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Telegiornaliste anno II N. 17 (49) del 1 maggio 2006


MONITOR Piergallini, una giornalista che cresce di Filippo Bisleri

Roberta Piergallini è, dal 2006, una delle brillanti redattrici del Maurizio Costanzo show. Marchigiana, sta pian piano costruendo, con sagacia e competenza, la sua carriera professionale. L’abbiamo incontrata per farle alcune domande per le lettrici e i lettori di Telegiornaliste.
Roberta, come hai scelto di fare la giornalista?
«Fin da piccola, almeno inconsciamente, ho saputo che avrei svolto questo mestiere. Alle elementari già mi occupavo del giornalino della scuola, ma la mia prima e vera esperienza professionale nel settore giornalistico  è stata nel 1998, anno in cui ho iniziato a collaborare con un’emittente televisiva della mia regione. L’impatto è stato senza dubbio forte, tutte le mattine, alle 7.30 in diretta, conducevo la rassegna stampa, leggendo tutti i titoli dei principali quotidiani locali e nazionali. Fin dai primi tempi, ho capito che quella doveva essere la mia professione, malgrado la levataccia mattutina, ero molto stimolata da ciò che svolgevo. Molti telespettatori, che mi seguivano, spesso mi fermavano per strada, dicendo che per loro era un vero piacere svegliarsi al mattino, accendere la tv e vedere me che li informavo sui fatti del giorno. È stata una bella gavetta, per certi versi gratificante, che ricordo con un pizzico di nostalgia».
Cosa ti piace di più della professione giornalistica?
«Il bello di questa professione sta nel conoscere sempre gente nuova e situazioni di ogni tipo. Credo di essere una persona molto curiosa e questo mestiere viene a soddisfare ogni mia esigenza in tal senso. Se a un giornalista dovesse venire a mancare la curiosità, credo dovrebbe smettere immediatamente di fare questo mestiere».
Cosa significa lavorare con Maurizio Costanzo?
«Lavorare con Maurizio Costanzo, mostro sacro della televisione e del giornalismo italiano, è un privilegio che non capita a molti. Devo ritenermi fortunata di essere stata scelta da lui personalmente per lavorare in una trasmissione storica quale il Maurizio Costanzo show, che dallo scorso settembre è sul digitale terrestre Mediaset. Costanzo è l’emblema della professionalità unita a grande intuizione ed umanità. Sto cercando di apprendere il più possibile da lui».
Hai una preferenza per il giornalismo televisivo o ti piacciono anche altri media come la carta stampata o la radio?
«Ho avuto varie esperienze per la carta stampata, collaborando con Il Resto del Carlino e Il Messaggero (redazioni ascolane), nonché con il periodico Il Piceno, ma credo che il giornalismo televisivo mi si addica maggiormente, sia perché sono ormai da diversi anni in questo settore, sia per un riscontro positivo che ho sempre ricevuto dai telespettatori. Anche se sei consapevole di fare bene il tuo lavoro è sempre bello scoprire di riscuotere il consenso del pubblico (o almeno di buona parte di questo).
Riguardo le emittenti radiofoniche, agli inizi della mia carriera ho avuto alcune esperienze, devo ammettere che non mi dispiacerebbe approfondirne la conoscenza dal punto di vista professionale. Se dovesse capitare, perché no».
Nella tua esperienza professionale hai un servizio, un personaggio o un'intervista che più ricordi?
«Il servizio che ricordo con maggiore emozione è senza dubbio quello svolto, per TeleAdriatica 7Gold, nell’aprile 2005 a Roma, in occasione dei funerali del Santo Padre. Ho avuto modo di intervistare molti pellegrini, venuti da tutte le parti del mondo e disposti a fare otto, nove ore di fila sotto al sole, per porgere l’estremo saluto a Giovanni Paolo II.
Mi trovavo in una situazione surreale, non ho mai visto piazza San Pietro così affollata: presenti tutte le televisioni del mondo, migliaia di pellegrini giungevano da via della Conciliazione e dalle vie laterali. È stato sicuramente l’evento mediatico più importante del 2005.
Ricorderò sempre lo sguardo di una giovane donna, che ho intervistato, profondamente commossa. Del resto Giovanni Paolo II è stato un grandissimo uomo di pace e di amore e tutti i suoi fedeli non potevano mancare».
Puoi raccontarci un episodio curioso della tua vita professionale?
«Di episodi curiosi ne sono accaduti diversi, passando ad argomenti più leggeri, ricordo con un sorriso un’intervista fatta agli inizi della mia carriera, nel backstage del Festivalbar ’99, a Gary Barlow, ex leader dei Take That. Fuori vi erano migliaia di ragazzine che lo acclamavano, al termine dell’intervista il cantante mi ha fatto alcuni complimenti (ovviamente in inglese) e chiesto il numero di telefono. Poiché avevo cambiato numero di cellulare da poco, ma anche per l’emozione, gli ho risposto che non lo ricordavo. Gary ha avuto un’espressione molto sorpresa sul viso, quindi mi ha salutato, avvicinandosi per darmi un bacio sulla guancia, ma io mi sono spostata e gli ho dato freddamente la mano. Avrà pensato che fossi un po’ strana. Eppure lo stimavo e lo stimo tuttora come artista, oltre a reputarlo un ragazzo di bella presenza, tuttavia in quell’occasione, senza volerlo, sono stata con lui un po’ troppo distaccata e professionale. Pazienza, ancora se quando ci ripenso mi viene da sorridere».
Chi sono stati i tuoi maestri di giornalismo? Costanzo che hai definito un mostro sacro o anche altri?
«Non ho avuto un vero e proprio “maestro di giornalismo”. Durante le mie esperienze giornalistiche presso emittenti televisive regionali ed anche in Rai vi sono stati vari caporedattori che mi hanno dato consigli per migliorare e crescere professionalmente, ma la pratica sul campo credo sia stata fondamentale: più che nella conduzione, fare l’inviata per il telegiornale è stato molto formativo, bisogna essere sempre molto intuitivi, reattivi e veloci, altrimenti la notizia ti sfugge, spesso la soddisfazione del giornalista sta nell’essere arrivato prima di altri colleghi a trattare determinati argomenti. Attualmente il mio punto di riferimento e “maestro di giornalismo” è senza dubbio Maurizio Costanzo».
Tra colleghi e colleghe chi apprezzi di più?
«Durante la mia esperienza in Rai, a Saxa Rubra, ho avuto modo di conoscere Francesco Giorgino, che ho anche intervistato per il periodico Il Piceno: devo dire che oltre ad essere un valido professionista è una persona estremamente piacevole e gentile, devo ringraziarlo per gli utili consigli che mi ha dato per la mia tesi di laurea I diritti della personalità nel diritto internazionale privato (anche lui a suo tempo si è laureato in Giurisprudenza e con il massimo dei voti). Apprezzo anche Emilio Carelli, direttore di SkyTg24, intervistato da me sempre per Il Piceno. Tra le colleghe stimo molto Cristina Parodi, per la dolcezza e sensibilità nel porgere la notizia, e Monica Vanali, per la sua grande preparazione nel giornalismo sportivo».
Ritieni conciliabili i ruoli di mamma e giornalista?
«Credo che i ruoli di mamma e giornalista siano conciliabili, basta solo volerlo e sapersi organizzare. La donna in carriera è, almeno nella maggioranza dei casi, una donna gratificata e senza dubbio avrà un comportamento più tollerante e dolce nei confronti dei figli, rispetto ad una donna frustrata e costretta a fare la casalinga a vita. Con molto impegno si deve cercare di essere delle valide professioniste ma anche delle valide mamme, compito non semplicissimo, ma (in questo ragionamento sono molto femminista) noi donne abbiamo una marcia in più e possiamo farcela. Il mio motto è sempre stato volere è potere».
Molti sono i giovani che vorrebbero fare i giornalisti. Quali consigli daresti loro?
«Innanzitutto di non buttarsi tutti nella solita “scienza della comunicazione”, nulla togliendo a tale facoltà, ma troppi ragazzi vi escono, trovandosi poi senza un’occupazione, vi sono molte lauree più complete e formative per la professione del giornalista, quali giurisprudenza, lettere e scienze politiche. Poi consiglierei di tentare questa professione solo se si ha davvero una grande passione, perché molte sono le difficoltà che si incontreranno durante il percorso e solo un grande amore per ciò che si svolge può dare la carica giusta per andare avanti. Buoni sono i master post laurea riconosciuti dall’Ordine nazionale dei giornalisti, ma ottima è anche l’esperienza pratica sul campo: se si ha la possibilità di collaborare con qualche emittente televisiva, radiofonica o testata giornalistica consiglio di approfittarne».
MONITOR Aljazeera all’italiana di Nicola Pistoia

