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Telegiornaliste anno II N. 25 (57) del 26 giugno 2006


MONITOR Toffanin, felice di essere giornalista di Silvia Grassetti

Essere giornalista significa svolgere «un lavoro stimolante che permette di approfondire temi e argomenti sempre nuovi. Aver inoltre il privilegio di informarsi per informare è l'aspetto di questo mestiere che mi da più soddisfazione. Allo stesso tempo però sento la responsabilità che tutto ciò implica».
Parola di Silvia Toffanin, approdata anni fa nelle case degli italiani dagli schermi di Passaparola, il programma condotto con successo da Gerry Scotti, che ben presto ha deciso quale fosse la sua strada, salutando il quiz e concentrandosi sulla professionalità.
Come nasce la giornalista Toffanin?
«Il mondo della comunicazione e in particolare del giornalismo mi ha sempre interessata, fin dai tempi del liceo.
Ho scelto di fare questo mestiere cinque anni fa, entrando a far parte della redazione di Nonsolomoda. Sono diventata giornalista professionista il 21 settembre 2004».
Sei un personaggio eclettico: conduttrice tv, giornalista,
cittadina del mondo. C'è qualcuna delle tue occupazioni a cui non potresti mai rinunciare?

«Quelli che hai elencato sono tre aspetti di un’unica occupazione: sono una giornalista televisiva che per lavoro, passione e interesse, viaggia molto».
Ciò che ti lega alla televisione è amore eterno, o nel tuo futuro professionale contempli anche la possibilità di lavorare nella radio o nella carta stampata?
«Perché no! Mi attira l’idea di potermi mettere alla prova con strumenti di comunicazione diversi.
Ho ancora molto da imparare e sono convinta che un’esperienza in un quotidiano, o in una radio, sarebbe per me un’ottima palestra e un’occasione di crescita professionale».
C'è un personaggio incontrato, o un evento, che ricordi con particolare partecipazione?
«L’incontro con Papa Benedetto XVI. Ogni volta che penso a quel momento mi commuovo».
Hai un sogno nel cassetto o un progetto, professionale e non?
«Mi piacerebbe in futuro poter dirigere una rivista femminile».
Una esperienza professionale che ricordi con piacere?
«Di sicuro la mia prima intervista a Giorgio Armani.
Ero emozionata e per un istante ho avuto paura di non ricordare più tutto quello che avrei voluto chiedergli. Per fortuna però dopo i primi minuti di tensione, mi sono rilassata e tutto è andato bene.
E' un po' la stessa sensazione che si prova ad un esame per il quale si è studiato molto: quando si arriva davanti al professore ti sembra di non ricordare più niente».
CRONACA IN ROSA Shooting room, sì o no? di Stefania Trivigno

Oltre alle discussioni su Pacs e pillola abortiva, il governo Prodi si trova ad affrontare il problema della droga. Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero ha infatti proposto qualche giorno fa l'introduzione delle cosiddette shooting room, stanze ricavate nelle sedi ASL locali e riservate ai consumatori di stupefacenti.
Presenti già in molti Paesi, quali Germania, Olanda, Spagna, Svizzera, Lussemburgo, Norvegia, Australia e Canada, le stanze del buco avrebbero lo scopo di assicurare ai tossicodipendenti un ambiente igienico - fornendo un kit completo di siringhe e laccio emostatico - e di dare assistenza sanitaria: i medici controllerebbero le quantità di droga somministrate per evitare l'overdose.
La dichiarazione del ministro, che per ora si è limitato a dirsi favorevole alle shooting room, ha dato il via alla ormai consueta polemica fra maggioranza e opposizione.
Toni forti sono arrivati dalla Casa delle Libertà. Durissimo il commento dell’ex sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, che sostiene con fermezza che introdurre le stanze per il buco equivalga a vivere in uno Stato che spaccia droga e favorisce la tossicodipendenza.
Sulla stessa linea la Lega Nord, che annuncia che ostacolerà con ogni mezzo «questo e altri progetti mirati ad abbassare il livello di contrasto alla diffusione di qualsiasi tipo di droga».
