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Telegiornaliste anno XXI N. 21 (800) del 17 settembre 2025
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Valentina
Cristiani, valore all'essere
di Giuseppe Bosso
Abbiamo nuovamente il piacere di incontrare
Valentina Cristiani,
giornalista e scrittrice sempre più sulla cresta dell'onda, per parlare
delle sue ultime attività e delle sue prossime fatiche.
Ben trovata, Valentina, è sempre un piacere sentirti. Anzitutto parliamo
della tua ultima fatica letteraria,
Non chiamateci quote rosa, edito da Pathos. Come nasce e perché
hai voluto affrontare questa tematica?
«Il libro Non chiamateci quote rosa, edito da Pathos Edizioni, è
un'opera profonda e necessaria che affronta di petto il complesso tema della
violenza di genere, dei pregiudizi e delle discriminazioni nel mondo del
giornalismo. Questo volume non è solo una raccolta di testi, di
testimonianze, ma un vero e proprio atto di coraggio e solidarietà. Al suo
interno, il libro racchiude le voci di 40 stimate giornaliste che, con
onestà e vulnerabilità, condividono episodi di violenza, sia verbale che
psicologica, subita nel corso della loro carriera. Sono testimonianze forti,
a volte dolorose, che squarciano il velo di un mondo spesso idealizzato per
mostrarne le ombre. Ci raccontano di commenti sessisti, di dinamiche
umilianti e di attacchi che minano la professionalità e la fiducia in sé
stesse. Sono esperienze che molte donne conoscono, ma che raramente vengono
portate alla luce in modo così esplicito. L'obiettivo del libro va oltre la
semplice denuncia. Vuole essere una riflessione profonda sull'importanza
della meritocrazia e della professionalità, al di là di ogni etichetta o
stereotipo. Le autrici non chiedono privilegi, ma rispetto e pari
opportunità. Chiedono di essere valutate per il loro valore, la loro
preparazione e la loro dedizione, senza dover combattere contro pregiudizi
ingiusti. Non chiamateci quote rosa è un inno alla autenticità e
alla forza delle donne. È una voce collettiva che dice: "Non siamo qui per
riempire una casella, ma per portare il nostro talento e la nostra
passione". Questo libro è un messaggio potente per tutte le donne che
lottano per farsi strada e per tutti gli uomini che vogliono essere alleati
in questa battaglia per la parità. È un invito a costruire un mondo del
lavoro più giusto e inclusivo, dove il merito sia l'unica vera moneta di
scambio».
Parlare ancora di quote rosa, quale che sia il settore, rappresenta
secondo te uno dei principali ostacoli a una effettiva parità di genere?
«Le quote rosa sono un tema complesso. Se da un lato possono agire come uno
strumento per rompere schemi consolidati e garantire una rappresentanza
minima, dall'altro, nel lungo termine, rischiano di degradare il merito e
creare un pregiudizio. Il pericolo è che una donna che ricopre una posizione
di rilievo venga sempre percepita con il dubbio che la sua presenza non sia
frutto del suo talento, ma di un'imposizione. L'obiettivo non è inserire le
donne per via di una legge, ma creare un sistema in cui il talento e le
competenze siano l'unico metro di giudizio».
Prefazione di
Giorgia Rossi, introduzione di
Paola Ferrari, postfazione di Federica Cappelletti, tre giornaliste di
spessore e che la nostra testata ben conosce: come è avvenuto il contatto
con loro e quanto hanno sentito di voler partecipare?
««Il contributo di Giorgia Rossi (Dazn), Paola Ferrari (Rai) e Federica
Cappelletti (giornalista e Presidente Serie A Femminile) è stato un regalo
inaspettato. Le ho contattate perché le ammiro profondamente, e ho trovato
in loro non solo delle professioniste, ma delle alleate. Non hanno esitato a
partecipare, a confermare l'importanza di un messaggio che sentivano come
loro. La loro adesione è la testimonianza che questo tema non è di nicchia,
ma che risuona in tutte le donne che hanno lottato per farsi strada con le
proprie gambe. Ma vi sono anche altre 40 storie, importanti, tutte da
leggere ed ascoltare».