Aljazeera, principale canale tv dell’intero Medio Oriente, negli ultimi anni è salita alla ribalta per cose non certo piacevoli.
Tutti i maggiori network internazionali vi si appoggiano per acquisire notizie serie ed attendibili su una delle zone più calde del mondo, ma è stata e continua a essere anche ambasciatrice di situazioni tragiche, come i video delle morti di ostaggi inconsapevoli o proclami di guerra da parte di terroristi senza scrupoli.
Oggi, il più importante canale arabo ed islamico ritorna sotto i riflettori per cose ben più distensive.
Sta per partire, infatti, Aljazeera International, la versione in lingua inglese del noto canale di notizie. E a tenere a battesimo questo nuovo progetto sarà una giovane e affascinante giornalista italiana.
Barbara Serra, 30 anni, di Milano, dopo essere diventata un personaggio particolarmente importante in Inghilterra passando dalla Bbc a Sky News per sbarcare alla conduzione del tg di Channel Five, ora si prepara a dare il volto ad uno dei notiziari più seguiti al mondo e a suscitare, di conseguenza, notevole curiosità: infatti è stata la prima voce non di lingua madre inglese alla guida di un telegiornale nazionale nel Regno Unito. Ora si appresta a essere la prima donna non islamica alla conduzione di un programma arabo.
«Il mio è un giornalismo indipendente, proprio come quello di Aljazeera, quindi non credo ci saranno problemi di alcun genere»: così ha risposto la Serra ad alcune domande di cronisti che, ironicamente, l’accusano di essere passata dalla parte del nemico, e ha continuato: «Sono sicura che saremo liberi di fare informazione non schierata».
Senza dubbio è una novità positiva: l’inglese, infatti, specie quello adoperato dai media, è ormai la lingua universale, così Aljazeera, marchio ormai ben saldo, allarga la sua audience, diventando una fonte d’informazione ancora più importante. Inoltre si spera che proprio l'utilizzo della lingua britannica, senza il filtro della traduzione dall'arabo, favorisca il dialogo tra Oriente ed Occidente e permetta una maggiore comprensione del mondo musulmano.
Non c’è bisogno, quindi, di meravigliarsi più di tanto, visto che il principale canale televisivo arabo non ha mai espresso alcun disdegno verso l’occidente, ma è piuttosto diventato, negli ultimi anni, strumento preferito da chi l’Occidente lo odia davvero.
CRONACA IN ROSA Chernobyl, vent'anni dopo di Tiziana Ambrosi

Sono passati venti anni dalla tragica notte del 26 aprile 1986, quando il mondo ebbe a che fare per la prima volta con la seria paura del nucleare civile.
Poco prima dell'1.30 di notte il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, Ucraina - allora Repubblica Sovietica - esplose.
La notizia venne resa ufficiale all'opinione pubblica mondiale solamente 48 ore dopo il disastro, quando ormai appariva chiaro che la situazione era sfuggita di mano.
La causa dell'incidente fu inizialmente attribuita all'incapacità di tecnici e ingegneri dell'impianto.
In realtà, successive e più serie indagini dimostrarono come fossero state trascurate le più banali norme di sicurezza di una centrale nucleare.
In un test, a posteriori surrealistico, si cercò di verificare se la turbina fosse in grado di produrre per inerzia l'energia sufficiente ad alimentare i sistemi di sicurezza nel caso in cui fosse venuta a mancare un'alimentazione esterna.
Per poter continuare la prova furono disattivati i dispositivi di sicurezza e il circuito di raffreddamento, furono alzate contemporaneamente le barre di boro che funzionavano da freno e acceleratore della reazione di fissione dei nuclei di uranio.
La reazione nucleare divenne ben presto instabile e incontrollabile. Le alte temperature raggiunte deformarono le barre di controllo, che non potettero pertanto essere reinserite. Infine la reazione con l'idrogeno dell'acqua di raffreddamento provocò la deflagrazione che fece esplodere il reattore scoperchiandolo. Ma il tetto era stato costruito relativamente in economia, e quindi alla già delicata situazione si aggiunsero errori progettuali che peggiorarono la situazione.
Inspiegabilmente la prima reazione fu quella di minimizzare.
La radioattività misurata era bassa, quasi in modo ridicolo: alcuni capirono che dipendeva dal limitato fondo scala delle strumentazioni. La popolazione non fu avvisata per non creare panico: a Pripyat, area residenziale per gli operai poco distante dalla centrale, la vita continuava. Vi era solo la preoccupazione per l'incolumità dei lavoratori a seguito dell'esplosione.
A Mosca si doveva riferire che tutto era sotto controllo. La grande industria sovietica non poteva cedere.
Il fuoco e il fumo intanto disperdevano nell'atmosfera materiale radioattivo: il fallout investì le aree circostanti nel raggio di decine di chilometri e la nube radioattiva,dispersa dai venti, arrivò fino in Europa e in Italia.
Molte delle conoscenze riguardo gli effetti di una esplosione nucleare si ebbero solamente dopo Chernobyl. Rimane comunque la grave colpa di non aver preso le misure e le precauzioni necessarie per la salvaguardia della popolazione civile.
Le vittime del disastro sono ancora oggetto di una demoralizzante conta: a parte i decessi dovuti al fuoco e alla forte esposizione a radioattività - pompieri, tecnici, operai della centrale - ancora oggi non sono chiari gli effetti a lungo termine sulla popolazione civile.
I rapporti ONU forniscono numeri relativamente bassi: 4.000 decessi. Altre indagini, alcune ufficiali altre indipendenti, presentano un quadro ben più grave con centinaia di migliaia di morti, e altrettanti casi di tumore nella popolazione.
E intanto, mentre la guerra di cifre continua, lo scheletro del reattore fa ancora paura. La carcassa di cemento armato con cui è stato coperto è fatiscente, ci sono crepe e perdite, la reazione continua ad alimentarsi. Il rischio di crollo è molto alto. Un progetto di restauro è stato avviato. Servono milioni di euro e finora sono stati raccolti solo i due terzi della cifra.
Dopo vent'anni c'è ancora molto da fare.
FORMAT MEDIA E MINORI Spot e fusilli di Serenella Medori

