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Telegiornaliste anno II N. 24 (56) del 19 giugno 2006


MONITOR Claudia Marchionni, innamorata della cronaca di Nicola Pistoia

Claudia Marchionni, vice caporedattore cronaca del Tg5, ci ha accolti con l’attenzione e la curiosità proprie del giornalista, e con rara gentilezza, negli studi Mediaset della capitale. Una donna che non ama apparire, capace di stupirsi alla nostra richiesta di una intervista: «Quando Nicola mi ha contattato, mi sono chiesta come faceste a conoscermi: evito sempre di stare sotto ai riflettori, sono io a raccontare storie e persone, non viceversa».
Fino a oggi.
Come nasce professionalmente Claudia Marchionni?
«Con una lettera al Resto del Carlino della mia provincia, Pesaro: Ho appena superato la maturità classica. Mi piacerebbe collaborare con voi. Il responsabile della redazione, Paolo Nonni, mi rispose subito. E così ho cominciato, a 19 anni, con le brevi di cronaca. Corrispondente da Morciola, il mio paesino, sì e no mille abitanti. Corrispondente da Morciola, fa sorridere, vero?».
Quali sono gli aspetti che più ti affascinano della tua professione?
«Ascoltare, leggere, incontrare. Le continue scoperte su quanto l'umanità è in grado di fare».
Come giudichi il tuo telegiornale rispetto agli altri nazionali?
«Il migliore! Sono sempre legata alla testata per cui lavoro, mi scusino gli altri».
Se ti chiedessero di lavorare per un altro telegiornale, e fossi costretta a decidere, quale sceglieresti?
«Non lascerei il Tg5 per un altro tg. Se proprio mi obbligate a immaginare un cambio, potrebbe essere per un programma di approfondimento o per il ritorno al mio primo e mai spento amore: la carta stampata».
Qual è, oggi, il ruolo delle donne nel giornalismo?
«In generale, non temere compiti di gestione, e interpretarli in modo diverso, se si vuole, con il proprio linguaggio».
Continuando a parlare di donne, chi delle tue colleghe, anche di altri tg, apprezzi maggiormente?
«Mi trovo benissimo a lavorare con le donne, non solo giornaliste, ma anche colleghe della produzione, della ricerca immagini, del montaggio, delle segreterie. Cerco di leggere tutto di Concita De Gregorio, Barbara Spinelli, Marina Terragni».
In genere è sempre difficile conciliare carriera e famiglia: quando si è giornaliste le cose si complicano: tu cosa ne pensi?
«Che è molto meno difficile di quanto si pensi, che molte cose sono complicate dalle parole. E' più semplice viverle, spesso, un passo dopo l'altro, senza essere troppo esigenti con se stesse, senza vergognarsi di chiedere aiuto. Poi le donne sono maestre di organizzazione, di incastri che un sudoku diabolico è niente al confronto».
Il sogno nel cassetto di Claudia Marchionni?
«Nel cassetto di una giornalista ci sono sogni di notizie, raccontate il meglio possibile, con rispetto ed efficacia».
Che consigli daresti a chi come te volesse intraprendere questa professione?
«Individuare e non lasciarsi sfuggire giornalisti di esperienza e generosi che facciano notare errori e ingenuità, che correggano, che diano consigli.
Cercare di coprire gli spazi, gli argomenti trascurati dagli altri e su quelli impegnarsi senza riserve, dare tutto se stessi, o se stesse».
CRONACA IN ROSA Costituzioniamoci di Erica Savazzi

Tra Mondiali, Iraq, manovra economica, il referendum costituzionale è passato in secondo piano. Nonostante la sua importanza.
È uno dei casi, infatti, in cui una riforma fatta male è molto peggio che una riforma non fatta. Tanto che il centrodestra, che ha approvato la riforma nella precedente legislatura a colpi di maggioranza, ha dichiarato che, se l’esito referendario sarà positivo, la riforma andrebbe a sua volte rivista e modificata. Come dire: approviamo qualcosa che poi sarà da cambiare.
Occorre chiarire che la devolution è solo una parte della riforma. A essere toccati non sono solo i poteri delle Regioni, ma l'intera architettura istituzionale ideata dai Costituenti in modo da garantire l’equilibrio tra i poteri dello Stato: il Capo dello Stato, ad esempio, perderebbe la sua funzione di garanzia, non potendo più decidere di sciogliere le Camere. Lo farebbe il Primo Ministro, a sua discrezione.
La riforma prevede la fine del bicameralismo perfetto: accanto a una Camera ci sarebbe un Senato Federale che non può dare o togliere la fiducia al governo. Si moltiplicherebbero le procedure di approvazione delle leggi e il premier verrebbe indicato dall’elettorato durante le votazioni.
La riforma vorrebbe aumentare l’autonomia regionale, ma il federalismo fiscale - che è quello per cui è nata la proposta federalista stessa - è rimandato a data da destinarsi. Le materie di competenza locale vengono specificate, ma il governo avrà il diritto di annullare i provvedimenti presi a questo livello in nome dell’interesse nazionale. Diminuirebbe l’età richiesta per essere eletti in Parlamento o alle cariche istituzionali.
