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Telegiornaliste anno XXI N. 9 (788) del 12 marzo 2025
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Elisa
Barresi, parte del cambiamento
di Giuseppe Bosso
Volto del network
LaC
incontriamo Elisa Barresi.
Raccontare la Calabria che, come ha detto, si può fare in modo diverso:
come definirebbe questo suo lavoro?
«Sono tornata nella mia terra, dopo aver studiato e lavorato fuori dalla
Calabria. La mia è una storia fatta di ritorni. Ho scelto di tornare in
Calabria perché volevo essere parte di un cambiamento possibile. La gavetta
è stata lunga, ma solo grazie a questa sono riuscita ad entrare in contatto
con l’anima autentica di questa terra benedetta da Dio e maledetta dagli
uomini. Da qui è iniziato il mio racconto di una terra che vede la
meraviglia fare a pugni con storture e bruttezze. La ‘ndrangheta la racconto
come un fenomeno che la parte bella e sana di questa terra sta lottando per
debellare. Non ho mai nascosto che si tratti di un’impresa a tratti
sfinente. Spesso mi è rimasto l’amaro in bocca ma tra le mille storie che ho
raccontato e ho vissuto come se fossero mie, ho compreso quanta umanità
esiste in questa terra. Tra la sofferenza ho scovato angoli di assoluta
meraviglia che ho deciso di tirare fuori dall’animato e raccontare per
ridare dignità a una regione che merita di essere raccontata sotto una lente
diversa. Storie di chi ha detto no, di chi non si è piegato, di chi ce l’ha
fatta e adesso parla una calabresità diversa dagli stereotipi e che sa di
stupore e successo».
Si è molto impegnata soprattutto per trattare i temi legati alle fasce
deboli. Come si è svolto questo suo percorso?
«Credo che in questo mi abbia aiutato una predisposizione personale a non
cadere mai nell’indifferenza. Ho compreso che grazie a questo lavoro avrei
potuto realmente aiutare tante persone a superare enormi difficoltà. Così un
passo alla volta, una storia alla volta ho imparato che dare, aiutare ed
esserci per i più deboli era per me un arricchimento profondo. Così ho
deciso che avrei dato voce a chi voce non ha. Ho compreso che avevo la
responsabilità di ascoltare e fare da megafono a chi è solitamente ai
margini della società. Così gli invisibili, i sofferenti e quanti non sono
mai stati ascoltati hanno trovato un punto di riferimento. Vivo l’isolamento
come una forte ingiustizia sociale ed è per questo che ho voluto fortemente
diventare un punto di riferimento di quanti solitamente non vengono
ascoltati».
Raccontare un contesto territoriale, magari con meno mezzi rispetto a un
grande network ma con più possibilità di essere a stretto contatto con il
territorio e comunità: pro e contro.
«In questi oltre 15 anni di carriera ho avuto la fortuna di vivere i
cambiamenti dell’informazione. Negli ultimi anni all’interno del network LaC
ho avuto la possibilità di raggiungere un pubblico molto più ampio. I primi
anni, invece, mi hanno fatto apprezzare la fatica che si nasconde dietro
questo mestiere. Poter vivere un territorio e raccontarlo allo stesso tempo
lo vivo come un privilegio perché conosco della mia terra tante
sfaccettature. Conosco l’animo delle persone che la abitano e il continuo
mutare di dinamiche molto sottili che in un contesto più ampio rischiano di
venire sottovalutate. Sono e mi sento parte di qualcosa che sta evolvendo,
un processo in divenire che sono certa mi porterà a stupirmi ancora e
ancora».
È vero che durante il lockdown e la pandemia ha vissuto forse la sua
esperienza più emotiva da quando ha iniziato il suo lavoro da giornalista?