Un punto importante è sicuramente dato dalle presentazioni che stai
svolgendo in luoghi come scuole e carceri: un segno di come questa tematica
deve essere avvertita ad ampio respiro non esclusivamente nell'ambito del
giornalismo?
«La decisione di portare il libro nelle scuole e nelle carceri è una scelta
di cuore. Avere richieste in Liguria e in Lombardia è importante per me e
per la mia collega Stefania Secci, giornalista investigativa. Spesso si
pensa che il tema della parità sia circoscritto all'ambiente lavorativo, ma
in realtà è un tema globale. Nelle scuole si parla ai ragazzi e alle
ragazze, gli adulti di domani, per far capire loro che il rispetto e la
parità sono valori fondamentali. Nelle carceri si trova un'attenzione
commovente e un desiderio di riscatto e di comprensione che va oltre ogni
barriera. Questo mi ha confermato che il messaggio del libro è un messaggio
universale, capace di toccare le corde più profonde dell'animo umano.
Invitiamo chi desidera ad averci nel suo Istituto o in un evento/convegno a
scriverci via e-mail: vcristiani@libero.it oppure sulla pagina Instagram del
libro "Non chiamateci quote rosa».
Quale speri sia il messaggio che i lettori e le lettrici trarranno?
«Spero che chi leggerà il libro si senta ispirato e, soprattutto, si senta
visto. Spero che le donne trovino la forza di credere in sé stesse, di non
farsi etichettare e di non doversi più confrontare con discriminazioni,
pregiudizi e violenza di genere nel posto di lavoro e in nessun ambito.
Spero anche che gli uomini comprendano il valore di una collaborazione equa,
dove il talento non ha sesso e il rispetto ed il consenso tornino a far da
padrone. Il messaggio più grande è che non siamo "quote", ma persone. E il
nostro valore non può essere calcolato con una percentuale. Il cambiamento
culturale è una sfida che ci riguarda tutti, e sebbene la scuola e la
famiglia abbiano un ruolo fondamentale nell'educare le nuove generazioni,
non possono essere l'unico motore di questa trasformazione. È essenziale che
anche gli uomini si facciano parte attiva e proattiva di questo percorso.
Questo significa andare oltre il semplice non fare del male: significa
impegnarsi attivamente per creare un ambiente più giusto ed equo.
Significa mettere in discussione vecchi stereotipi, ascoltare davvero le
esperienze degli altri e sostenere in modo tangibile le donne, sia in ambito
lavorativo che nella vita di tutti i giorni. Un vero cambiamento, infatti,
si realizza quando le parole si traducono in azioni concrete. Quando gli
uomini usano la loro voce per denunciare le ingiustizie, quando promuovono
la parità e quando, con l'esempio, dimostrano che una società basata sul
rispetto reciproco è possibile. Quando sono loro stessi a mettersi in prima
linea per vincere la battaglia del cambiamento».
Siamo alla nostra quarta chiacchierata a partire dal
2013, e certamente ogni volta ti abbiamo trovata aver compiuto un
ulteriore passo in avanti nella tua crescita: rispetto a quel nostro primo
incontro in cosa pensi di essere cambiata maggiormente e come sono cambiate
le tue aspirazioni?
«Dal 2013, il mio percorso è stato un viaggio verso una nuova visione di me
stessa. All'epoca, mi concentravo sul "fare" per dimostrare il mio valore
agli altri, e a me stessa. Oggi, ho imparato a valorizzare l'“essere". La
mia ambizione è usare la mia voce per dare spazio a chi non ce l'ha,
raccontando storie che ispirano e promuovono un cambiamento culturale.
Questo, per me, è il vero successo».
Parliamo infine dei tuoi prossimi impegni televisivi, che presto ti
vedranno coinvolta in un nuovo format. Puoi anticiparci qualcosa?