Le innumerevoli storie raccontate dai film, storie che vanno dall’ora e mezzo alle due ore, sono un’occasione ghiotta da sempre utilizzata da chi si occupa di product placement. La marca appare come insegna, ad esempio "Coca Cola", o il prodotto è in scena, dalla Ferrari di Magnum PI alla Mercedes di Men in Black.
La marca viene citata dai protagonisti come La Quantas in Rain Man, oppure viene utilizzata e inglobata nella storia come Fedex in Cast Away e il maggiolone Herbie in Un maggiolino tutto matto.
Non si tratta di pubblicità subliminale, come potrebbe sembrare, poiché in realtà è l’esatto contrario. Si tratta infatti di citare, usare o mettere in mostra il brand o il prodotto stesso in maniera non subdola, ma quasi naturale.
Ma a volte la presenza del prodotto è fin troppo accentuata. Con questa tecnica è possibile osservare, vedere, pensare, ripensare e rielaborare il prodotto e l’uso che se ne fa nel film per sentir crescere l’intimità con l’oggetto.
Un linguaggio totale, così potrebbe essere definito quello usato dagli spot integrati. L’obiettivo è ottenere una percezione del messaggio che sia emotiva al primo livello e razionale al livello successivo.
I toni emotivi ottengono i migliori risultati. La pasta Barilla, ad esempio, usa un fusillo per suggerire il calore di casa ad un uomo che presumibilmente vive in Oriente per lavoro. Un fusillo ritrovato in tasca dà luogo alla decisione di tornare a casa. Ma da quanto tempo sarà lì quel fusillo? Da quanto non si lava la giacca? E la ragazza in un collegio? Stessa tasca stesso fusillo. Sicuramente l’impatto emotivo è evidente, il ricordo di casa e, si sa, tutto ciò che avviene a casa, tutte le scelte fatte in famiglia appaiono più positive. "Dove c’è Barilla c’è casa".
Una marca di pasta diversa dalla Barilla ha tentato un salto temporale mettendo in primo piano una conchiglia che dondola richiamando alla memoria una culla, il tutto accompagnato con il sottofondo di una nenia da bambini. Carina, originale ma nulla a che vedere con Barilla di cui in molti si ricordano ancora la musica di sottofondo.
Torniamo ai nostri spot integrati. Riuscire dunque a inserire un brand o un prodotto nella sceneggiatura di un film è probabilmente un’arte, anzi "un'opera d'arte" del marketing pubblicitario. Giunti a questo livello di integrazione è inutile parlare di pubblicità occulta, perché le case produttrici appaiono nei titoli di coda come sponsors.
(5-continua)
FORMAT Gerry Scotti, un "grande" della tv di Giuseppe Bosso

Eravamo a metà degli anni ’80 quando un ragazzone natio delle brume padane debuttava sugli schermi di Italia1 alla conduzione di DeeJay Television, fortunata trasmissione musicale antesignana dei moderni Cd-Live e Top of the pops; volto nuovo ma voce da tempo apprezzata e stimata dal pubblico di Radio Dee-Jay.
Gli anni passano e Gerry Scotti, all’anagrafe Virginio, diventa sempre più una colonna portante della grande famiglia di Mediaset (allora Fininvest): dagli inizi musicali al varietà e al quiz il passo è breve, e così, tra la fine del penultimo e l’inizio dell’ultimo decennio del millennio arrivano Il gioco dei nove, Donna sotto le stelle, Buona Domenica, che conduce per due anni con Gabriella Carlucci, La sai l’ultima, Il quizzone, Non dimenticate lo spazzolino da denti.
Non è certo facile passare da un target giovanile a uno di tipo più familiare, ma lo spettatore, anche quello più esigente, a poco a poco impara ad apprezzare Scotti non solo per l’indubbia simpatia e l'autoironia (soprattutto legate alla sua stazza e alla sua calvizie) ma anche per lo stile e la capacità di gestire il programma.
Scotti, come molti suoi coetanei, nasce in un’epoca di grandi cambiamenti nel mondo della televisione italiana, in cui ai grandi presentatori come Baudo e Bongiorno si affiancano le nuove leve, e lui è indubbiamente uno di quelli che meglio ha saputo assimilare lo stile dei vecchi maestri adattandolo alle esigenze e alle aspettative del pubblico dei giorni nostri.
Trova anche il tempo per darsi alla fiction con due sit-com di successo come Io e la mamma, al fianco dell’indimenticata e compianta Delia Scala, e Finalmente soli, nella quale, in coppia con Maria Amelia Monti, riesce a creare situazioni e siparietti degni di due icone come Sandra e Raimondo di Casa Vianello.
Una svolta importante si ha nel 1999 quando, in sostituzione di Claudio Lippi, prende in mano quello che fino al 2006 sarà il preserale per eccellenza, ideale traghettatore di buoni ascolti per il Tg5: Passaparola, format che ben presto otterrà ampi consensi e che gli permetterà di colmare un grande cruccio che fino ad allora aveva caratterizzato la sua carriera, quel Telegatto che non aveva mai vinto, salvo poi diventarne anche lui un accanito collezionista.
Poi arrivano Chi vuol essere milionario, che si alterna con Passaparola e rende ancor di più Gerry Scotti "re del quiz" di Mediaset, vero e proprio erede di sua maestà Mike Bongiorno; La Corrida, rispolverata dopo la morte del suo storico "papà" Corrado Mantoni, e Chi ha incastrato lo zio Gerry?, al fianco della spumeggiante Michelle Hunziker.
"Re del quiz" dicevamo; ma probabilmente ancora per poco: pare infatti che le sue due creature della fascia preserale, al termine dell’annata televisiva 2005-2006, verranno mandate in pensione da Cologno Monzese, per essere sostituite da un nuovo game show che dovrebbe essere affidato nientemeno che a colui che in questi anni è stato fiero rivale di Scotti sulla sponda Rai, Amadeus, che ha curiosamente avuto una carriera quasi parallela a quella di Gerry, avendo iniziato come dee-jay.
Poco male: Gerry Scotti per Mediaset è uno di famiglia, un volto e un nome su cui si può sempre contare, e, dopo la fiction natalizia al fianco di Lino Banfi, ha già in cantiere altri progetti che lo vedranno come attore in prima serata. E nel frattempo è tornato al suo primo amore, la radio, nelle vesti di vicepresidente di R101, ed è anche diventato socio del celebre "dottor Scotti" di una fortunata serie di spot che da anni lo vede protagonista.
ELZEVIRO Se i Simpsons e Charlie Brown sono filosofi... di Silvia Grassetti