«Credo che quel periodo mi abbia letteralmente cambiato la vita. Il giorno
dopo l’annuncio che una pandemia avrebbe cambiato il nostro modo di vivere
sono stata inviata a seguire e raccontare l’emergenza direttamente
dall’ospedale. Dietro quegli scafandri bianchi, mascherine e vetri della
terapia intensiva ho visto vite spegnersi. Ho visto la sofferenza dei medici
a ogni vita che non riuscivano a strappare alla morte. La gente ha la
memoria corta e oggi sembra tutto essere stato dimenticato ma io quella
conta di vittime giornaliera non credo che la dimenticherò mai. Ho imparato
tanto dalla pandemia. Ho imparato il valore di ogni singolo istante e come
nulla andrebbe dato per scontato. Ho compreso che siamo di passaggio e il
dolore se condiviso può aiutare a crescere e diventare migliori. Ho imparato
che gli abbracci non vanno lesinati e che dovremmo dare tutto ciò che
possiamo finché possiamo. Che gli occhi parlano oltre le mascherine e che se
comunicano sofferenza non vanno mai ignorati».
Di cosa non vorrebbe più trattare nelle sue inchieste?
«Lo so che è utopia ma vorrei non dover più accostare la Calabria alla
‘ndrangheta. Mi piacerebbe non dover parlare più di morti ammazzati, di
estorsioni, di disagio giovanile che sfocia spesso in violenza. So che non
sarà possibile ma sognare non costa nulla e vorrei in futuro poter
continuare ad occuparmi dei più fragili affinché non si sentano mai soli
nelle loro battaglie».
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Raffaele
Carpentieri, voci che prendono vita
di Giuseppe Bosso
Incontriamo
Raffaele Carpentieri, attore e doppiatore.
Ciao Raffaele. Ricordi la tua prima volta in sala? Cosa
ha rappresentato per te?
«La mia prima volta in sala è stata un’esperienza che non
dimenticherò mai. Ero ad un turno per una serie TV con la
direzione della grande Chiara Colizzi (voce italiana di
Nicole Kidman e Uma Thurman, ndr). Ricordo la tensione e
l’emozione di entrare in uno studio di doppiaggio, un posto
che sentivo come "magico", un luogo dove le voci prendono
vita e danno un'anima ai personaggi. Per me, quella prima
volta ha rappresentato l’inizio di un percorso che stavo
finalmente concretizzando. È stato un mix di paura e
adrenalina, ma anche un'intensa soddisfazione personale:
avevo trovato un posto dove potevo esprimere e dare vita a
nuovi mondi solo con la voce, una nuova esperienza rispetto
al teatro e alla tv che fino a quel momento avevano sempre
avuto la precedenza».
Quali sono i personaggi a cui hai prestato voce con cui
ti sei sentito maggiormente in sintonia e chi invece è
proprio il tuo opposto?
«Mi sento particolarmente in sintonia con personaggi che,
come me, hanno una forte determinazione e passione. Un
esempio potrebbe essere Ben Hur in cui ho prestato la
voce ad un personaggio epico e ad un attore straordinario
come Jack Huston. Ma anche Glen Powell nel ruolo di
"Hangman" in Top Gun: Maverick. Allora stesso tempo
però è stimolante doppiare anche personaggi opposti a me.
Infatti penso che la bellezza della recitazione e del
doppiaggio sia poter essere diversi da sé per alcune ore e
"giocare" con l'altro. Ultimamente ho doppiato il
personaggio di Emir Kozciuoglu in Endless Love.
Sebbene sia un personaggio tormentato e negativo, c'è una
complessità emotiva in lui che mi ha spinto a esplorare
molte sfaccettature del suo carattere, cercando di trovare
quella vulnerabilità nascosta sotto la sua durezza. Un altro
personaggio che è completamente diverso da me, ma che mi ha
comunque affascinato, è Frenchie in The Boys.
Entrambi mi hanno permesso di esplorare una parte di me che
normalmente non esprimo. Il contrasto con questi personaggi
mi ha insegnato molto sulla mia versatilità e sulla bellezza
di interpretare anche chi non mi somiglia per niente».
Più arduo 'metterci la faccia' da attore o 'metterci la
voce'?