Questi sono solo alcuni dei molteplici elementi in gioco. I Comitati per il e per il No nei loro siti internet approfondiscono la complessa questione.
Da sottolineare è che la riforma che sarà accettata o respinta alle urne il 25 e il 26 giugno riguarda tutta la Carta costituzionale: 50 articoli modificati su 134, e tre articoli aggiunti.
Non si tratta di un gioco. Non si tratta di regole modificabili con leggerezza. Sulla Costituzione si basano tutte le altre leggi dello Stato italiano. Modifiche tanto importanti, decise da pochi uomini in poco tempo, criticate da costituzionalisti e politici, che alla scrittura della Carta hanno partecipato, non possono essere fatte a cuor leggero.
FORMAT MEDIA & MINORI O luci o ombre di Serenella Medori

Ci sono almeno tre categorie di personaggi da televisione: chi ha già una carriera alle spalle; chi ha interrotto una carriera agli esordi; chi ha progettato una carriera. I più fortunati sono certamente primi: hanno già le giuste conoscenze, un'esperienza che garantisce una certa immunità dal totale oblio e sanno quali percorsi seguire.
Nessuno si stupisce più di tanto per le apparizioni e sparizioni di Baudo e Carrà. Per inciso, la Carrà, Carosello a parte, ha sempre avuto un ruolo di conduttrice in un programma o in Italia o in Spagna, mentre Baudo, conduttore di grande esperienza e di lunga data, fa ora pubblicità alle acque minerali o ai prodotti italiani Doc per il ministero delle Politiche Agricole, senza che questo intacchi minimamente il suo personaggio. È stato strano per chi, come la sottoscritta, è cresciuto con il "super conduttore super Pippo" vederlo bere e dire Comprate quest’acqua!.
Per la verità è stato un po' come il crollo di un mito. Esisteva evidentemente come un velo impercettibile che teneva lontani i professionisti della tv con la loro arte dagli spot che apparivano ridondanti e banali se paragonati a programmi di due ore con rubriche, interviste e servizi.
Chi ha interrotto una carriera per motivi vari si trova prima o poi a rivedere il proprio presente artistico con occhi nuovi, specialmente se, come Giorgio Mastrota, l’interruzione è avvenuta in un momento particolare della televisione. In quel momento in cui pagare dei personaggi televisivi solo per il loro contributo artistico al programma non era economicamente conveniente e comunque non era l’unica strada da percorrere.
A pagare, come dovrebbe essere ormai chiaro, è fin troppo spesso la pubblicità. Così se Dapporto, pagato dalla Durbans’, poteva sempre fare affidamento sulla sua carriera di attore e cabarettista, Mastrota, apparso in tv come presentatore, non poteva fare completo affidamento su alternative e si è probabilmente trovato, senza volerlo, di fronte all’affascinante possibilità di tornare alla tv ma come presentatore di televendite.
Se la televendita venisse trasformata in un vero e proprio programma tv forse Mastrota scoprirebbe un rinnovato ruolo televisivo. Si può diventare famosi grazie alla fortuna, grazie alle proprie capacità, grazie alla tenacia, alla politica, alle conoscenze, ma poi bisogna restare a galla.
(12-continua)
FORMAT Festivalbar 2006, e... state in musica! di Giuseppe Bosso

Anche quest’anno, puntuale all’alba dell’estate, ha avuto inizio la rassegna musicale che da più di quarant’anni richiama l’attenzione del pubblico nelle piazze e sul piccolo schermo, alla ricerca del tormentone che ci accompagnerà sulle spiagge e nelle serate all’aperto.
L’edizione 2006 del Festivalbar ha avuto inizio il primo giugno nel suggestivo scenario di piazza del Plebiscito a Napoli, e si concluderà, come l’anno scorso rigorosamente in diretta, agli inizi di settembre all’Arena di Verona.
Nemmeno questa edizione della popolare kermesse si farà mancare la cospicua partecipazione di big della canzone: dai grandi veterani nostrani - Gianna Nannini con la sua ormai lanciatissima Sei nell’anima; Luciano Ligabue con Le donne lo sanno; Carmen Consoli con Signor Tentenna - agli idoli dei teenager: Cesare Cremonini, Samuele Bersani, Zero Assoluto; fino agli immancabili ospiti stranieri, tra cui Sergio Mendes, Richard Ashcroft e Lee Ryan.
 Dopo la partenza partenopea, il Festivalbar fa scalo a Trieste e a Chieti, per poi giungere alle due serate finali nella città di Romeo e Giulietta. Come sempre, l'obiettivo della manifestazione, diretta da ormai dieci anni da Andrea Salvetti, che si è dimostrato all’altezza del compianto padre, è quella di individuare il motivo simbolo dei mesi torridi (oltre che, naturalmente, rimpinguare le casse dei discografici).
Condotto in passato da beniamini come Alessia Marcuzzi, Michelle Hunziker e Fiorello, il Festivalbar 2006 è presentato da un inedito trio formato da due bellezze mozzafiato e un simpatico mago. Direttamente dal palcoscenico di Sanremo, Ilary Blasi in Totti, che così torna a Mediaset dopo un biennio in Rai; con lei Cristina Chiabotto, dolce Miss Italia 2004 diventata per Italia1 graffiante Iena e sicuramente rivelazione della stagione televisiva agli sgoccioli.