Abbiamo intervistato Ubaldo Nicola, direttore del periodico online e cartaceo Diogene.
Come è nata l'idea che ha portato alla creazione di Diogene Filosofare oggi?
«Da parecchie considerazioni. La prima, prettamente mercantile, è che oggi vi è per la filosofia un interesse crescente e nessun prodotto editoriale capace di soddisfarlo. Esiste un “popolo dei festival” che si ostina ad affollare le iniziative di sapore filosofico, anche se poi per molte ragioni raramente rimane soddisfatto.
La seconda è che lo scorso anno s’è celebrato il primo referendum ontologico della storia, che ha chiamato i cittadini a votare sull’essere di un ente (l’embrione), sulla sua natura metafisica (è una persona? e che cosa è una persona?). Voglio dire che esiste nelle cose stesse un crescente bisogno di filosofia.
Apro il giornale: lo scontro in atto è di civiltà? Cosa significa avere un’etica laica? La famiglia tradizionale (maschio e femmina) è un’istituzione naturale? Scienza e politica pongono sempre più spesso questioni che non possono essere risolte con le procedure della scienza e della politica (fosse così non ci sarebbe stato alcun referendum). Sentiamo la necessità di uno spazio dedicato a una meditazione sui fondamenti, una riflessione “distaccata”, che parta dall’attualità senza però rincorrere la notizia».
Da chi è composta la redazione?
«Che io sappia, Diogene è l’unico caso di un’iniziativa che nasce nel mondo delle scuole ma si sviluppa fuori dalle istituzioni, tentando di conquistarsi un posto sul mercato, nelle edicole. Una bella sfida. Per giunta nata dal basso, fondata sulla partecipazione volontaria, con tutti i pregi (la passione) e i difetti (fondi zero, poche strutture) del caso. Eppure il risultato è professionale, ben curato nell’impaginazione e nelle scelte iconografiche: ogni articolo è commentato da opere di giovani artisti contemporanei, realizzando così un intrigante scambio di linguaggi. La filosofia non la fanno solo i filosofi.
A scrivere sono soprattutto dottorandi, ma anche esperti apparentemente estranei alla materia. Nel numero uno, dedicato alla domanda «Di chi è il mio corpo?» abbiamo chiamato un giudice, un avvocato e una giurista. Nel secondo numero la domanda era «Che cosa è un odore?» e quindi abbiamo consultato un olfattologo. Il numero tre si chiede quanto ci sia di naturale (e/o culturale) nella sessualità. Ogni numero di Diogene pone una domanda, spesso strana, come sono quelle della filosofia, ma attuale o intrigante, cui, sia chiaro, non abbiamo affatto la presunzione di rispondere.
Come ogni rivista popolare, Diogene offre poi una serie di rubriche, in cui proponiamo riflessioni a partire dalla vita quotidiana e dall’esperienza. Si parla di filosofia e sport, cinema, ecologia, TV, logica, cose, esperienze ed altro ancora. Persino di fumetti: si trovano articoli come L’etica della famiglia Simpson, o Charlie Brown filosofo esistenzialista.
Nell’ultimo numero parliamo dei Manga giapponesi, con un articolo che ne spiega la negatività etica e un altro che ne dimostra la positività. Decida il lettore; noi non vogliamo “insegnargli” proprio nulla».
Sugli scaffali delle librerie campeggiano varie pubblicazioni divulgative filosofiche: la filosofia è trendy?
«A volte sembra così. Sembra che l’interesse, più che per la filosofia, sia rivolto ai filosofi, i quali, almeno in certi casi, non rifiutano ruoli che sconfinano con il divismo. Ciò può apparire superficiale, ma è sempre stato così: alle conferenze di Bergson assistevano migliaia di persone (spesso signore della buona borghesia ignare di ogni sottigliezza); e non erano meno quelli che quasi mille anni fa affollavano la navata di Notre Dame in costruzione per vedere Abelardo e Guglielmo di Champeux discutere sulla questione degli universali. La filosofia è spesso stata uno “spettacolo dell’intelligenza”. E’ stata anche teatro: dai sofisti che esibivano a pagamento fino agli austeri maestri della Scolastica, che ogni anno si sfidavano pubblicamente in conferenze “quodlibetali”, ovvero senza un tema prefissato, deciso sul momento dalla platea (quale filosofo oggi oserebbe tanto?).
Ma non ci si deve far ingannare da questi aspetti superficiali. Considera ad esempio quanto sia crescente il bisogno di coerenza morale nella vita quotidiana. Oggi vi è un’etica ambientale, del consumo, degli affari, ecc. Sono nuove sensibilità nascenti dal basso, non stimolate da alcuna agenzia morale (scuola, Chiesa), etiche fai-da-te, sempre più personalizzate. Prendi l’alimentazione: essere non solo sani, ma anche snelli e prestanti sta diventando sempre più un parametro morale con cui giudichiamo noi stessi e gli altri (a questo tema abbiamo dedicato il numero zero di Diogene).
Vorrei aggiungere infine che anche a noi piace giocare e pensiamo che la filosofia non dovrebbe privarsi di quei potenti farmaci mentali che sono la leggerezza e l’ironia (soprattutto quando diventa auto-ironia). Tanto per non prenderci troppo sul serio, ad esempio, nel numero dedicato alla natura degli odori abbiamo inserito un bollino profumato da grattare, chiedendo di indovinarne la fragranza e di riflettere su questa piccola esperienza rispondendo a un apposito quiz. Il lettore gratta e poi legge, ma lo fa sorridendo».
In un'epoca in cui l'informazione è spesso superficiale e gli interessi dei lettori sembrano essere incentrati sull'emotività (suscitata ad esempio da episodi di cronaca nera), Diogene a quale pubblico si rivolge?
«Sì, l’informazione è spesso superficiale. Anche se altrettanto spesso tenta di non esserlo, non trovando, però, gli spazi adatti. Prendi il Corriere della Sera: da due anni inserisce spesso una pagina di Documenti, approfondimenti sui temi caldi che per lunghezza e peso concettuale sembrano più adatti a una rivista che a un quotidiano. Infatti ho l’impressione che non li legga quasi nessuno. Non ci si pone a riflettere leggendo un quotidiano: non è il mezzo adatto.
Chi sono i nostri lettori? Studenti liceali e universitari, professori, soprattutto adulti amanti della sapienza (cioè filosofi), curiosi e insoddisfatti del proprio (spesso alto) “specialismo” professionale. Gente che per la filosofia ha vera passione.
L’emotività, infine. E’ un bel problema: ci vorremmo dedicare uno dei prossimi numeri ponendo questa domanda :«Può l’emozione controllare la mente? Può la mente controllare le emozioni?». Questioni che da 2000 anni sono d’attualità, ma che oggi si ripropongono in modo nuovo (ad esempio, per rimanere nel mondo dell’informazione, nella difficile scelta di censurare immagini “emozionanti” come quelle dei decapitati, degli incidenti stradali, degli effetti del fumo, eccetera)».
Nel numero tre attualmente in edicola, il primo piano è dedicato all'essere maschi oggi: davvero gli uomini sono così insicuri, come si evince dalla lettura dei numerosi articoli in merito?
«Forse lo sono, forse no. Non è importante la risposta ma la domanda. Nel senso che appare strano che i maschi si interroghino sulla loro condizione, e noi ci chiediamo il perché di questa stranezza. Nell’opinione comune, l’essere uomo è considerato cosa “naturale”, che viene da sé, molto più che l’essere femmina. E’ su questo che invitiamo a riflettere: sul rapporto fra i generi sessuali e le nozioni di “natura” e “normalità”. Temi su cui la filosofia contemporanea ha molto da dire e che saranno a fondamento della imminente discussione pubblica sui PACS».
I lettori di Telegiornaliste sono in gran parte operatori del mondo dell'informazione: c'è un messaggio che il direttore di Diogene vuol dare loro?
«Sarebbe bello che il mondo dell’informazione stampata, si aprisse a ospitare momenti di riflessione critica su se stessa. Voglio dire: esiste tutto un mondo dedicato all’analisi puntuale dei programmi televisivi, esiste un’intera letteratura critica sul modo in cui il mondo appare in tv. Ma gli articoli dei quotidiani, intendo il modo e il come riportano le notizie, chi li commenta? Non esiste un luogo dedicato».
Tranne Telegiornaliste...
«Tranne Telegiornaliste».
ELZEVIRO David di Donatello 2006 di Nicola Pistoia

