alle spalle e la voglia di sfidarsi in continuazione. Questa potrebbe essere una breve biografia di Nola Ochs, sprintosa signora del Kansas, profondo sud degli Stati Uniti. Il 12 maggio, Nola entrerà nel Guinness dei primati, diventando la laureata più anziana del mondo. Quando nei primi anni settanta il marito morì, Nola capì che per superare il lutto doveva trovare qualcosa per occupare la mente. Decise di iscriversi al Dodge City Community College. Preso dapprima come un passatempo, lo studio ben presto divenne un impegno serio, grazie anche all'incoraggiamento di un professore che le faceva capire quanto la meta fosse vicina. Così, dopo aver seguito i corsi, fra poco più di due settimane arriverà il tanto ambito traguardo. Una vita intensa. I ricordi che vanno dalla nascita dell'Unione Sovietica, alla cartolina di precetto al padre allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, alla costruzione e caduta del Muro di Berlino. La Storia con la esse maiuscola, proprio la medesima disciplina in cui si accinge a conseguire il titolo. L'aiuto arriva anche da una compagna di studi speciale, la nipote Alexandra, anche lei in procinto di diplomarsi. Problemi con i compagni di studio ce ne sono stati. D'altra parte è difficile non notare il gap d'età. Ma allo stesso tempo gli anni di differenza hanno permesso un confronto di idee da diversi punti di vista. Tutto ciò rappresenta anche un forte impulso alla visione di una realtà più tollerante, basata sulla conoscenza e sul rapporto tra le persone, piuttosto che sui pre-giudizi. La sua storia, a detta di molti, diventa così uno stimolo per le persone più anziane, spesso giudicate come una zavorra della società. In bocca al lupo alla futura dottoressa, che il suo esempio ci faccia ricordare che l'impegno e il sacrificio ci permettono di avvicinarci ai traguardi che ci prefiggiamo. Ad ogni età. TELEGIORNALISTI Umberto Gambino: Tg2, che passione di Nicola Pistoia Umberto Gambino, nato a Messina il 23 ottobre 1958, ha alcuni interessi che approfondisce con impegno: giornalista professionista dal 1987, è laureando in chirurgia, sommelier, appassionato delle nuove tecnologie. Tra tutte queste passioni, come hai scelto quella per il giornalismo? «Fin da bambino mi piaceva da matti scrivere, ed ero affascinato dal mondo della tv e dell'informazione. Già alle elementari provavo a disegnare "menabò" per ipotetici giornalini scolastici, oltre ai giornalini a fumetti andavo a caccia di notizie nei quotidiani e nel tg, tutto ciò che era notizia mi interessava. Nel 1976, al quinto anno di liceo, ci fu la riforma dei telegiornali Rai e nacque il Tg2. Potrà sembrare strano ma è la pura verità: mi sono innamorato subito di quel telegiornale così diverso e originale rispetto all'ufficialità del Tg1. Il mio sogno nel cassetto era, fin da allora, diventare un giornalista del Tg2. A distanza di vent'anni ci sono riuscito». Sembri proprio innamorato... «Come non amare questa professione? Dove lo trovi un altro lavoro ogni giorno sempre nuovo, con spunti interessanti? Come fare a meno di andare a caccia di notizie sempre diverse? Come non appassionarsi a fatti e storie che si evolvono ora per ora o addirittura minuto per minuto? Tante volte sono stato inviato per avvenimenti di portata nazionale e mi rendo di quanto sia importante e determinante, per le sorti stesse delle singole persone, quello che noi scriviamo sui giornali o raccontiamo in televisione. Probabilmente è questo enorme potere che ci deve far riflettere sempre e tanto prima di metterci a scrivere qualsiasi cosa». Mi correggo: innamorato del giornalismo televisivo... «I media mi piacciono tutti, ciascuno ha la propria funzione, purché le notizie date siano vere e verificate. Amo in particolare il giornalismo televisivo perché lavorare con le immagini richiede grande flessibilità e capacità di sintesi e chiarezza che gli altri media non hanno. Poi, l'impatto emotivo della televisione è superiore a qualsiasi altro mezzo d'informazione. Basti pensare alle dirette dei grandi avvenimenti mentre si svolgono. Anche se oggi Internet sta seriamente minacciando il potere della tv. Io stesso, per il mio lavoro televisivo, mi documento continuamente sul web. Per gli approfondimenti mi rivolgo invece alla carta stampata e per tenermi informato quando viaggio c'è la nostra cara amica radio». Mi correggo di nuovo: innamorato del Tg2. Perché? «Credo sia differente da tutti gli altri tg per la grande capacità di sperimentazione di nuovi linguaggi televisivi che riesce a portare avanti. E' stato così da sempre, fin da quando è nato. E poi le nostre tante rubriche: un fiore all'occhiello!» Un servizio, un personaggio o un'intervista rimasti impressi nella memoria? «Gigliola Guerinoni, la "mantide