Due bellezze nostrane lanciatissime nel dorato mondo dello show business chiamate ad alternare le esibizioni dei cantanti in gara per la gioia dei telespettatori. Nelle vesti di "guastatore", Michele Foresta, alias Mago Forest, reduce da Mai dire Grande Fratello: a lui il compito di "disturbare" le due conduttrici, magari coinvolgendole, loro malgrado, in qualcuno dei suoi famigerati - e non sempre azzeccati - numeri di magia: del resto, quale mago non vorrebbe due assistenti così?
ELZEVIRO Jim Lee: un grande del fumetto americano si racconta di Gisella Gallenca

«Disegno fumetti, ma sono andato al college», così si presenta Jim Lee, uno tra i fumettisti americani più conosciuti del mondo. «Ho una laurea in psicologia, ma volevo fare il mestiere che ho sempre amato. Così, quando avevo 21 anni, ho messo insieme un po’ dei miei lavori e sono andato a una convention a New York. Ho mostrato i miei disegni a un editor. Gli sono piaciuti e mi ha dato un lavoro nel campo dei fumetti».
Lo abbiamo incontrato nel backstage di Mantova Comics & Games, la prima edizione di un evento appena nato, ma già di successo (più di 10.000 visitatori in soli tre giorni). Jim ha risposto a tutti i nostri interrogativi con molta disponibilità. E con un tocco di humor.
Psicologia e fumetti. Sono due ambiti distanti… o no?
«Sì, però le cose studiate all’università hanno anche trovato un’applicazione nei fumetti. Quando conosci la psicologia, capisci le motivazioni, il linguaggio del corpo, le reazioni delle persone… è utile specialmente per quanto riguarda Batman, dove i cattivi sono spesso pazzi! Insomma, non penso che sia necessario essere psicologi per disegnare fumetti, però aiuta».
Tu sei coreano, hai vissuto negli Stati Uniti, ma ami molto l’Italia. Quali aspetti di queste tre culture si possono trovare nei tuoi fumetti?
«Ho vissuto in Corea solo per cinque anni. Ma sono americano al 90%. Mi piace il cibo, e quello coreano è il mio preferito… mi dà una carica, specialmente quando ho delle scadenze e devo lavorare duro! Fumettisticamente, però, sono influenzato soprattutto dall’America, perché disegno supereroi, personaggi che rispecchiano molto la mentalità americana: una sorta di cowboy coi superpoteri. Sono personaggi molto individualisti che sanno prendere in mano la situazione, e questo è molto americano. L’Italia, invece, mi piace perché i fumetti che produciamo non sono solo fatti per guadagnare soldi, ma per far divertire la gente. E gli italiani sono persone che amano divertirsi con gli altri e costruire relazioni sociali, e questo è importante».
Cosa pensi dei fumetti italiani?
«Tutte le volte che vengo qui, incontro nuovi artisti che lavorano per la Bonelli, quindi conosco sempre meglio questi personaggi. Ad ogni modo, penso che Milo Manara sia il primo fumettista europeo e italiano che ho scoperto, diciassette anni fa. Mentre ero a Siena in viaggio di nozze, ho comprato un suo fumetto in libreria. Mi è piaciuto, e diversi elementi del suo tratto hanno influenzato il mio lavoro. Anche Alessandro Barbucci è molto bravo. Poi Gabriele dell’Otto, Giuseppe Camuncoli… sono tutti fantastici! Il loro lavoro ha relazioni con i fumetti degli anni Sessanta, e, ancora più lontano, con i maestri della storia dell’arte. Nel lavoro degli artisti americani è difficile stabilire un legame, per esempio, con Michelangelo».
Com'è il tuo rapporto con i fan e quale è il disegno più strano che ti è capitato di regalare a uno di loro?
«Incontro i fan soprattutto alle convention che si tengono in tutto il mondo: Australia, Giappone, Italia… Non mi succede quasi mai di regalare disegni particolarmente strani, anche perché di solito mi chiedono sempre gli stessi soggetti. Ma qualche volta mi chiedono di ritrarre i personaggi insieme a loro o sulle loro macchine, e questo mi rende un po’ nervoso… Comunque i fan sono sempre grandi, indipendentemente dalla lingua che parlano».
DONNE Quote rosa tanzanesi di Erica Savazzi

Da gennaio di quest’anno sette donne sono ministri della Repubblica di Tanzania.
Una di loro, Asha-Rose Migiro, ha battuto anche un record: è la prima donna a presiedere gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale.
Donne sono anche i ministri di Finanze, Risorse naturali e Turismo, Educazione, Sviluppo, Allevamento e Giustizia.
In Tanzania esistono le quote rosa: le donne devono essere tra il 20 e il 30% dei parlamentari.
Questi sette ministri sono però privilegiati: se in politica le donne sono valutate positivamente – soprattutto dal presidente Jakaya Kikwete che ha voluto la loro nomina -, lo stesso non accade nella vita quotidiana.