L’edizione 2006 dei David di Donatello è stata, senza dubbio, l’edizione più scoppiettante degli ultimi anni, caratterizzata da accese polemiche, colpi di scena e fiumi di lacrime.
Ma andiamo con ordine.
Venerdì 21 Aprile, all’Auditorium di Via della  Conciliazione a Roma, sono state consegnate le prestigiose statuette che onorano il cinema italiano e i loro personaggi. A far la parte dei leoni (paradossalmente, dato che questo sembra l’anno in cui si ignorano le opere presentate alla Mostra del Cinema di Venezia) Moretti e Placido (anche qui c’è da registrare ironicamente la presenza del "divetto" Placido nel film morettiano), rispettivamente vincitori di cinque e sei statuette.
Il controverso Caimano di Moretti si è aggiudicato quelle più importanti: Miglior Film, Miglior Regista e Miglior Attore Protagonista (Silvio Orlando). Romanzo Criminale, invece, dell’antagonista Placido, si è dovuto accontentare delle statuette minori tra cui Miglior Sceneggiatura, Miglior Attore non protagonista (Pierfrancesco Favino) e Miglior  Costumista.
Grande escluso della serata Carlo Verdone con Il mio miglior Nemico, che però si è meritato il Premio Box office, riservato al film che ha incassato di più durante l’anno.
Magra consolazione anche per il film Notte prima degli Esami di Fausto Brizzi, che si è portato a casa una sola statuetta: quella di Miglior Regista Esordiente.
I giorni che hanno preceduto la prestigiosa Notte dei David sono stati infiammati da uno scontro tra i due indiscussi protagonisti, Placido e Moretti, durante la consueta udienza con il presidente della Repubblica -che si congeda definitivamente da tale onore, visto la scadenza del suo mandato. Il regista di Romanzo Criminale, infatti, ha polemizzato contro l'eccesso di celebrazioni che ci sono state nei confronti di Moretti e del suo Caimano, concedendo, piuttosto, meriti a registi come Verdone e Brizzi che hanno portato più spettatori nei cinema italiani.
Durante la serata, che ha visto anche la premiazione di Valeria Golino come Miglior Attrice Protagonista per il film La Guerra di Mario, e di Angela Finocchiaro, Miglior attrice non Protagonista, per La Bestia nel Cuore, sono stati consegnati i David del Cinquantenario ad altrettanti personaggi che hanno fatto la storia del premio e del cinema italiano tra cui Gina Lollobrigida, Ennio Morricone e Dino De Laurentiis.
Intanto i due cinefili nemici guardano avanti: il Caimano di Moretti concorrerà anche al Festival di Cannes, mentre Placido si prepara a vestire i panni di Provenzano in una fiction per la tv.
DONNE Tina Merlin, una vita all'insegna del coraggio di Tiziana Ambrosi