«Per il momento non posso svelare molto, ma posso dirti che sarà un progetto
che - insieme alla cara amica e collega Stefania Secci - ci sta molto a
cuore. Sarà un format completamente nuovo, che ci vedrà in un ruolo che,
seppur diverso, sarà in continuità con la nostra missione. Spero di poter
unire il rigore del giornalismo con la capacità di intrattenere e di
raccontare in modo autentico, mettendo al centro le persone e le loro
storie. A breve ci saranno novità, tenete gli occhi aperti sui miei social.
Chi ha vissuto un episodio di pregiudizi, discriminazioni e violenza di
genere o desidera averci nel suo Istituto o in un evento/convegno può
scriverci una mail a: vcristiani@libero.it o nella pagina Instagram del
libro Non chiamateci quote rosa».
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Alessandro Parise, il ponte di A&F Dubbing
di Giuseppe Bosso
Mettere a disposizione la propria esperienza a favore delle
nuove generazioni e dei talenti emergenti: una vera e
propria mission per
Alessandro Parise.
Benvenuto su Telegiornaliste, Alessandro. Com'è nata la
sua esperienza di, per così dire, 'mentore' presso
A&F Dubbing, di cui abbiamo parlato con
Perla Liberatori qualche mese fa?
«A&F nasce da un’esigenza di creare un ponte di
comunicazione tra la formazione attoriale e il mondo
professionale. Ho fatto tanti anni di insegnamento durante
tutto il mio percorso artistico personale e ho lavorato
all’interno di tante strutture come docente ma sempre
dovendo allinearmi alle esigenze di chi organizzava,
esigenze che il più delle volte non collimavano con la mia
visione di gestione di una struttura di formazione in
relazione alle famiglie e agli studenti. La formazione
richiede molta attenzione e il formatore deve poter
accogliere tutte le necessità dello studente cercando di
rispondere a tutti i suoi dubbi, esplorando le sue paure che
sono anche i suoi limiti e cercando di semplificare le
informazioni che spesso nella sua testa non trovano le
risposte giuste. Formare non vuol dire solo insegnare la
materia, ma avvicinarsi anche alla sfera emotiva di un
allievo per capire cosa impedisce, durante il suo percorso,
di arrivare alla meta. Il lavoro professionale è pieno di
ostacoli, di alti e bassi emotivi, e se l’allievo non impara
a costruirsi la sua armatura rischia di andare a sbattere
contro muri molto pesanti da abbattere. Per questo come
insegnanti bisogna avere la sensibilità per approcciarsi
nella maniera più consona e personale e bisogna oltretutto
capire le esigenze del singolo e non solo della
collettività. All’interno di queste dinamiche bisogna creare
disciplina e dare uno spazio importante alla socialità e
all’inclusione per recuperare quelle che spesso e volentieri
la società attuale tende a distruggere per tutta una serie
di impulsi negativi. A&F è stata una lampadina che si è
accesa nella mia testa, il desiderio di coronare un sogno di
insegnamento che avesse la mia firma e che potesse
trasmettere ai nostri allievi gli stessi valori acquisiti da
me durante tutta la carriera artistica variegata».
Perla ci parlò proprio di 'esigenza di mettere a
disposizione' il bagaglio di esperienza a favore delle nuove
generazioni: possiamo dire che in qualche modo la vostra
mission va in controtendenza ad altri ambiti dove il primo
punto per i giovani è proprio quello di iniziare potendo
contare sul supporto di persone di esperienza?
«La nostra mission è quella di creare un’ambiente di grande
comfort dove spesso i giovani sono spaventati dalla
comunicazione verbale e gestuale perché diseducati a farlo
per tante sollecitazioni sbagliate derivanti dal loro
background pregresso. Allo stesso tempo non li educhiamo a
vivere in una bolla d’aria, sganciati dalla realtà ma li
mettiamo realmente in guardia da tutti gli ostacoli che
potranno incontrare lungo il percorso senza mai perdere di
vista il loro obiettivo principale che è la realizzazione
del loro sogno di diventare dei professionisti. Per entrare
in A&F bisogna sostenere un colloquio motivazionale. Io non
credo nel provino al leggio consumato in pochi minuti.