L'esempio degli altri Stati europei può forse chiarire gli aspetti oscuri della proposta shooting room: in Svizzera la somministrazione controllata di eroina, iniziata nel 1991 e confermata con referendum nel 1997 e 1999, ha avuto effetti positivi, perché – spiega Umberto Veronesi – «la dipendenza da eroina è diventata sempre più un problema medico e ha perso la sua immagine di atto di ribellione».
Tuttavia, se la sperimentazione – che, sottolinea il ministro per la Famiglia Rosy Bindi, non è fra le priorità del governo, né nel suo programma – si avviasse anche in Italia, si assisterebbe a un paradosso, passando dalla Legge Fini - Giovanardi a un atteggiamento in apparenza permissivo nei confronti del problema.
CRONACA IN ROSA Friburgo città ecologica di Tiziana Ambrosi

Friburgo, nel cuore della Foresta Nera, è la città tedesca ecologica per eccellenza. Nonostante i suoi 210.000 abitanti, ha una media di superficie coperta a pannelli solari tra le più alte in Europa.
La fisionomia attuale di Friburgo affonda le proprie radici a quasi un quarto di secolo fa, quando venne edificato il primo fabbricato - un condominio popolare - con innovazioni radicali dal punto di vista ecologico e tecnologico.
Un efficiente isolamento termico della struttura e la messa in opera di pannelli solari sulle superfici esposte a sud hanno permesso notevoli risparmi energetici.
Tanto da indurre l'amministrazione comunale a spingere sempre più verso una "ecologizzazione" della città.
Dal singolo edificio alla nascita di veri e propri agglomerati urbani con standard ambientali elevatissimi.
Basti pensare al progetto del quartiere Am Schlierberg: cinquanta villette a schiera in grado di autosostenersi energeticamente, con pannelli fotovoltaici, utilizzo di materiali isolanti - i telai sono in legno - e impianti di riutilizzo dell'aria.
Una curiosità sono i balconi, in metallo e staccati dal corpo principale in modo da non creare un ponte termico.
Un connubio tra produzione attiva di energia - mediante la centrale fotovoltaica - e passiva - intesa come risparmio e limitazione dello spreco.
Il quartiere solare non è l'unico esempio di edilizia ecologica della città tedesca. Altri progetti sono in programma oppure già realizzati, come la Sonneschiff - la Barca Solare, un ampio complesso di edifici e abitazioni; o il quartiere Vauban.
Molto particolare, anche da un punto di vista architettonico l'Heliotrop®. L'edificio, oltre ad avere forma cilindrica e sistemi di risparmio e accumulo d'acqua, segue il movimento del sole attraverso una piattaforma girevole, esponendo alla luce le vetrate.
L'elevata percentuale di sfruttamento di energie rinnovabili ha alle spalle una solida politica energetica basata su tariffe incentivanti: più si usano energie pulite, più si accede a facilitazioni e supporto per la realizzazione degli impianti.
Una politica analoga in Italia è quasi del tutto assente, almeno a livello nazionale. Nonostante la firma del trattato di Kyoto, gli standard richiesti sono ancora molto lontani.
Qualche eccezione c'è, come Carugate, provincia di Milano, poco più di 12.500 abitanti. Il Comune si è dotato di un regolamento edilizio incentrato su un approccio sostenibile dell'edilizia, che combina le esigenze attuali e quelle delle future generazioni.
Tre i punti fondamentali: risparmio energetico, utilizzo di fonti rinnovabili e di tecnologie bioclimatiche.
FORMAT MEDIA & MINORI Restare a galla di Serenella Medori

Restare a galla non è semplice, riconvertire il proprio lavoro lo è ancora meno, ma esiste chi da attore diventa produttore, da presentatore diventa autore di programmi, senza che un ruolo escluda necessariamente l’altro.
Riconvertire. Questa potrebbe essere la parola chiave. Come si fa a riconvertire una carriera televisiva avviata ma interrotta? Come si fa a convivere con la fama ottenuta rapidamente da giovani sconosciuti e le televendite?