La Tanzania è infatti un Paese a basso sviluppo economico, con problemi di debito pubblico e vastissimi deficit sanitari e scolastici. Ad esempio, l’aspettativa di vita arriva appena a 45 anni, e solo il 56% delle donne sa leggere e scrivere.
In Tanzania nascere donna è quasi una maledizione. Se la neonata è fortunata la madre sopravvive al parto: la percentuale di decessi di puerpere è tra le più alte al mondo. Se la madre muore e non ci sono parenti che vogliano o possano occuparsi di loro, i bambini sono affidati agli orfanotrofi. Secondo le statistiche il 16% dei nati non arriverà ai cinque anni di vita.
Attualmente quasi tutti i bambini hanno la possibilità di frequentare la scuola. Questo non vuol dire però che siano tutti uguali. I maschi, a causa dei retaggi di una cultura patriarcale, sono considerati migliori, e solo poche femmine riescono a proseguire gli studi fino alla scuola secondaria. Se una ragazza resta incinta è costretta ad abbandonare la scuola. Le violenze sulle giovani sono molto diffuse, anche da parte degli stessi insegnanti, perché non esiste sanzione sociale: subire violenze in Tanzania è normale.
Il 20% circa della popolazione femminile subisce mutilazioni sessuali, in alcune tribù si arriva fino al 100% di donne escisse. Alle donne sposate è richiesta assoluta fedeltà, mentre gli uomini sono abituati ad avere avventure extraconiugali. La promiscuità dei mariti spesso significa malattia: gli uomini si infettano col virus HIV e passano il “regalo” alle mogli. La mortalità per AIDS è molto diffusa soprattutto tra i 15 e i 45 anni: non a caso in Africa si parla spesso di “generazione fantasma” riferendosi ai giovani adulti.
In Tanzania sono le donne la parte produttiva della popolazione. Spetta a loro non solo curare casa, figli e marito, ma anche lavorare nei campi o gestire piccoli commerci per avere denaro sufficiente a vivere.
Le quote rosa sono l’ultimo dei loro problemi.
DONNE Jackie O', la regina americana di Tiziana Ambrosi

Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, molti cognomi per una vita sempre in prima fila.
Nata in una famiglia di origine francese dell'alta borghesia newyorkese, ha legato per sempre il suo nome alla famiglia Kennedy. Quasi una stirpe reale per la storia d'America.
Il matrimonio nel 1953 con John, la porta ad essere a fianco del marito nel suo ingresso in politica, che culminerà con l'elezione a Presidente nel 1960. Jack e Jackie, una coppia tanto luminosa e invidiata all'esterno, quanto piena di tradimenti ed incomprensioni all'interno. Solo molti anni dopo l'uccisione di John, quando il mito cominciava ad essere metabolizzato, furono confermate le voci degli infiniti tradimenti del Presidente. Moltissime le attrici, tra le altre Angie Dickinson, Jane Mansfield e Marylin Monroe con il suo indelebile e sensuale Happy birthday Mr. President.
Jackie aveva pensato persino al divorzio, ma fu convinta a rinunciare, anche con un lauto assegno, dal non proprio trasparente "capoclan" Joe Kennedy.
Indubbiamente Jackie fu la prima vera First Lady. La sua classe e la sua eleganza furono uno degli assi nella manica sia della campagna elettorale che della vita alla Casa Bianca. Non furono certamente anni facili, con il mondo che si ritrovò ad un passo dalla guerra atomica con la crisi dei missili di Cuba, la Baia dei Porci, il muro di Berlino, il Vietnam.
Il 22 novembre 1963 il sogno americano si infrange: il Presidente Kennedy, in lotta con la mafia, a favore dell'integrazione sociale, dubbioso sulla guerra viene ucciso a Dallas, Texas.
Nella storia rimangono fissati i fotogrammi della cinepresa di Abraham Zapruder, dal momento in cui Kennedy viene colpito a quando Jackie si precipita sul bagagliaio dell'auto scoperta per recuperare i frammenti del cranio del marito esploso da una pallottola.
Con il vestito rosa macchiato di sangue e il volto sconvolto affianca sull'aereo il vicepresidente Lyndon Johnson mentre presta giuramento.
Un'intera nazione la abbraccia ai funerali di Stato, si commuove al saluto militare del piccolo John John al passaggio della bara del padre e rimane sconvolta quando lei decide di sposare l'armatore greco Aristotele Onassis, molto ricco e molto più anziano di lei.
Viene ribattezzata Jackie O', ma il matrimonio non è felice e si conclude con la morte di Onassis nel 1975.
Gli ultimi anni della sua vita, Jackie O' li ha passati nell'ombra, in un appartamento sulla Quinta Strada di Manhattan. Dopo le numerose tragedie vissute, gli aborti spontanei, la morte di John e di suo fratello Robert, viene colpita da un linfoma. Si spegne nel maggio del 1994, cinque anni prima della morte del figlio John John in un incidente aereo.
Jackie, l'unica vera regina dell'unica stirpe "reale" americana. E il mito continua.
TELEGIORNALISTI Roberto Olla di Nicola Pistoia

Come nasce professionalmente Roberto Olla?
«Quel che mi ha messo in moto è stata la passione per la cronaca. Seguo da sempre due vecchie regole. La prima regola dice: alla gente interessa la gente. Tra quella gente mi ci metto anch’io.