Spesso è inutile, quello che conta per me sono le ragioni
della scelta di un percorso così particolare come può essere
quello artistico. Chi ha le idee chiare ed è resiliente ha
molte più chances di chi crede di avere talento ma si
accontenta della sufficienza. Il talento non è sufficiente
per diventare dei professionisti con la P maiuscola».
Uno degli aspetti più problematici di oggi è l'impatto
che la tecnologia, e in particolar modo l'intelligenza
artificiale rischia di avere nel settore artistico, in tutte
le sue sfaccettature, se non adeguatamente veicolata. Lei
cosa ne pensa?
«L’IA è un problema reale e oggettivo con cui faremo i conti
e con cui stiamo già facendo i conti. È entrata in modo
prepotente nella nostra società sbattendoci in faccia che
siamo molto più aridi e pigri di quello che immaginavamo. La
tecnologia è una cosa meravigliosa e aiuta il progresso in
maniera straordinaria e io la amo follemente perché può
aiutarci a migliorare le nostre aspettative di vita, ma come
tutte le cose straordinarie e importanti scientificamente è
anche temibile e non c’è alcun dubbio su questo. Perché
annichilisce la mente umana, appiattisce il giudizio
critico, falsa ampiamente il rapporto con la realtà ed
espone in modo incontrollabile tutti noi potendo distruggere
in un battito di ciglia la nostra privacy e la nostra
dignità umana. Quindi sì, usata impropriamente può portare
ad un appiattimento non solo nel nostro lavoro ma in tutti i
mestieri, privandoci del gusto di quello che nel cinema
stiamo già rimpiangendo: “l’artigianato”. Quello che rende
le persone speciali e non le omologa come fanno i social. Io
sono molto social perché sono molto curioso ma devo
ammettere che cerco di scardinare tutto quello che nel
linguaggio social si chiama “trend”. Seguire la massa… l’ho
sempre respinto. Le grandi menti, i grandi pensatori, i
grandi condottieri della storia hanno fatto la differenza
perché si sono staccati dal pensiero di massa. Tutto questo
però ha un prezzo molto alto, che in pochi sono disposti a
pagare. Rudolf Nureyev diceva: Chi vola alto, è sempre
solo. È proprio vero, più rischiamo, più cerchiamo di
non uniformarci, più cerchiamo di fare la differenza e più
rimaniamo soli».
Ho avuto modo di intervistare una delle vostre più
promettenti allieve,
Angelica Tuccini, che anche grazie al vostro supporto
oltre ad acquisire esperienza nel campo del doppiaggio sta
emergendo anche come attrice senza disdegnare altri ambiti
come la danza: possiamo dire che i vostri corsi offrono una
formazione davvero a 360 gradi?
«Angelica sta crescendo con me e come tutti i miei allievi
più giovani è come una figlia. È una bambina brillante,
dotata di una grande attitudine all’arte. È molto energica e
il lavoro che bisogna fare con lei è incanalare tutta la sua
energia. Quando un bambino è un enfant prodige come
sicuramente lei è e come lo sono altri bambini della nostra
scuola come Luna Massari, Gabriele Tonti, Gabriele
Piancatelli e tanti altri che sono ancora miei allievi o lo
sono stati bisogna stare molto attenti perché in genere
hanno personalità complesse che con l’andare degli anni se
non vengono fortificate e strutturate possono incontrare
delle problematiche. L’adolescenza è un passaggio molto
delicato e se non si lavora bene anche con i genitori, non
solo con i figli si rischia di fare solo un grosso danno. Il
mestiere artistico ai primi successi infiamma figli e
genitori ma quando capita, e ti assicuro che capita, che si
ha una frenata brusca, se non si è preparati bene si rischia
di disamorarsi. Ecco a cosa serve la formazione continua.