«Ogni forma di recitazione ha le sue sfide. "Metterci la
faccia" da attore implica un lavoro fisico, di presenza e di
espressioni che sono immediatamente visibili e riconoscibili
dal pubblico. "Metterci la voce", invece, è un lavoro più
invisibile, ma altrettanto complesso. Devi essere capace di
esprimere emozioni senza un supporto fisico visibile, solo
con il timbro e la modulazione della voce per ricreare una
emozione già espressa in originale da un altro attore.
Personalmente, trovo che il doppiaggio abbia un fascino
incredibile, ma è anche una delle cose più difficili perché
tutto il peso della performance è concentrato sulla voce,
senza l’aiuto "visivo" delle espressioni facciali o dei
gesti. Diciamo che entrambe le esperienze sono difficili, ma
in modo diverso. È sempre una sfida in entrambi i casi».
Il vostro ambito è tra quelli maggiormente esposti al
rischio rappresentato dall'intelligenza artificiale: non
rischiamo davvero di andare incontro a uno scenario come
quello descritto da pellicole distopiche dove l'essere umano
finisce per essere dominato invece che dominare la
tecnologia?
«La questione dell’intelligenza artificiale nel nostro
settore è sicuramente molto dibattuta. Siamo in un periodo
di grande evoluzione tecnologica, e se da un lato l'IA può
essere un alleato per migliorare alcuni processi, dall’altro
c’è il rischio che essa possa sostituire o ridurre la
necessità di artisti umani, soprattutto nel mondo del
doppiaggio e della recitazione in generale. Detto ciò, credo
che l’intelligenza artificiale possa essere uno strumento
che supporta e arricchisce il nostro lavoro, ma credo che
non potrà mai sostituire l’emotività e la personalità che
l'essere umano riesce a trasmettere. L'intelligenza
artificiale può "imitare", ma non può "sentire" nel vero
senso del termine. Quindi, pur avendo il potenziale di
cambiare alcune dinamiche, sono convinto che la componente
umana resterà insostituibile, perché dietro ogni personaggio
e ogni storia ci sono le emozioni che solo un essere umano
può restituire in modo genuino. Dobbiamo batterci perché
l'arte non venga risucchiata nel vortice freddo di una
macchina».
Dove potremmo 'ascoltarti' prossimamente?
«Al momento è al cinema il film A Real Pain, che ha
recentemente vinto un Oscar, e L'Erede, un bellissimo
thriller francese in cui ho doppiato il protagonista Marco
André Grondin. Il 13 marzo uscirà al cinema Global
Harmony, del regista italiano Fabio Massa, con Maria
Grazia Cucinotta ed Enrico Lo Verso, in cui doppio il
protagonista. Prossimamente, potrete ascoltarmi in alcuni
nuovi progetti di doppiaggio che stanno arrivando, sia in
ambito serie TV che film. Sto lavorando a un paio di
produzioni internazionali che saranno presto disponibili in
Italia. Ovviamente, non posso ancora svelare troppo, ma vi
consiglio di restare aggiornati sui miei canali social. E
chissà, magari ci sarà anche qualche novità in ambito
teatrale o cinematografico!». |
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Addio
Eleonora Giorgi
di Silvestra Sorbera
Si è spenta a poco più di settant'anni Eleonora Giorgi,
tra le più brave e amate attrici del panorama italiano.
Un tumore al pancreas l'aveva colpita diverso tempo fa,
ma la forza di combattere non le era mai mancata.
Nelle ultime interviste rilasciate prima del ricovero
aveva dimostrato tutta la sua forza e l'amore per la sua
famiglia. I due figli, avuti da due matrimoni diversi
ma soprattutto il grande amore per il nipotino Gabriele.
Dopo l'annuncio della sua dipartita sono stati tantissimi i
messaggi di cordoglio da parte dei colleghi che
avevano avuto modo di conoscerla e di lavorare con lei, ma anche
di persone comuni che si erano innamorate del suo
sorriso dolce e mai artefatto come se fosse veramente l'amica
a cui confidare i segreti più intimi.
Protagonista di moltissimi film a partire dagli anni
sessanta ha interpretato i ruoli più disparati lavorando
con grandi registi e attori.
I social si sono scatenati dopo la sua morte continuando
a commentare la notizia con estremo dolore. |
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