In un programma di intrattenimento come ce ne sono tanti, la conduttrice ha fatto sedere nello stesso studio, alla presenza di altri ospiti, un giovanissimo opinionista dalla lingua tagliente e un presentatore di televendite. Ascoltare e osservare la conversazione si è rivelato ben presto assurdo, con connotazioni grottesche: personaggi tv di varia origine e i telespettatori ascoltavano l’opinionista di recente fama. Dopo alcuni lunghissimi secondi di solitario sproloquio il presentatore di televendite ha interrotto commentando: «Potresti venire con me a fare le televendite!».
Giusto! Chi ha esperienza televisiva fa le televendite, chi non ne ha fa l’ospite - opinionista. Facile!
Segue un incredibile moltiplicarsi di domande. Chi dei due gode di maggior importanza? Chi dei due si sente più rispettato? Quale dei due è un prodotto televisivo? Quale dei due è prodotto dell’esperienza? Quali esperienze sono più importanti per fare televisione? Che valore viene dato al conduttore che intervista illustri sconosciuti in aria di notorietà? Pippo Baudo lo avrebbe fatto?
Probabilmente Baudo non è un adeguato termine di paragone, dal momento che forse la sua esperienza televisiva è talmente grande che ha già fatto tutto, tranne il Grande Fratello!
Come nascono i personaggi televisivi? Chi sono nella realtà? Un’altra domanda si pone il curioso telespettatore, attento e critico: che fanno per vivere?
(13-continua)
FORMAT Mammucari diventa Professore di Nicola Pistoia

Dopo le polemiche sul suo ultimo programma televisivo, Distraction, reo di aver confermato ancora una volta quanto la nostra Tv apprezzi il trash, Teo Mammucari torna più carico che mai, e in versione Prof.
È infatti al timone di un nuovo show targato Canale 5. Cultura moderna il titolo, in onda ogni giorno al posto di Striscia la notizia. In realtà non parliamo di qualcosa alla Enzo Biagi, alla Philippe Daverio, ma i presupposti, o per lo meno le speranze, ci sono tutte.
 È un programma nuovo sia per il pubblico sia per il conduttore, che per la prima volta si cala nei panni di un severo insegnante. Ogni giorno cinque concorrenti presenti in studio sono chiamati a rispondere a una serie di quesiti per cercare di indovinare il vip misterioso: in palio ci sono 500.000 euro.
Anche in questa nuova trasmissione non poteva certo mancare lo zampino del “terribile” Antonio Ricci, padre della satira televisiva, che torna dopo tanti anni a indossare le vesti di preside, ma questa volta per gioco. Le risate - accompagnate da un pizzico di cultura - sono assicurate, con la speranza che i critici televisivi incomincino a storcere meno il naso e imparino ad apprezzare quell'allegria e quella spensieratezza che rendono ogni programma di Mammucari uno spasso.
E intanto l'ex iena assicura: «Dopo 45 puntate divento intellettuale».
ELZEVIRO Sofonisba. Una vita per la pittura e la libertà di Antonella Lombardi

Per una donna è sempre stato difficile affermarsi nel campo professionale. Figuriamoci durante il Rinascimento, quando il destino e la vita delle donne venivano decisi da altri e la dote era spesso l’unica unità di misura del loro valore.
Eppure, Sofonisba Anguissola, pittrice cremonese nata nel 1531, fu una delle poche che riuscirono ad affermarsi grazie al proprio talento.
Di famiglia nobile, ma di scarse disponibilità economiche, Sofonisba riuscì a farsi apprezzare alle corti dei re.
Nel 1559, arrivata alla corte di Filippo II di Spagna, diventa dama della regina Isabella di Valois e poi ritrattista della famiglia reale fino alla sua morte, avvenuta a Palermo nel 1625.
Le sue competenze nel campo letterario e musicale la rendono protagonista della vita artistica del tempo, un riferimento culturale per pittori come Anton Van Dyck, che Sofonisba incontra a Palermo, alla corte del viceré di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia. E’ stimata da Rubens, Vasari e Caravaggio. Quest’ultimo, per il suo celebre dipinto Fanciullo morso da un ramarro, si ispirerà a un’opera dell’artista cremonese.
Sofonisba si afferma nella ritrattistica, continuando a dipingere, fino agli ultimi anni della sua vita, nonostante un forte calo della vista.
Alla sua morte, viene seppellita nella chiesa palermitana di San Giorgio, da lei stessa affrescata.