Ecco perché in America a differenza dell’Italia gli attori
cercano sempre i coach. Perché sanno molto bene quanto il
sostegno sia determinante per il loro percorso. I nostri
corsi offrono il giusto valore che si può offrire ad uno
studente che cerca un indirizzo per arrivare al suo
obiettivo. Quest’anno abbiamo inserito nella nostra scuola
un percorso teatrale perché è importante capire come
approcciarsi ad un testo senza il vincolo del sync, è
importante acquisire una personalità artistica, è importante
imparare a gestire il proprio corpo e la propria voce al di
là del lavoro di un altro attore. Quando doppiamo noi ci
mettiamo al servizio di un’interpretazione fatta da un altro
attore. Non avere consapevolezza del proprio mondo emotivo,
del proprio universo creativo porta molti giovani a cercare
un suono nella voce che spesso e volentieri è un
significante svuotato del suo significato. Un involucro
svuotato del suo contenuto. Recitare in teatro aiuta a
raccontare il proprio universo emotivo al di là di tutto».
Oltre che per gli sviluppi tecnologici, come pensa sia
cambiato il mondo del doppiaggio rispetto i suoi inizi?
«È cambiato tutto perché sono cambiati i tempi. È cambiata
la modalità di lavoro. I tempi sono molto più serrati a
discapito a volte della qualità interpretativa. Chi ha
struttura, chi ha un peso specifico ovviamente si impone per
conservare quel valore. Ma la società è cambiata ovunque.
Tutto è veloce, tutto è immediato e non si ha più voglia di
aspettare, di ascoltare e di accettare una critica per
costruire un valore artistico. Questo è cambiato. D’altro
canto, è vero che la recitazione di ieri non si sposerebbe
più con il cinema e la televisione di oggi. Ogni epoca
storica ha le sue regole e il suo stile. Oggi la tecnologia
ti permette di rifare una battuta anche spezzettata e di
fare i cosiddetti incastri. Ma frammentare
un’interpretazione e non avere il collega in sala come
contraltare vizia necessariamente l’interpretazione e questo
può abbassare la qualità del lavoro fatto a monte dagli
attori in originale. È ovvio che l’esperienza attoriale in
questo viene a supporto dei direttori. Il doppiaggio, però,
per quanto tecnicamente impeccabile rimane comunque un
tradimento dell’originale come lo sono le traduzioni dei
testi teatrali shakespeariani e tutti i testi stranieri. Fa
parte del gioco ed è anche la meraviglia di questo gioco che
ha creato un grandissimo indotto in questi ultimi anni, un
indotto fatto di appassionati che hanno dato il giusto
valore alla fatica e al sacrificio fatto da tutti i
professionisti che prima erano solo voci nell’ombra».
Dove potremo ascoltarla prossimamente?
«Io sono molto legato ad un attore che ho avuto il piacere
di doppiare di recente. Tramell Tillman protagonista della
serie di successo Scissione. Lui è stato scelto per
interpretare il capitano Jack Bledsoe nell’ultimo capitolo
di Mission Impossible, già uscito nei Cinema. A breve sarà
disponibile anche sulle piattaforme. Purtroppo non posso
parlare dei progetti ancora non annunciati per la clausola
di riservatezza che si firma al momento dell’impegno
lavorativo. Quello che posso dirvi è che Tramell sta
diventando un attore di grande successo in America e hanno
già annunciato un altro grosso progetto a cui prenderà
parte. Spero vivamente di poter continuare a doppiarlo
perché trovo che sia un attore magnifico e pieno di
sfumature».
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Mena
Alfano, fermarmi io? Mai!
di Giuseppe Bosso
Sei anni fa ci eravamo incontrati per la prima volta, per
parlare di come da imprenditrice si era affermata anche come
organizzatrice di eventi. Incontriamo con piacere ancora una
volta
Mena Alfano per parlare di un'importante e
significativa novità che negli ultimi anni ha riguardato la sua
vita.
Bentrovata, Mena. Da quando ci eravamo incontrati la prima
volta sei anni fa c'è stata per lei una importante novità che
l'ha portata direttamente a entrare in Vaticano. Cosa è
successo?