Mi interessa molto quel che accade alla gente e so che devo interessare, con il mio racconto, la gente che mi segue in televisione. Immagino che questa domanda non si riferisca al mio curriculum, con dati tipo laurea in filosofia, eccetera...
Aver studiato regia, aver fatto regie (anche teatrali), aver diretto attori, è stato molto importante per me e lo ritengo centrale nella mia formazione. Sono, comunque, nato in Rai. La parte noiosa di questa mia risposta dice che ho vinto un concorso come programmista - regista, ma la Rai (che non era più, ormai, “mamma-rai”), anche se scrivevo per la carta stampata, per i quotidiani sardi, anche se svolgevo prevalentemente lavoro giornalistico, non mi riconosceva il contratto giornalistico (come a tanti altri miei colleghi, peraltro, costretti a estenuanti periodi di precariato o di contratti con mansioni e retribuzione inferiori). Poi, finalmente, la Rai ha riconosciuto il contratto giornalistico ad alcuni del mio concorso. Io sono rimasto fuori dagli elenchi dei prescelti e ho dovuto fare una lunga battaglia personale - ci sono voluti più di dieci anni, e molta, molta pazienza».
E la tua passione per la storia?
«Tutti i giornalisti hanno passione per la storia. È implicito, anche se non si dice. Fa parte del mestiere, dell’essere giornalisti: Montanelli insegna, Biagi insegna. Diverso è poi dedicare la propria attività professionale alla produzione storica, a documentari, inchieste e servizi di storia. È qualcosa che si è sviluppato progressivamente. Ho cominciato con un documentario di storia. Poi me ne hanno chiesto un altro. Poi ne ho proposto uno io. Finché si è arrivati alla situazione attuale in cui praticamente non mi bastano i giorni per tutto ciò che dovrebbe essere prodotto su temi storici. Richieste, stimoli, spunti, aumentano e se solo potessimo fare il Tg1 Storia giornaliero...!
Ma faccio una tenace battaglia dentro di me per continuare a realizzare qualche servizio o qualche inchiesta di cronaca. In genere la perdo questa battaglia, ma ogni tanto qualcosa mi riesce di farla. Comunque, diciamo che la passione per la produzione di storia in televisione mi è nata dalla ricerca. Trovo affascinante la ricerca di documenti audiovisivi (ci sono più di 2.200 archivi audiovisivi degni di questo nome nel mondo! Una pacchia per i ricercatori!). Mi entusiasmo quando scopro qualcosa. É stata forte l’emozione di aver trovato per primo i filmati a colori del lager di Buchenwald (quel giorno ero assieme a Sergio Valzania, compagno di diverse avventure di ricerca). Quando ci sono comparse le immagini davanti, nella sala buia, il piccolo sfarfallante schermo della moviola ci ha come paralizzato. Non riuscivamo a parlare tra di noi. Ci siamo fermati per bere un bidone di orrendo ustionante caffè nero americano. La ricerca mi esalta: si ha la sensazione di poter un giorno vedere tutta la storia. Chi l’avrebbe detto che avremmo visto (e a colori) la suocera di Hitler tessere le sue trame al nido dell’aquila! Lei sperava in un matrimonio molto prima, ma comunque, in effetti, per poche ore, Franziska Braun, madre di Eva, fu suocera di Hitler.
Mi fa piacere vedere che ora questa passione per il documento audiovisivo si sta diffondendo, vedere che a Valmontone proiettano in piazza i filmati del passaggio del fronte nella loro città, che folle di ragazzi si siedono a vedere i filmati integrali delle atomiche».
Cosa sarebbe diventato Roberto Olla se non avesse fatto il giornalista?
«Quanto mi piace rispondere a questa domanda! Vorrei poter dire che avrei fatto il cuoco. Cucinare è il mio hobby. Devo sottolineare che in genere i miei ospiti non si lamentano delle mie proposte. Poiché amo anche la cucina giapponese, mi sono fatto spedire dal Giappone i coltelli adatti per il taglio del pesce. È quasi un’esperienza mistica. Non puoi pensare ad altro perché sono lame così affilate e tagliano con tale semplicità che se ti distrai un attimo rischi di farti molto male. Sì, mi piacerebbe poter rispondere così. Ma non so se ne avrei avuto il coraggio. La vita del cuoco è sacrificata alla cucina quasi completamente. Almeno...quella dei cuochi bravi. Forse avrei fatto il professore, o sarei in qualche ufficio regionale (dato che avevo vinto da neolaureato anche un concorso alla regione). Ma sono certo che, cuoco o professore o funzionario, avrei scritto e descritto, avrei raccontato e ricercato... e alla fine forse sarei finito di nuovo a fare il ...giornalista».
Ti senti di fare un confronto tra il giornalismo di venti anni fa e quello di oggi?