Donna, giornalista e comunista.
Una vita non certo invidiabile quella di Tina Merlin. Forse ai giorni nostri un'affermazione simile potrebbe sembrare esagerata, ma proviamo a pensare cosa volesse dire nell'Italia degli anni Cinquanta: immediato dopoguerra, ricostruzione faticosa della società civile, primi passi verso l'emancipazione femminile, un Paese che cerca di rilanciarsi a livello mondiale.
E gli ostacoli non sono granché apprezzati. Già, perché la Merlin è sempre stata dalla parte dei "piantagrane".
Nata nel bellunese nel 1926 - terra rocciosa nello spirito e nella morfologia - già a 17 anni è arruolata come staffetta partigiana. Combatte a fianco del fratello, ucciso dai tedeschi in ritirata, e del suo futuro marito, un ufficiale degli Alpini.
Al termine della guerra si dedica alla scrittura come corrispondente di cronaca bellunese per l'Unità.
Proprio in queste pagine trovano spazio i primi pezzi sulla nuova centrale idroelettrica del Vajont.
Una diga che doveva essere tra le più grandi d'Europa. Spettacolare per le sue dimensioni e con un bacino d'accumulo mai visto prima. Uno sbarramento costruito a regola d'arte - la diga è intatta, fatta eccezione per la passerella sommitale - nel posto sbagliato. Tra il monte Toc (che in una commistione tra veneto e friulano significa "pezzo marcio") e il monte Salta. Già la toponomastica appare bizzarra, se non premonitrice.
L'indagine di Tina Merlin inizia come le normali pagine di cronaca locale: gli espropri delle terre da parte della SADE - Società Adriatica Di Elettricità, la contrattazione per ottenere prezzi onesti e poco altro.
Poi cominciano ad esserci i primi incidenti: piccole frane, macchie nell'acqua limpida del lago artificiale, terremoti sempre più frequenti man mano che il livello di invaso cresce.
La pericolosità della diga viene denunciata sulle pagine del giornale. Ma gli ostacoli, come detto, non sono permessi: la trasformazione in azienda di Stato incombe e la SADE vuole realizzare il più in fretta possibile.
Tanto da denunciare Tina Merlin, che sarà processata per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico» - metodologia del resto ancora abusata in Italia per "impantanare" meglio.
La vicenda a questo punto assume i contorni della farsa: la Merlin viene assolta perché ciò che dice nei suoi articoli corrisponde a verità, ma nessuno si prende la briga di fermare la tragedia imminente.
Tutti sappiamo come è andata a finire: nella notte del 9 ottobre 1963 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti si staccano dal Monte Toc scivolando nel bacino di invaso e alzando onde di alcune decine di metri. Il paese di Longarone, il più grande, viene completamente spazzato via. Almeno 2.000 le vittime sepolte e trascinate dal fango.
Tina Merlin si occupò anche dopo il '63 della vicenda del Vajont cercando, anche con la sua testimonianza, di portare a galla la verità. Sintomatico il fatto che il suo libro Sulla pelle viva riuscì a trovare un editore 20 anni dopo la catastrofe, nel 1983.
Nel corso della sua vita Tina Merlin continuò a lavorare per tenere vivo il ricordo del Vajont e del movimento di Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. Moltissimi i suoi scritti al riguardo. Morì dopo malattia nel 1991.
Il 10 ottobre, all'indomani della tragedia, scriveva: «Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa».
E chissà se veramente abbiamo imparato qualcosa. Il dubbio, purtroppo, rimane.
DONNE Una vita per il fiume di Erica Savazzi

Il Mahatma Gandhi ha insegnato all’India la lotta non violenta; oggi questa eredità è raccolta da una donna, Medha Patkar, che combatte per i diritti delle popolazioni adivasi, cacciate dalla loro terra per permettere la costruzione di dighe sul fiume Narmada e i suoi affluenti.
Il Narmada è un fiume dell’India nord-occidentale, lungo 1.300 km. Le sue acque bagnano terre molto fertili abitate dagli adivasi, popolazioni contadine indigene, e da “intoccabili”, cioè membri della casta più povera e disprezzata. Uomini che non possiedono la terra che lavorano e abitano, ma ci vivono per diritto consuetudinario.
La mancanza di documenti che ne attestino la proprietà è da circa un ventennio fonte di gravi problemi. Il Narmada Valley Development Plan, risalente alla fine degli agli anni ’80 - ma la prima discussione su un progetto simile risale al 1901 - infatti prevede la costruzione di 3.200 dighe lungo tutto il bacino del fiume: 30 di grandi dimensioni, 135 medie e 3.000 piccole. Solo la prima diga, costruita negli anni ’90 ha causato il trasferimento forzato di più di 100.000 persone e la scomparsa di 164 villaggi.
Come se non bastasse, agli abitanti viene offerto un indennizzo irrisorio, meno di 200 dollari, oppure il trasferimento in terreni non così fertili. Ultimamente l’assegnazione di altri terreni è stata sospesa, ma la popolazione chiede che il proprio diritto ad avere in cambio una terra di valore paritario a quella che devono obbligatoriamente lasciare venga rispettato.
Durante un viaggio di studio Medha Patkar, sociologa, si è accorta che le esigenze degli adivasi non venivano ascoltate e ha deciso di lottare con loro. Ha fondato il Narmada Bachao Andolan, Movimento per salvare il Narmada, sostenuto anche dalla scrittrice Arundhati Roy, per opporsi alla costruzione delle dighe, proporre progetti alternativi per il reperimento di energia e per tutelare i diritti della popolazione. «Il Progetto influirà sulla vita di 25 milioni di persone e altererà la conformazione ambientale dell’intero bacino fluviale» ha dichiarato in una conferenza l’autrice de Il dio delle piccole cose.
Medha ha sviluppato la sua coscienza sociale grazie al padre, combattente per la libertà negli anni della lotta per l’indipendenza della Gran Bretagna. Dopo la laurea in medicina si è specializzata nelle scienze sociali: conducendo ricerche nelle baraccopoli di Bombay si era resa conto che la maggior parte degli abitanti erano stati espulsi dalla loro terra d’origine. Per continuare la ricerca si è poi spostata nella regione tribale del Gujarat nord-orientale, dove è venuta a conoscenza del progetto Narmada.
In questi giorni Medha sta conducendo uno sciopero della fame: lotta non violenta come nella migliore tradizione del suo Paese. Pur di fermare la sua protesta è stata accusata di tentato suicidio, in India un reato. Arrestata dopo otto giorni di sciopero della fame e della sete, ad oggi continua la sua protesta assumendo solo liquidi.
Un’attivista per i diritti umani e per il rispetto della natura: mai come in questo caso le due cose vanno a braccetto.
TELEGIORNALISTI Riccardo Chartroux di Stefania Trivigno