Sofonisba. Una vita per la pittura e la libertà di Millo Borghini, pubblicato da Spirali, è il libro che ripercorre adesso la vita e l’opera di questa artista cremonese, meno famosa di altre pittrici salite in seguito alla ribalta dell'arte, come Artemisia Gentileschi o Angelica Kaufmann.
Il testo, un saggio di valore scientifico, ha il tono piacevolmente narrativo, corredato di immagini dei dipinti dell’artista, e illustra così le tappe della vita affascinante di questa donna, unica rappresentante della pittura italiana rinascimentale al femminile, in un'epoca in cui le donne, salvo casi eccezionali, non erano riconosciute per la loro attività.
ELZEVIRO Roma: di scena il fumetto indipendente di Antonella Lombardi

Il fumetto indipendente italiano è rappresentato a Roma dalla mostra Varie umanità. La contemporaneità nel fumetto indipendente, dove gli autori Maurizio Ribichini, Davide Reviati e Stefano Misesti affrontano e commentano, in totale libertà grafica e narrativa, la contemporaneità, negli aspetti intimi e personali, così come in quelli sociali, se non apertamente politici.
Differenti tra loro per segno e per scelte narrative, i tre autori sono accomunati dal fatto che, nei loro fumetti, esplicitamente od implicitamente parlano del mondo contemporaneo, evidenziando in particolare “varie umanità”.
Maurizio Ribichini ha collaborato con le più importanti fanzine e testate dedicate a questo tipo di fumetto, tra cui: Schizzo, Accattone, Orme. Ha collaborato inoltre all’antologia Antonio Vivaldi, una biografia a fumetti a fianco di Sergio Toppi.
Davide Reviati è tra i fondatori del gruppo di artisti Vaca (Vari Cervelli Associati). Ha realizzato storyboard per film e spettacoli teatrali e pubblicato sue storie su varie riviste del settore.
Infine, Stefano Misesti, illustratore affascinato dal medium fumetto, ha collaborato con le più importanti testate di genere, tra cui Kerosene, Schizzo, Liberaria, Fagorgo.
La mostra è affiancata dalla rassegna di video di animazione CTRL+ALT+TOONS del gruppo www.inguine.net. Una realtà nata sul web e sviluppatasi anche in un quadrimestrale cartaceo, Inguine Mah!gazine, con il meglio del fumetto indipendente internazionale.
I video offrono una naturale cornice alla mostra, trattandosi di animazioni realizzate in larga misura da altri fumettisti della scena indipendente: Gianluca Costantini, Davide Ragona, Davide Saraceno, Manfred Regen, Minimalab, Paper Resistance, Squaz, Davide Catania, Blu, Ericailcane, Ale Staffa, Leonardo Guardagli.
La mostra, a cura di Emiliano Rabuiti per il Centro Fumetto Andrea Pazienza, è aperta fino al 27 luglio, a Roma, negli spazi della sala Santa Rita.
DONNE Makeba: il canto della Pace di Nicola Pistoia

Il Sudafrica e Miriam Makeba si fondono tra di loro per dare vita ad uno spettacolo unico al mondo, fatto di canti e speranze, di suoni ed emozioni, di melodie ancestrali e di sorrisi.
La piccola Miriam nacque nel 1932 a Johannesburg da una famiglia povera e straziata dalla politica dell’apartheid. La sua nascita, così come l’intera vita, sono legate al miracolo: una vita intervallata da brutalità e squarci di luce, che le hanno permesso di lottare ed andare avanti senza mai fermarsi e senza mai cedere alle ingiustizie.
Negli anni '50 il suo percorso cambia grazie all’incontro con Nelson Mandela, che in quel periodo stava organizzando l’African National Congress.
Da quel momento inizia per Miriam l'impegno nella politica, contrassegnato da insidie e contrasti, tanto da essere costretta ad abbandonare il proprio Paese nel 1960.
Quando Mandela nel 1990 viene arrestato, a Miriam sembra quasi di perdere un punto di riferimento. Ma, passato lo sgomento, continua la battaglia per la giustizia. La sua intera esistenza è stata caratterizzata dalla lotta estenuante contro il razzismo e a favore della pace. Un ideale che nel 1986 l’ha portata a vincere il premio per la pace Dag-Hammerskjöld.