«Francamente non vedo grandi differenze. Era difficile ed è difficile. C’erano ingerenze politiche e ci sono ancora. Era duro cominciare il mestiere e lo è sempre. Ma facciamo assieme un ragionamento. C’è stato un notevole sviluppo tecnologico: venti anni fa qualcuno usciva ancora con la Arriflex e bisognava attendere lo sviluppo della pellicola, oggi si esce con la telecamera Beta o la digitale. Ma dal punto di vista dell’interferenza delle attrezzature sul lavoro giornalistico, non ci sono stati cambiamenti sostanziali. Solo da poco stiamo cominciando a vedere in azione mezzi tecnici così leggeri che possono non interferire con la situazione in cui si agisce, con l’evento da riprendere, con l’emozione della persona da intervistare. Ma le loro potenzialità vengono svilite, purtroppo, dalle teorie produttive che ci si fanno sopra. Mi riferisco a chi immagina che questi mezzi “leggeri” vengano usati non per migliorare il lavoro ma per risparmiare sul lavoro, ipotizzando una sorta di giornalista da “one man show”, che se la suona, se la canta e se la balla. Riprende con la cinepresa, mette i microfoni, controlla l’illuminazione naturale o artificiale che sia, scrive i testi e se li legge, fa le domande, risolve i problemi pratici tipo guidare la macchina, ottenere i permessi, far firmare eventuali liberatorie, pagare tasse e visti, si appunta nomi di persone, di luoghi e di strade, telefona a sindaci o poliziotti, torna in redazione, ricerca le immagini che servono per il pezzo dagli archivi e si monta da solo il tutto, magari scegliendosi una musica adatta, se necessario. No, grazie. Il cineoperatore è un mestiere preciso ed è un grande mestiere. Il montatore è un altro ben preciso mestiere e altrettanto grande. Il producer è una figura fondamentale in ogni tipo di produzione, dai reportage di guerra ai documentari di storia. L’offerta di mezzi leggeri, quasi invisibili, che la tecnologia ci sta iniziando a presentare, non serve a risparmiare sul costo del lavoro di un’azienda. Serve (servirebbe) a risolvere finalmente il problema dell’interferenza facendo evolvere il linguaggio filmico di news ed inchieste.
Usare queste nuove possibilità solo per risparmiare significa impoverire il linguaggio delle news televisive, fino a metterne a rischio la vita stessa. Piccole emittenti di realtà locali, o piccole emittenti tematiche, possono anche tentare di seguire questa strada del giornalista tutto fare, proprio perché operano in una realtà ristretta. Credo meno alle possibilità di effettuare inchieste con queste modalità produttive per le grandi reti. Mi chiedo: sindacalmente il lavoro di chi opera così come verrà tutelato? Si applicheranno contratti di lavoro e leggi vigenti? Che possibilità di sviluppo, di crescita professionale avrà chi opera con questo sistema? Sarà giustamente retribuito o sarà strangolato dal teorema del massimo risparmio? Come potrà andare avanti se non riceverà contributi da altre professionalità come il cineoperatore e il montatore? Non si correrà il rischio di creare emarginati che potranno fare solo quel mestiere e che non sapranno mai rapportarsi ad un montatore o ad un operatore o, perché no, in lavori importanti anche ad un produttore?
Ecco, posso solo intravedere le differenze tra il giornalismo televisivo di venti anni fa e quello che qualcuno oggi comincia a ipotizzare per i prossimi anni».
Come ci si sente a lavorare in un tg importante come il tuo? È una bella responsabilità?
«Sì, è una bella responsabilità. Il Tg1 ti dà molto, moltissimo. È un valore aggiunto su ogni tuo lavoro. Il Tg1 si porta appresso una delle più grandi tradizioni televisive e delle più costanti fedeltà d’ascolto del mondo e ogni volta le regala al tuo pezzo. Bisogna rispettarle (tradizione e fedeltà) dando molto ad ogni servizio, ad ogni speciale, ad ogni inchiesta. Quel valore aggiunto che il Tg1 ti dà ogni volta è il frutto del lavoro decennale di tanti e tanti colleghi prima di te: se non lo disperdi, se lo onori, sul piano professionale ne avrai grandi vantaggi. Però devi anche tu fare la tua parte, anche tu devi dare, devi lasciare qualcosa che accresca il valore aggiunto del Tg1. Non puoi solo prendere. Sarebbe un furto. Certo, dal punto di vista della fatica... si finisce per lavorare moltissimo! E con la tensione a mille!».
Chi tra i tuoi colleghi, anche di altri tg, apprezzi di più?
«Domanda piacevolmente perfida. All’inizio della professione i più giovani osservano il lavoro dei colleghi più anziani, ma presto si accorgono sulla loro pelle di una delle deformazioni professionali più diffuse: prima o poi ogni giornalista finisce per credersi il migliore. Alcuni, inoltre, sono convinti di aver fatto la scuola serale per essere dio.
Andiamo oltre lo scherzo, ora. Se mi guardo attorno non posso che apprezzare (e guardare con piacere) il lavoro di corrispondenti come Claudio Pagliara e Antonio Caprarica, vedo quanta fatica c’è dietro la “leggerezza” (nel senso adoperato da Calvino del termine) dei servizi di Vincenzo Mollica (lo incrocio spesso, “il presidente”, sorridente, carico di cassette negli anditi come me, come incrocio, sempre stracariche di cassette, Manuela Lucchini, riflessiva, Carlotta Mannu, spumeggiante). Vedo quanto deve essere “presente” Fabio Zavattaro per fare il vaticanista come lo fa lui. Ammiro la voglia di partire per conoscere e far conoscere, ogni volta come la prima volta, di Pino Scaccia, di Tiziana Ferrario.