«Mi fa molto piacere incontraci di nuovo. Tutto è iniziato
davvero per caso: i miei figli vivono a Roma da ormai 15 anni ed
era nato il mio secondo nipotino. Ho avuto la possibilità di
fare questo colloquio, ad essere sincera non con molta
convinzione da parte mia, con la Pontificia Università Urbaniana
per la gestione del bar/mensa degli studenti e degli eventi che
si svolgono all'interno del campus. Nonostante il mio
scetticisimo, sono stata scelta tra i tanti candidati e mi sono
ben presto resa conto che per me avrebbe rappresentato un
cambiamenti importante che mi ha subito coinvolta. Poter vivere
a stretto contatto con professori e seminaristi provenienti da
tutto il mondo è una soddisfazione e una gioia che non avrei mai
immaginato, per come mi hanno accolta e apprezzato la mia
professionalità fin dal primo momento. Al momento sto valutando
se proseguire visto che i carichi di lavoro sono sempre altri e
non è semplice alternarsi tra Roma e la Campania dove ci sono le
mie attività commerciali a Sant'Antonio Abate. Ma chi mi ha
scelta davvero non vorrebbe che lasciassi l'Urbaniana, quindi ci
dovrò pensare molto attentamente».
Un episodio o un aneddoto significativo che ha caratterizzato
questa esperienza?
«L'incontro con il cardinale Tagle, quando è venuto per la prima
volta a fare colazione da me, durante il periodo delle festività
natalizie, in occasione della sua visita per celebrare una
messa. La Pontificia Università Urbaniana dipende dal Ministero
Propaganda Fide che fa capo appunto a lui, se ricordate in
primavera uno dei più accreditati nomi per la successione di
Papa Francesco. Mi ha fatto anche la benedizione sulla fronte;
si è complimentato per come avevamo organizzato quell'evento che
ha coinvolto circa 400 ragazzi e un centinaio di docenti».
Inevitabile parlare di quello che è successo ad aprile con la
scomparsa di Papa Francesco e l'elezione di Leone XIV. Ha
avvertito l'atmosfera che è legata a questi cambiamenti epocali?
«Sì, posso dire di aver vissuto, anche per la vicinanza del bar
con Piazza San Pietro, sia gli ultimi giorni di Papa Francesco
che l'avvento di Leone XIV. I mesi della malattia del precedente
papa sono stati un periodo di fermo e di silenzio per noi, non
potrebbe essere diversamente per chi, come i ragazzi che
studiano alla Urbaniana, è destinato a diventare vescovo o a
ricoprrie cariche di livello, nel pieno rispetto di un regime
serrato che si impone a questi studenti fin dall'inizio. Leone
XIV ha portato delle novità ma ha confermato le cariche a chi
operava nel nostro settore già sotto Francesco».
Com'è cambiata la sua vita, oltre questa importante novità,
rispetto al nostro primo incontro?
«Tanto per cominciare ho dovuto necessariamente prendere
alloggio a Roma, anche se come dicevo mi divido tra lì e
Sant'Antonio Abate; ho imparato a vivere da sola, gestire sia
pure con il supporto delle istituzioni e delle persone che mi
hanno conferito questo incarico un'azienda di grandi dimensioni.
Allora avevamo parlato del Festival di Napoli che stava per
iniziare; per me ha rappresentato un momemto di crescita in cui
ho lavorato a stretto contatto con la Regione Campania , e non
nascondo che ha rappresentato un background che poi mi è servito
tantissimo in occasione del passaggio a Roma, sia pure legata a
un diverso contesto, non più concorrenti di un concorso canoro
ma studenti di tutto il mondo destinati a essere il futuro delle
gerarchie ecclesistiche, docenti che insegnano lingue come il
cinese».
Quindi ha accantonato la sua attività di organizzatrice di
eventi?
«Più che accantonato direi che relativamente al Festival di
Napoli è stata una scelta mia. Non per essere presuntuosa e
assolutamente senza avere nulla contro Massimo Abbate, ma mi
pare che la manifestazione negli ultimi anni abbia perso molta
della visibilità che aveva acquisito in quel periodo. Dico
semplicemente che in quella esperienza come in tutte le altre
mie attività ho improntato una visione proiettata al nuovo,
all'innovazione, perché ogni anno bisogna fare un passo in
avanti. Se un festival come quello, dedicato alla canzone
napoletana, non si mostrava diverso dall'edizione precedente,
per me avrebbe rappresentato un fallimento. Ripeto, non ho nulla
contro l'atuale direttore artistico, ma vedo che sul piano
organizzativo manifesta una certa gelosia e un certo spirito di
conservazione che, a mio modo di vedere, si rivela
controproducente. Vedo che nell'ultima edizione nemmeno si è
svolta a Napoli la manifestazione, non essendo riusciti a
trovare un teatro di livello per ospitarlo».