Questa settimana abbiamo intervistato Riccardo Chartroux, inviato della redazione cronaca del Tg3.
Lei è cronista per il Tg3: ha scelto la cronaca per vocazione?
«No. Ho iniziato dopo aver vinto un concorso per praticanti in Rai, sono stato assegnato piuttosto casualmente al Tg3 che apriva un notiziario della mattina presto, dalle 6.00 alle 8.00. Dopo un paio d'anni sono riuscito a entrare in una redazione. Volevo andare agli esteri, l'allora direttore Lucia Annunziata disse: “Non se ne parla, il mestiere lo impari in cronaca”. Aveva ragione».
Nel corso della sua carriera c’è stato un avvenimento tanto significativo da influenzare, positivamente o negativamente, la sua crescita professionale?
«Ero entrato al Tg3 da un anno e mezzo quando alle otto del mattino squilla il telefono, una collega mi fa: “E’ morta Lady Diana, devi andare a Londra”.
“Che scherzo del cavolo” - rispondo e riattacco. Pochi istanti e mi richiamano. “Guarda che è vero”. Era fine estate e molti colleghi erano in ferie, io sapevo bene l'inglese. E sono partito».
Lei ha seguito la vicenda del sequestro Sgrena. Come ha vissuto il periodo del sequestro e la drammatica conclusione? Il fatto che si trattasse di una sua collega ha avuto un ruolo nella gestione delle informazioni?
«Difficile dirlo. Inutile negare che il fatto che la sequestrata fosse una collega ha tenuto un po' più alta l'attenzione dei media. Ma la vicenda è stata piena di risvolti anche emotivi molto forti. Giornalista di sinistra che cercava di raccontare anche le ragioni della resistenza irakena, pur non condividendone i metodi, rapita dalla stessa resistenza che le mostra il suo volto più brutale. Colleghi del quotidiano di sinistra che trovano un interlocutore fidato in un agente dei servizi segreti, figura che fino ad allora avrebbero visto con sospetto. E alla fine si ritrovano in prima fila a commemorare l'agente, ucciso dagli alleati americani. Una di quelle storie che ti insegnano che il mondo è complicato».
In molti pensano che negli ultimi anni il Tg3 abbia fornito l’informazione più obiettiva in Italia. E' d'accordo?
«Ci abbiamo provato».
Come si lavora in un telegiornale spesso al centro dell'attenzione?
«Si cerca di non fare stronzate».
Come si evita la faziosità nell'informazione?
«Come sopra».
Lei ha aderito al blog "schienadritta" per la difesa della libertà di stampa. Secondo Lei, questa, e l'informazione pubblica in generale, sono realmente a rischio?
«Non tanto la libertà di stampa, ma la libertà dei giornalisti. Se incarichi, carriere, successi e insuccessi personali, e last but not least stipendi, sono decisi non solo in funzione della professionalità ma della vicinanza a questo o quel soggetto dotato di potere (economico o, soprattutto nel caso della Rai, politico) l'indipendenza va a farsi benedire. Se le scelte editoriali, quali servizi si fanno, quali notizie si danno, quali personaggi si intervistano, se tutte queste scelte sono determinate da considerazioni politiche, magari anche, con le migliori intenzioni, di equilibrio politico, le regole del giornalismo sono violate. Ne consegue che i cittadini non hanno il servizio per cui stanno pagando (con il canone Rai ma anche con il ricarico sul prezzo dei prodotti che paga la pubblicità).
Anni fa, l'aver denunciato in un servizio abusi e violenze su bambini le ha creato problemi. Sarebbe disposto in futuro a correre dei rischi pur di denunciare fatti altrettanto gravi?
«Non ho corso dei rischi. Ho fatto una di quelle cose che non bisogna fare di cui parlavo al punto 5. Il problema vero è che la soglia di attenzione mia e di altri colleghi anche più esperti si abbassò, perché si ha sempre fretta, tutto viene fatto di corsa e quando hai esaminato per un'ora materiale pedofilo orrendo la tua soglia di tolleranza si abbassa, e ti sembra normale materiale che si può mandare in onda quello che ad altri fa venire i brividi. Con qualche anno di esperienza in più non lo rifarei».
TELEGIORNALISTI Sposini separato da Mediaset di Silvia Grassetti

Chissà se il gossip sulla presunta scappatella romantica a Parigi con Cristina Parodi rientrava in una astuta mossa di mobbing ai suoi danni.
Sta di fatto che Lamberto Sposini, che si era autosospeso per tre mesi alla fine del 2004, quando arrivò Carlo Rossella a sostituire Mentana alla direzione del Tg5, e che si era preso un mese di ferie, dopo l’ultimo litigio con il “numero uno” dei giornalisti del Biscione, lo scorso 26 aprile si è dimesso dalla sua carica di vicedirettore del tg e ha lasciato Mediaset.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso, a detta dello stesso Sposini, è caduta in piena campagna elettorale: il 30 marzo scorso, nel bailamme seguito all’affermazione di Prodi sugli avversari del centrodestra, definiti “delinquenti politici”, il dimissionario Sposini litigò con Carlo Rossella per inserire tra le repliche dei partiti anche la presa di posizione di Fassino, che il direttore del Tg5 non avrebbe voluto riportare.
Se nel 2004 la sospensione doveva servirgli per capire «se fosse giusto mettere la faccia in quella avventura», le dimissioni sono arrivate quando Sposini ha preso atto che il rapporto di fiducia con il direttore si era «rotto».
E se, nel lungo periodo elettorale, l’inquieto entourage giornalistico di Mediaset ha dovuto fare i conti con la presenza indisponente di Paolo Bonolis; con l’avvento dell’ottavo vicedirettore Piero Vigorelli e di Paola Perego alla conduzione di Verissimo; e con il passaggio del format dal Tg5 a Videonews (con ciò che ne è conseguito, per il programma, dal punto di vista giornalistico), finalmente le bocce sembrano essersi fermate. E il balletto delle poltrone a Mediaset pure.
Lamberto Sposini nei giorni scorsi ha detto di non avere trattative in corso con altre testate giornalistiche, scherzando sul dover cominciare a mandare il suo «curriculum con foto in giro». Ma un giornalista di cotanto pedigree, se dovesse avere un imbarazzo impiegatizio, sarebbe l’imbarazzo della scelta: i bookmakers lo danno con pari probabilità a La7 per il ritorno di audience che porterebbe in dote; a SkyTg24 dal suo amico direttore Emilio Carelli; o in Rai.
E se al Tg1 la poltrona dovesse risultare già occupata, da Piero Badaloni per esempio, è probabile che i nuovi governanti siano già andati a spolverare la scrivania del Tg3.
OLIMPIA Adieu Mondial di Mario Basile