Fuori dal mio telegiornale mi piace come Maria De Medici conduce il Tg3, ammiro la passione per tutto il patrimonio artistico dei servizi di Fernando Ferrigno sempre sul Tg3, trovo impeccabile la radio di Aldo Forbice. So quanta forza di volontà c’è nelle colleghe che lavorano a Uno Mattina, nella redazione cronaca... quante pagine ho ancora?
Ora che mi ci hai fatto pensare, in realtà sono tanti i colleghi e le colleghe che apprezzo... sarebbe bene porsi questa domanda (anche da soli, nell’intimità) più spesso!».
Chi sono stati, se ne ha avuti, i suoi maestri?
«Ho avuto la fortuna di poter osservare dietro le quinte il lavoro di Beniamino Placido quando faceva televisione e ho avuto il tempo di poter assorbire tutto il possibile. Piero Melograni è per me un maestro nella ricerca storica (anche lui con una particolare passione per il documento audiovisivo). Giuseppe Carlo Marino mi ha insegnato a mettere assieme anche cocci di documenti e parti di informazioni per tracciare un quadro complessivo (fondamentale nell’analisi del fenomeno storico mafia). Ho avuto la fortuna di osservare (e lavorare con) Lio Beghin mentre scriveva scena per scena prime serate anche di tre ore. È stata una fortuna osservare (e lavorare per) Angelo Guglielmi e il suo metodo di direzione. Ho passato e ripassato le sequenze di Piero Angela per cercare di capire il suo metodo nel parlare ai telespettatori. Un saggio pescatore di corallo, chiamato da tutti Geppetto, che viveva nel Sinis, sul Capu Mannu, nel punto più ad ovest della Sardegna, mi ha insegnato a staccarmi da tutto ciò e mi ha sempre ricordato di osservare la vita senza portarmi sempre appresso il filtro dell’elettrodomestico televisore. Così, la vita anche solo per godersela, nel bene e nel male».
Radio, tv e carta stampata: un aggettivo per ognuno di questi mezzi di comunicazione
«La radio, divertente. La tv, abbagliante. La carta stampata, indispensabile».
Un consiglio a tutti coloro che vorrebbero intraprendere questa carriera?
«Impossibile dare consigli. È diventato davvero troppo duro intraprendere questa carriera. Posso dire di stare molto attenti ai bagliori della tv. Non si può scegliere, decidere, in base a quelli. La realtà è che ogni giorno bisogna produrre un pezzo. A volte bisogna cucinarlo per tre, quattro, cinque, anche otto versioni diverse, con i nuovi aggiornamenti, per le successive edizioni. E il giorno dopo si ricomincia. Certo ogni tanto capitano i bagliori e magari anche qualche piccolo scoop. Ma se ci si ammala di scoop è già finita! Allora il quotidiano del lavoro di giornalista finisce col diventare insopportabile e voi per primi che avete preso la professione dal lato sbagliato finite per diventare insopportabili. Ecco, mi son fatto prendere la mano. Non è possibile dare consigli. Anche perché, nel caso, sarebbero troppi. Posso però ricordare anche la seconda regola (finora ho comunicato solo la prima, alla gente interessa la gente). Ma anche la seconda, se ci si riflette bene sopra, potrà essere utile: il pubblico è sanguinario».
OLIMPIA Intervista doppia: Scamperle - Spillare di Mario Basile

Pianeta Donna Sport, in onda ogni venerdì alle 20.30 su Punto Sat (Sky, canale 866), è il primo talk show del calcio femminile. Questa settimana Telegiornaliste ha incontrato le due conduttrici, Stefania Scamperle e Silvia Spillare.
Siete conduttrici e inviate della trasmissione Pianeta Donna Sport. Quale dei due ruoli preferite?
Stefania - «Senza dubbio l'inviata. Probabilmente per una questione di carattere, amo molto di più l'azione, la ricerca, il “giornalismo d'assalto”, mettere in risalto la notizia, le persone, più che me stessa».
Silvia - «La conduzione è più vicina al mio carattere, ma ammetto che fare l’inviata è più emozionante».
Il programma parla solo di calcio femminile. E’ una scelta dettata dal fatto che il nostro è un Paese “calciocentrista”? In futuro ci sarà spazio anche per gli altri sport in rosa?
Stefania - «Abbiamo fatto una scelta coraggiosa. Il calcio maschile è lo sport più visto, che riscuote maggior interesse, di pubblico, di sponsor, ma che si sta progressivamente allontanando dalla sua connotazione “sportiva”. Il calcio femminile rimane un mondo inesplorato, che ha bisogno di visibilità per poter vivere e che merita attenzione. Da qui è partita la sfida: dimostrare come uno sport ritenuto prettamente maschile si addica anche al mondo femminile. E non è detto che non si possa allargare a tutta una serie di sport in rosa, magari tra qualche anno però, visto l’impegno che richiede».
Silvia - «La trasmissione è nata per dare spazio alla figura femminile nello sport, ma si è focalizzata sul calcio femminile quasi naturalmente».