Il cambiamento spaventa ma è un passo necessario da compiere
per la crescita: è stato così anche per lei, dunque?
«Cambiare spaventa perché metaforicamente rappresenta una sorta
di salto nel vuoto, come gettarsi con un paracadute. Ma tutto
dipende dalla tua abilità e dalla tua capacità di saperti
adeguare, che ti consente di affrontare quel salto in modo
impeccabile se ti dimostri bravo. E riemergi a testa alta. In
Vaticano sono entrata a testa alta, perché chi mi ha scelto ha
capito quale fosse la mia professionalità, tanto che in molti mi
chiedono di restare per proseguire questa esperienza; un
ulteriore testimonianza che mi fa capire quanto sia stato
apprezzato il lavoro fin qui svolto».
Un'impressione che mi aveva dato anche nel nostro primo
incontro è che la sua preoccupazione più forte è quella di non
avere più stimoli.
«Sì. Mi reinvento sempre, nel senso che non riesco mai a stare
ferma, come ti avevo detto già l'altra volta. Potrei magari
adesso darmi un freno, dedicarmi di più alla famiglia e ai
nipotini, ma per il momento è davvero qualcosa che non riesco
proprio a concepire. Preferisco ancora portare avanti il nome
della Pasticceria Mena, che è diventata riconoscibile non solo a
livello nazionale ma anche all'estero; qualcosa di nuovo lo
sperimenteremo, ho un paio di eventi in organizzazione in
Vaticano per i prossimi mesi. Diciamo che al momento mi sento
sotto punto interrogativo».
E ricordo bene infatti come avesse voluto sottolineare già
allora quel “non riesco mai a stare ferma”: da un lato
sicuramente una dote positiva ma che, dall'altro, presenta un
inevitabile rovescio della medaglia rappresentato dal dover
sacrificare qualcosa in ambito affettivo e dal doversi in
qualche modo distaccare dalle proprie radici.
«Sì, in questi anni ho fatto molti sacrifici e molte rinunce,
come inevitabilmente avrebbe comportato il vivere a Roma cinque
giorni su sette, in un contesto dove la stanchezza è tanta sia a
livello fisico che mentale. Le problematiche degli ultimi mesi
legate ai trasporti sono state un ulteriore fardello, ma ho
affrontato tutto questo all'insegna dello spirito del “dobbiamo
vincere questa sfida”. L'unico vero rimpianto è il vedere poco i
miei nipotini, e proprio per loro sto ponderando di fare non
dico un passo indietro ma rallentare un po' i ritmi».
Se possiamo concludere con un battuta, senza voler
assolutamente istigare nessuno al rapimento che è perseguibile
penalmente, chi tra i suoi familiari, i suoi collaboratori e le
persone che le hanno conferito l'incarico a Roma sarebbe
disposto a legarla su una sedia pur di trattenerla?
«(scoppia a ridere, ndr) A dire il vero tutti; mio marito e i
miei collaboratori, mia cognata e mio fratello anzitutto, che
gestiscono le attività a Sant'Antonio Abate si sentono più
tranquilli quando ci sono io, formiamo un gruppo molto più
compatto. Le persone in Vaticano, sì, mi legherebbero,
specialmente gli studenti con i quali si sono creati dei legami
solidi in questi anni e al pensiero di non vedermi più aprire il
bar dove interagiscono e dove trascorrono molto tempo ci
resterebbero male. E anche i docenti, che mi hanno regalato
anche anni di crescita culturale, rendendomi, penso, anche molto
più saggia... insomma l'elenco dei miei potenziali
'sequestratori' è lungo, ma sono certa che nessuno dovrà mai
arrivare a legarmi come hai detto».
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