della Valbormida", condannata per aver ucciso il suo ultimo amante. Seguii suoi processi e le sue vicende fino all'ultimo. E riuscii a fare uno scoop, quando, già condannata in primo grado, la intervistai per primo mentre era agli arresti domiciliari. Al Tg2 ricordo, nel luglio 2005, il viaggio a Sharm El Sheikh, dopo gli attentati in cui furono coinvolti anche turisti italiani. Feci il viaggio in Egitto, con il C130 dell'aeronautica militare, e poi tornai con i nostri connazionali feriti. Tutto in una notte, senza dormire. Ovviamente, in esclusiva: le mie interviste ai sopravissuti e le loro immagini furono riprese da tutti gli altri tg della Rai». Cosa pensi dei colleghi che dal giornalismo sono passati allo spettacolo? «Onestamente, non ne ho un buon concetto: credo che abbiano sfruttato questa bella professione per finire "fuori strada". Forse, all'inizio della loro carriera, non avevano le idee ben chiare su cosa è e cosa deve essere la "missione" del giornalismo. Io li considero ex giornalisti a tutti gli effetti. E, credetemi, quando li vedo in tv, magari in un reality, a ballare o a fare i buffoni a pagamento, beh... Provo pena per loro». OLIMPIA Figli del vento di Mario Basile Figlio del vento: è uno di quei classici appellativi che i cronisti sportivi amano affibbiare ai protagonisti di cui raccontano le gesta. Evoca miti e imprese affascinanti, eroi ed eroine da idolatrare. Manna dal cielo per lettori estasiati sempre pronti ad adorare nuovi idoli. Capita perciò, tanto per citarne uno, che anche un Hamilton qualunque, pilota di F1 della McLaren, venga subito definito, o meglio si fregi da sé, del titolo di son of the wind. Non ce ne voglia l’americano: ha buone qualità, ma deve ancora dimostrarlo, di essere un grandissimo. Esiste, però, una disciplina sportiva in cui l’appellativo di figlio del vento calza eccome. In quella che da molti è stata definita la regina di tutti gli sport: l’atletica leggera. Lì dove l’uomo combatte contro sé stesso e contro i suoi limiti. Dici “atletica”, dici "figlio del vento”, e la mente corre da sola a un unico nome: Carl Lewis. Lui l’appellativo l’ha avuto ufficialmente, sin da quando la sua stella si accese nei primissimi anni 80. Velocista e saltatore in lungo, già da diciottenne, quando le Olimpiadi moscovite del 1980 erano alle porte, sembrava che nessuno potesse fermarlo. Non aveva fatto i conti col presidente Jimmy Carter e la sua campagna di boicottaggio delle Olimpiadi in terra sovietica. Si rifece quattro anni dopo: a Los Angeles, a Seul e a Barcellona si confermò il migliore per chiudere in bellezza a Sydney nel ’96 con l’oro nel salto in lungo. Quando nessuno ci credeva più. A quei tempi si disse che Lewis era l’erede naturale di Jesse Owens. La favola di Owens era iniziata quasi cinquant’anni prima. Nato in Alabama, come Lewis, Owens non fu definito “figlio del vento” solo perché la fantasia dei cronisti dell’epoca non fu in grado di arrivare a tanto. Si dovette accontentare di essere un lampo d’ebano o al massimo l'antilope nera. Poco importa. Jesse la storia l’ha fatta comunque, un giorno di agosto del ’36 alle Olimpiadi di Berlino. Aveva già vinto i 100m, vinse anche il salto in lungo. La leggenda vuole che Hitler si sia rifiutato di complimentarsi con lui per via del colore della pelle. In quella manifestazione Owens portò a casa quattro ori in altrettante discipline. Record eguagliato da Carl Lewis a Los Angeles nel 1984. Tra Owens e Lewis c’è però un’altra leggenda dell’atletica: Bob Hayes. Hayes gode di un primato: in assoluto, è stato il primo ad essere definito "figlio del vento". Ma il soprannome non resistette a lungo, Bob volava sugli avversari spingendo il suo metro e ottantadue con gambe veloci e possenti, quasi fosse un proiettile. E allora per tutti fu “Bullet”. Emozionò il pubblico americano a Tokyo nel ’64 vincendo la gara dei 100m e stabilendo il record del mondo con la squadra a stelle e strisce nella staffetta al termine di una gara da brividi. L’odore dei soldi lo portò a sbarcare nel campionato di football. In cinque anni da giocatore arricchì il suo palmares con la vittoria del superbowl nel 1971. Ritiratosi, cadde vittima dell’alcool e della droga, che poi finì anche per spacciare. Il che gli costò la galera. Bob Bullet Hayes si è spento sei anni fa per un tumore alla prostata, quasi dimenticato da tutti. In un parco della sua Jacksonville c’è una statua che lo raffigura mentre corre sulle punte quasi come se non toccasse terra. L’autrice dell’opera, Kristen Visbal, spiega: «In tutte le foto di Hayes che ho visto un notato un particolare interessante: i piedi non toccano il terreno». I proiettili tagliano l’aria, non corrono sulla strada. |
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