Tutto questo seguendo la sua massima aspirazione: il canto.
Una musica che trasmette speranza. Un ritmo che come un solco segna tragicamente gli eventi terribili della vita e del popolo sudafricano, ma che guarda avanti nella convinzione di un futuro migliore.
La musica della Makeba è un vero canto di pace, a metà strada tra il rock e il rhythm and blues, insaporito dall’antica tradizione trobadorica africana. Suoni che l’hanno fatta apprezzare in tutto il mondo.
Una cosa è certa: non si può comprendere a fondo questo straordinario personaggio se prima non si è conosciuto il Sudafrica.
DONNE Simone la ribelle di Erica Savazzi

Quest’anno ricorrono i vent’anni dalla morte di Simone De Beauvoir, intellettuale che, durante una vita che ha attraversato tutto il ventesimo secolo, ha contribuito a modificare l’immagine della donna.
Simone nasce in una famiglia borghese parigina, molto tradizionalista: genitori credenti, famiglia numerosa, davanti a lei un buon matrimonio e una vita da casalinga. In realtà dimostra fin dall’adolescenza di essere una ribelle. Nel suo libro più famoso, Memorie di una ragazza per bene, racconta di aver perso la fede a quattordici anni.
Inizia così la sua rivolta contro le tradizioni. Decide di diventare una scrittrice, studia e si iscrive alla Scuola Normale Superiore. Lì incontra il ventitreenne Sartre, che mostra già le sue grandi doti. Studiano insieme per un concorso di filosofia: Sartre vince il primo premio e Simone il secondo. Alcuni affermano che in realtà Simone fu la migliore: il suo essere donna la relegò in seconda posizione.
Sartre e Simone non si lasciarono più. Tutti e due geniali, tutti e due scrittori e filosofi. Una coppia perfetta. In realtà il loro rapporto non fu semplice. Non si sposarono mai, decisero di essere una coppia aperta: ognuno con le proprie scappatelle. Un film andato in onda di recente in Francia racconta di amanti rubati l’uno all’altra, di giochi crudeli, di una De Beauvoir che non sposa l’uomo che ama per restare vicino a Sartre. Certo è che sono ricordati come la prima coppia moderna, non sancita ufficialmente dal vincolo matrimoniale.
La questione femminile ha sempre accompagnato la vita di Simone de Beauvoir, fin dal momento in cui, ragazza, decide di non voler diventare come sua madre, perfetta moglie e madre borghese. Il suo saggio Il secondo sesso, pubblicato nel 1949, fece scandalo. «Donna non si nasce ma si diventa», scriveva. Non si è donna per biologia, ma per cultura, una cultura che fa diventare deboli e succubi dell’uomo. Una anticipazione del femminismo, che la prese a modello e ispirazione.
Inizialmente estranea alla politica, dopo la Seconda Guerra Mondiale si ricrede, fino a teorizzare una letteratura impegnata. Contraria alla guerra d’Algeria, denuncia la pratica della tortura e invita i giovani a disertare il servizio militare. Durante il '68 sarà a fianco di studenti ed operai.
Se Sartre vinse il premio Nobel, lei conquistò il più prestigioso riconoscimento letterario francese, il Goncourt, nel 1954, col romanzo I mandarini. Nel 1981 Simone scrive la sua ultima opera, La cerimonia degli addii: narra gli ultimi dieci anni di vita dell’uomo cui fu vicina per tutto il tempo: Sartre, scrittore, filosofo e compagno. Nonostante tutto.
TELEGIORNALISTI Giordano: «Il mio tg è giovane e moderno» di Mario Basile

«La dote che deve assolutamente avere un direttore è la disponibilità a sobbarcarsi un sacco di rogne di cui non avrebbe nessuna voglia di occuparsi». Parola di Mario Giordano, quarant’anni, da sei direttore di Studio Aperto: il notiziario di Italia 1.
A chi gli domanda come abbia fatto ad arrivare così presto a quest’incarico risponde: «Bisognerebbe chiederlo a chi mi ha chiamato. Ero inviato al Giornale, ma lavoravo già in tv - avevo fatto Pinocchio con Gad Lerner ed ero stato al Tg1 - un pomeriggio mi è arrivata a sorpresa una telefonata. In poche ore la mia vita è cambiata».