Secondo voi, per quale ragione poche persone seguono il calcio femminile? Troppi pregiudizi verso questa disciplina?
Stefania - «L’idea che mi sono fatta, dopo questi mesi a contatto con le persone che questo mondo lo vivono quotidianamente, è che sia un problema culturale. Per esempio negli USA il calcio è considerato uno sport femminile, e di conseguenza viene seguito più di quello maschile. Poi ovviamente c’è il discorso sponsorizzazioni, ma qui entriamo in altri campi».
Silvia - «Il calcio femminile è poco seguito perché manca una cultura in tal senso, e noi fin dall’inizio ci siamo impegnati per “educare” questo pensiero maschilista».
Spostiamo il discorso più in generale: come vi spiegate il fatto che lo sport femminile è in generale meno seguito di quello maschile, indipendentemente dalla disciplina?
Stefania - «Pregiudizio. Non si riesce ad entrare nell’ottica che una donna ha una sua identità e si approccia allo sport in maniera diversa dall’uomo: con meno forza fisica, forse con più costanza e sicuramente dove l’emotività gioca un forte ruolo. Lo sbaglio più grande dello spettatore è voler paragonare lo sport maschile e quello femminile. Sono due realtà diverse. Entrambe belle, ma diverse».
Silvia - «Devo ripetermi, rispondendo che è una questione di mentalità maschilista che va davvero cambiata».
Seguite anche altri sport o solo il calcio?
Stefania - «Amo molto seguire l’atletica. Mi piace l’idea dell’atleta che lavora molto su se stesso per superarsi continuamente».
Silvia - «Mi interessano anche la pallavolo, il nuoto e il pattinaggio artistico».
C’è qualche vostra collega che apprezzate maggiormente?
Stefania - «Sicuramente tra le mie preferite ci sono: Cristina Parodi e Ilaria D’Amico. Le ammiro per la grande professionalità, classe e modestia che le contraddistingue».
Silvia - «Sinceramente non ho un modello a cui mi ispiro, ma stimo Cristina Parodi perché riesce ad essere professionale e semplice».
Professionalmente parlando, c’è un sogno, un progetto che intendete realizzare in futuro?
Stefania - «Il più grande sogno sarebbe quello di riuscire ad unire le due attività che adesso sto portando avanti in maniera separata: il giornalismo e l’architettura».
Silvia - «Il mio sogno più grande lo sto realizzando: a luglio mi laureerò in giurisprudenza. Mi piacerebbe svolgere la professione di avvocato con successo, ma so che non è una strada in discesa».
EDITORIALE Il grande assente di Antonella Lombardi

«Chi fa impresa al Sud è un eroe»: l'ha detto il presidente di Confindustria, Montezemolo. E di eroi involontari, solitari, caparbi, martiri, è piena la storia del Meridione. Puntualmente rimpianti dallo Stato quando è ormai troppo tardi; ignorati, quando il loro grido di allarme cerca di scuotere, inutilmente, l’immobilità circostante e quando certi silenzi sono più eloquenti delle parole.
Per anni l’imprenditore del tonno Filippo Callipo, presidente della Confindustria calabrese, si è battuto contro il silenzio e la solitudine dell’eroe, denunciando il racket e le difficoltà di fare impresa al Sud. Ha invocato l’esercito per contrastare la malavita, ha scritto all’ex presidente della Repubblica Ciampi, ha chiesto, sconsolato, all’allora ministro degli Interni Pisanu, cosa rispondere al proprio figlio che vorrebbe fare, da grande, l’imprenditore al Sud.
Si è indignato per l’omicidio di Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria.
Ma, dice Callipo, a parte «qualche latitante arrestato e un po’ di pulizia fatta qua e là, non vedo grandi mutamenti in Calabria. Basta, non ce la faccio più, se continuo a denunciare quello che gli altri non vogliono mai denunciare finirà che mi prenderanno per pazzo».
E’ frustrante constatare tanta amarezza e solitudine in una storia di successo, fatta di conquiste e genuino ingegno. Nel difendere l’idea vincente della propria azienda, fino a poco tempo fa Callipo diceva ai giornalisti: «La capacità di fare gruppo è una diretta conseguenza del nostro legame con il territorio. E poi vuole mettere la soddisfazione che c’è a fare impresa al Sud?».
Oggi questa soddisfazione si scontra con la realtà della cronaca, con l’ultima, barbara, esecuzione di un agricoltore che aveva denunciato i propri estorsori.
Segnali che si scontrano con il silenzio imbarazzante dello Stato.
Non è necessario scomodare annosi dibattiti sulla questione meridionale e sulla più recente “questione settentrionale”. La criminalità è un’emergenza nazionale che, da anni, grazie a un silenzio sovente colpevole e ingombrante, sta uccidendo le risorse di un intero Paese.
Se un'impresa che ha successo è costretta a chiudere perché ostacolata dalla malavita, allora non ci sarà possibilità di riscatto per nessuno, mentre la disoccupazione continuerà a fornire humus alla criminalità. Lo Stato, grande assente, lo sa. Ma a volte, è più comodo lasciare che agiscano gli eroi involontari di tutti i giorni.
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