Facevano il tifo per lei. Almeno così sembrava dalle affermazioni dei vertici Fifa su Nelly Viennot, la donna francese candidata al ruolo di guardalinee ai prossimi mondiali di calcio in Germania.
In realtà la federazione non si era schierata apertamente, del resto non poteva farlo, ma le dichiarazioni del portavoce Fifa Andreas Werz lasciavano pochi dubbi: «Farà quello che dovranno fare tutti gli altri. Ma saremmo tutti felici se ce la facesse, sarebbe qualcosa di speciale».
Naturalmente era quel “farà quello che dovranno fare tutti gli altri” a far nascere l'incertezza: i test a cui sono stati sottoposti gli aspiranti direttori di gara e assistenti mondiali erano davvero selettivi. Ne erano convinti anche i più grandi esperti di preparazione atletica.
Infatti, la prova consisteva nel percorrere in meno di sei secondi i 40 metri per sei volte con pochissimo tempo di recupero tra una corsa e l’altra, e nel fare i 150 metri in meno di trenta secondi.
E se tutto ciò ha il sapore di impresa leggendaria per il fisico di un uomo, per quello di una donna pare praticamente impossibile.
Basti pensare che le assistenti di gara italiane per essere selezionabili devono percorrere i 50 metri non oltre gli otto secondi e dieci decimi. E che soprattutto, godono di parametri meno severi rispetto ai colleghi uomini per la diversa corporatura. Cosa che, a dire il vero, avviene anche in tutti gli altri Paesi.
E allora perché non concedere agevolazioni a madame Viennot? Si voleva forse realizzare il sequel di Soldato Jane?
Fatto sta che la 44enne francese non si è lasciata intimidire e si è presentata a Neu Isenburg, vicino Francoforte, sede dei pre-test mondiali per gli assistenti di gara insieme ai suoi colleghi uomini. Non provarci sarebbe stato un rimpianto troppo grande per una donna che da sempre vive di calcio.
La carriera arbitrale di Nelly Viennot è cominciata nel 1987. Il calcio è un fatto di famiglia: suo padre, infatti, è stato un calciatore dilettante. Undici anni fa è diventata internazionale, nel suo palmares figurano anche partecipazioni da guardalinee alle Olimpiadi di Atlanta, Atene e una in Champions League in Panathinaikos – Werder Brema del 2002. Quattro anni dopo arriva la possibilità di essere la prima donna a far parte di una terna arbitrale ai mondiali, la rassegna calcistica più importante.
Purtroppo, a differenza di quanto accade nel film citato sopra, la protagonista di questa storia non è riuscita nella sua impresa. Lapidario il commento di Werz: «Non ha realizzato i tempi necessari nelle prove di velocità». La francese incassa la bocciatura e torna a casa. E’stato comunque bello accarezzare un sogno.
Una storia insolita quella di Nelly Viennot. In genere le donne lottano per avere gli stessi trattamenti degli uomini. Questa volta, forse, è stata proprio la pari opportunità ad essere fatale.
Spiace, per il calcio che ha perso una buona occasione per dare un segnale forte non solo allo sport, ma al mondo intero. Un mondo in cui, per esempio, le donne iraniane soltanto pochi giorni fa hanno potuto riacquistare il diritto di assistere agli avvenimenti sportivi, dopo essere state per oltre venticinque anni vittime dell’ignoranza e della discriminazione.
OLIMPIA Cintura mondiale rosa per la Cina di Stefania Trivigno

Il 22 luglio del 2001 la allora ventiseienne Maria Moroni sale sul gradino più alto di un podio tutto nuovo per il gentil sesso italiano: quello del ring.
Cinque anni fa, infatti, è stata la prima volta in cui la Federpugilato si è cimentata con successo nell’organizzazione di una competizione tutta al femminile.
Sebbene il Decreto Ministeriale del 1975 avesse regolamentato e dunque riconosciuto il pugilato come disciplina unicamente maschile, con il passare degli anni il numero sempre crescente di donne iscritte a corsi di pugilato ha reso necessario estendere tale decreto anche all’altro sesso.
Ed è così che nel 1996 si avvia la procedura che ben quattro anni dopo, nel 2000, istituirà la sezione di pugilato femminile. Anch’essa, come il pugilato maschile, ha norme specifiche e dettagliate che «quando non esplicitamente richiamato, valgono sia per l’attività maschile che femminile» – come detta una circolare della Federazione Pugili.
E mentre la maggior parte dei Paesi industrializzati discute preoccupata dell’improvviso boom economico della Cina e si affanna per cercare rimedi da porre a svariati problemi, come l’ultimo di questi giorni, che riguarda l’imitazione di un modello Ferrari degli anni '70, ecco che proprio dalla Cina arriva un’altra novità, questa volta positiva.
Zhang Xiyan, giovane donna di ventisei anni, vince il titolo mondiale di pugilato. Professionista da soli tre mesi, si è scontrata e ha battuto anche nell’ultimo match la statunitense Alicia Ashley.
La neo-campionessa ha parlato di grande felicità e soddisfazione perché la prima cintura mondiale in Cina arriva grazie alla sua tenacia e ostinazione.
Ma orgoglio soprattutto, perché in uno sport notoriamente maschile a far da padrona è attualmente una donna. Congratulazioni, Zhang.
EDITORIALE Uomini e no di Antonella Lombardi

Elio Vittorini, nel suo romanzo Uomini e no, si interrogava sulla “non umanità” di certi uomini che scelgono «una vita che non è tale» e che si abbrutiscono, feroci, sugli altri: «Questo era il modo migliore di colpir l'uomo, colpirlo dov'era più debole, dov'era più uomo». Fare leva sulla paura e sul silenzio.
Esistono diversi modi di dire no alla mafia.
Peppino Impastato, il giovane militante siciliano reso celebre dal film I cento passi, dai microfoni della sua Radio Aut ridicolizzava, con ostinato coraggio, l'autorità e l'aura di timorato rispetto di cui si circondano, da sempre, i boss mafiosi. Pagò con la vita il suo no alla mafia.
Oggi, suo fratello, Giovanni, ha scritto «con umiltà» una lettera accorata, lucida, ai figli di Bernardo Provenzano:
«Siamo tutti figli partoriti dalla stessa mafia», ha scritto Impastato, ma «tacere è condividere... Dimostrate a vostro padre che c'è un altro modo di vivere».
Ci sono stati tanti “no” coraggiosi alla mafia; tra questi, ci piace ricordare quello sofferto, ma deciso, di una ragazza, Rita Atria, che testimoniò in tribunale contro la mafia, nonostante il parere contrario della propria madre. All'esame di maturità si presentò con la scorta, vinse il proprio imbarazzo e scelse il tema sul giudice Falcone, parlò della purezza e del coraggio di cambiare. Modi di dire “no” che fanno grandi alcuni uomini e che rappresentano un esempio per tutti gli altri.
Ma esistono anche modi untuosi, servili e ambigui, in cui un “no” suona come un “nì” tanto da somigliare pericolosamente a un “sì”. Succede quando si dice che «la mafia non esiste», che l'abusivismo è un falso problema, in un meccanismo ipocrita di rimozione. Succede, ancora, quando si tappezzano i muri di una città con striscioni in cui c'è scritto, banalmente, che «la mafia fa schifo».
Ma prima o poi arriva, per tutti, il momento in cui bisogna decidere se essere uomini o no. Senza rinnegare l'amore profondo che lega un padre al proprio figlio, scrive Giovanni Impastato. Ma dicendo quel “no” che permette di vivere liberi «dalla finzione e dalla suggestione negativa di un codice d'onore che si fonda su dei disvalori».
Certi uomini, nel dire no, sanno essere grandi. E ci stupiscono.
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