Direttore a trentaquattro anni, non male per uno che ha ancora nitido il ricordo degli inizi. «Questa professione ce l’avevo in testa fin da bambino – prosegue Giordano – ho cominciato collaborando con quotidiani locali, piccoli pezzi di sport o sui problemi degli agricoltori. Poi come tutti, una collaborazione dopo l'altra, anni di abusivato, i primi contratti, eccetera…».
Anche se gli ascolti premiano il suo telegiornale, i critici non mancano. Questi ultimi puntano il dito sulla troppa attenzione ai reality, al gossip e alle notizie di meteo. I più cattivi dicono addirittura che Studio Aperto, in fondo, non è nemmeno un tg. La replica del direttore è secca: «I dati di ascolto confermano che sono molte di più le persone che apprezzano Studio Aperto. Tutte le critiche sono le benvenute, ma noi abbiamo inventato una formula nuova che piace e che avvicina al mondo dell'informazione chi altrimenti ne starebbe del tutto lontano».
Mario Giordano non va per il sottile neanche quando spiega il motivo per cui è costretto ad occuparsi della televisione che non gli piace. «Perché se uno fa il direttore di tg e non ama il calcio, che fa? Non si occupa delle partite della Nazionale? E allo stesso modo - continua - se uno fa il direttore di un tg e non ama il Grande Fratello, che fa? Non si occupa di un fenomeno sociale, di un evento che viene guardato da milioni di telespettatori? E perché? Per snobismo?».
Il direttore cita la Nazionale di calcio. Logico chiedergli un commento sullo scandalo che ha colpito il mondo del pallone in Italia. «Una banalità: penso che chi ha sbagliato debba pagare. Anche se, per caso, dovessimo vincere i mondiali. Quali provvedimenti deve prendere l’Ordine dei Giornalisti per i colleghi coinvolti? Non ho molta fiducia in questi provvedimenti - spiega - anzi, io sarei per l'abolizione di tutti gli Ordini».
E se forse il nostro calcio ha qualcosa da invidiare a quello estero, secondo Giordano non si può dire altrettanto dell’informazione. «Non vivo nel mito del giornalismo estero che spesso è molto peggio del nostro. Troppa faziosità nel giornalismo italiano? Più che altro ci sono troppe persone più vicine ai palazzi che al pubblico».
Faziosi o no, molti giornalisti italiani si stanno aprendo alla nuova frontiera dell’informazione: il web. Mario Giordano è uno di questi. Sono numerosi gli utenti che frequentano il suo blog. «Credo che siamo alla vigilia di una rivoluzione dell'informazione. E bisogna essere pronti a cogliere tutti i fermenti di novità. Alla base della rivoluzione ci sarà l'interattività».
Eppure per molti il giornalismo è ancora una professione poco innovativa, non aperta ai giovani e che necessita di maggiore flessibilità. «Per quanto ci riguarda siamo aperti, flessibili, giovani e moderni. Basta fare un salto nella nostra redazione per accorgersene».
OLIMPIA Intervista a Katia Serra di Mario Basile

Laureata in scienze motorie, consigliere federale della FIGC, collaboratrice di Walter Pettinati di Calciodonne e testimonial delle figurine Panini.
Ma soprattutto grande calciatrice. Tutto questo è Katia Serra. Una carriera iniziata vent’anni fa quando a Bologna decisero di puntare sul talento di quella ragazzina che, instancabile, correva su e giù per la fascia. Un talento confermatosi negli anni a seguire con svariati successi e presenze in Nazionale.
Telegiornaliste.com ha incontrato Katia Serra per parlare ancora di calcio femminile e dei suoi progetti futuri.
Avrà certamente seguito lo scandalo che ha colpito il calcio maschile. Un suo commento in merito.
«Come rappresentante del calcio femminile il mio commento è legato al fatto che sicuramente i valori e i presupposti sui quali si basa la nostra disciplina sono altri. Diciamo che in questo momento il calcio maschile ha poco di sport e molto di business e, come donna di sport, questa cosa mi fa soffrire, non mi piace. Vorrei che la nostra disciplina riuscisse ad acquisire più spazio e più dignità in funzione proprio di quei valori che la contraddistinguono»
Quindi si può dire che il calcio femminile rappresenti quel calcio “romantico” che il calcio maschile ha smesso col tempo di essere?
«Si, diciamo probabilmente il calcio maschile che c’era stato agli inizi. E quindi anche noi oggi giochiamo fondamentalmente per una grande passione, per un grande amore per il gioco della palla, indifferentemente da quelli che sono i risvolti o gli aspetti di contorno. Per cui la definizione che lei ha dato la trovo ottima: calza a pennello con la nostra situazione».
Con l’arrivo di Rossi in FIGC pensa che possa cambiare qualcosa in meglio per il calcio femminile? Sarà istituito un campionato professionistico anche per le donne?
«E’ ancora prematuro parlare di calcio professionistico nel femminile perché mancano i numeri. Quello che io mi auguro, e che si augura tutto il movimento, è la possibilità di fare un progetto di sviluppo che sia su basi pluriennali proprio per lanciare questa disciplina che da sempre si trova invece in una situazione di conflitto tra le esigenze della Nazionale, in quanto per essere atlete di Nazionale ci si deve organizzare in un certo modo, e l'attività dei club, che richiede un impegno minore e quindi viaggia anche dal punto di vista federale da un altro punto di vista: da una parte la FIGC, dall’altra la Lega Nazionale Dilettanti. Questo doppio canale crea delle difficoltà nella gestione e nella crescita della disciplina. Di certo sarebbe il momento propizio per farsi ascoltare e cercare di capire che sotto questo aspetto qualche cosa andrebbe cambiato per rendere più agevole l’attività del calcio femminile».
Perché il calcio femminile in Italia è meno seguito rispetto a quello di altri Paesi come Germania e Stati Uniti? C’è ancora una mentalità troppo chiusa?
«Quest’ultimo è un aspetto. Anche se bisogna dire che comunque è migliorata la situazione. Se mi avesse fatto questa domanda anni fa le avrei solo detto: “Si, il motivo è questo”. Oggi le dico che il motivo era questo, lo è ancora, però piano piano fortunatamente qualcosa sta cambiando in termini di mentalità. Ma tutti i cambiamenti richiedono tempi lunghi per poter avvenire in maniera stabile e duratura. Sicuramente questo è sempre stato il grande limite, ma come sta cambiando la mentalità del Paese nei confronti della condizione della donna lo si vede anche nello sport, in questo caso nel calcio femminile. Io vedo uno spiraglio, non ancora una porta aperta, ma sicuramente uno spiraglio».
Qualche anno fa lei ha dichiarato che il problema delle calciatrici era la tecnica, in quanto le ragazze si avvicinavano troppo tardi a questo sport. La situazione è migliorata col tempo?
«Sì, sotto questo aspetto decisamente sì. Infatti questa cosa era legata al fatto che non si faceva attività giovanile o se ne faceva veramente poca. Oggi, invece, ci sono più società organizzate in tale direzione e c’è anche più richiesta da parte delle ragazzine che, vedendolo magari in televisione o vedendolo praticare dai loro amici o fratelli, vogliono avvicinarsi e chiedono di poter giocare. Più la ragazzina inizia da piccolina a giocare, più l’aspetto tecnico ne guadagna perché alle spalle ci sono più anni di addestramento».
Parliamo della sua carriera. Dopo tredici anni di A1, a gennaio è tornata in B con il Cervia. Cosa l’ha spinta a prendere questa decisione?
«Fondamentalmente delle esigenze familiari: volevo avvicinarmi a casa. Poi in questa società ho trovato anche dei presupposti di mentalità di cercare di fare lo sport con dei canoni di professionalità e di serietà che non avevo riscontrato in altre società. Anche questo aspetto è stato una molla che mi ha spinto in questa direzione. Poi non le nascondo che ho già invece parlato con la società perché mi manca l’agonismo della A1. Un agonismo chiaramente superiore, è normale che sia così. Quindi cosa farò in estate onestamente non lo so, si vedrà tutto quanto poi, però di certo sono stata bene, mi sono trovata bene e auguro a questa società, indipendentemente da Katia Serra, di continuare a praticare il calcio con una certa mentalità e di crescere nel tempo. Ripeto indipendentemente da Katia Serra, eventualmente».
Una decisione che comunque le ha portato fortuna perché ha ritrovato anche la Nazionale.
«Sì e no. Nel senso che sì, l’ho ritrovata, poi però è stata anche un problema la categoria per continuare ad essere parte della Nazionale. Diciamo che sotto questo aspetto c’è grande differenza tra la serie A e la serie B. Di conseguenza il CT mi ha fatto capire che per rientrare nel giro azzurro bisognerebbe essere stabili in serie A, perché si tratta di due campionati differenti. L’ho ritrovata sono stata molto contenta in quanto per me è sempre un punto di riferimento importante far parte della Nazionale e indossare la maglia azzurra, però per poterci rimanere in pianta stabile vanno fatte scelte diverse. Per cui anche sotto questo profilo l’estate verrà affrontata con delle riflessioni a 360 gradi».
Quali sono quindi i progetti futuri di Katia Serra? Un ritorno in serie A1?
« Magari (ride, ndr)! Si, l’obiettivo è questo. Però sono anche consapevole che è un momento particolare che si ripercuote nel calcio dilettantistico e a maggior ragione nel calcio femminile. E’ un momento in cui anche l’economia italiana non aiuta certo gli sport minori a operare al meglio. Questo è l’obiettivo, ma non è detto che si possa concretizzare facilmente. Non sono più una ragazzina che pur di giocare è disponibile ad andare dappertutto, ovviamente, e ci sono anche delle altre esigenze che fanno meditare a fondo se una scelta è giusta o nel tempo potrebbe non rivelarsi quella che uno sperava».
EDITORIALE Rai: di tutto, di più di Antonella Lombardi

«Porcelle doc»: così sono state definite le aspiranti starlette pronte a tutto, pur di apparire in una trasmissione tv. Un appellativo filtrato dalle intercettazioni telefoniche pubblicate in seguito all’avvio dell’inchiesta che sta mostrando l’oscuro sottobosco della televisione pubblica.
Nulla di nuovo sotto il sole: lo scambio di favori ottenuti giocando la carta del sesso è pratica diffusa sin dai tempi di Cleopatra. Anche Luchino Visconti affrontò l’argomento, nel suo celebre film Bellissima, affidando ad Anna Magnani il ruolo di una madre ostinata e (quasi) senza scrupoli, pur di garantire alla propria figlia un luminoso avvenire sotto le luci della ribalta.
Una prassi che si sperava essere rara, in uso magari tra i livelli più bassi dello show business, ma che sta invece colpendo nomi e cariche illustri; un reato che porta il nome di concussione sessuale.
Gli anni delle battaglie per la liberazione della donna, contro la mercificazione del corpo e per la parità tra i sessi sembrano conquiste lontane.
A quanto pare, per fare carriera, la scorciatoia è sempre attuale e ben volentieri imboccata. Anche il Premier si è mostrato sgomento per la «strumentalizzazione e il disprezzo avuti nei confronti delle donne».
Quello che colpisce davvero è il vuoto in cui tutto è avvenuto: di idee, pudore, fiducia in se stesse.
In un articolo sul Corriere della Sera il critico televisivo Aldo Grasso confronta la «gestione Craxi della Rai, innovativa nei contenuti e coraggiosa nell’affrontare l’ibridazione dei generi», con l’ultima debole gestione Rai.
La Tv di stato, persa con l’arrivo dei tempi moderni l’originaria funzione pedagogica, non ha saputo rinnovarsi, ma ha preferito coltivare logiche di potere che hanno prevalso sulla sperimentazione e sulla creatività.
Oggi vanno di moda la donna e l’uomo senza qualità (che Musil ci perdoni!): il talento è un’attitudine che si coltiva con sacrificio e costanza, virtù sconosciute in questi tempi di reality, “tronisti” e qualunquismo.
Così, c’è chi difende la propria condotta invocando il mobbing e gli ostacoli incontrati.
Ma c’è anche chi vorrebbe continuare a pagare il canone per vedere una tv di qualità.
Una tv di servizio pubblico, e non da pubblici servizi.
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