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Telegiornaliste anno XX N. 16 (763) del 15 maggio 2024
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Manuela
Donghi, obiettivi e come raggiungerli
di Giuseppe Bosso
Con piacere incontriamo nuovamente
Manuela Donghi. Ne è passata di acqua sotto i ponti dalla nostra
prima chiacchierata, datata 2006, e dalla ragazza che aveva partecipato a
Miss Italia anni prima, che aveva mosso i primi passi nel mondo del
giornalismo dopo una serie di esperienze televisive legate al mondo dello
spettacolo e che progressivamente, allora e negli anni a venire, avrebbe
compiuto importanti passi in avanti.
Bentrovata Manuela, ne è passato di tempo dalla nostra prima
chiacchierata, realizzata nell’ormai lontano 2006: com’è cambiata la tua
vita in questi anni?
«È un grande piacere essere di nuovo con voi dopo tanto tempo, grazie
davvero! Per raccontarvi come è cambiata la mia vita in questi anni ce ne
vorrebbero altrettanti, ma per semplificare, diciamo che dal 2006 a oggi c'è
stata una continua evoluzione che mi ha portato a proseguire sulla strada
che fin da piccola ho deciso di percorrere, quella del giornalismo. Ho
iniziato presto, mentre ancora studiavo all'università, e ho fatto tanti
piccoli passi che ogni volta mi hanno permesso di aggiungere conoscenza,
formazione, abilità, esperienza. Ho sperimentato un po' di tutto: la carta
stampata, la tv, la radio, il palco... oggi i social. E dopo essermi
occupata di temi sociali e di politica, ormai da qualche anno seguo
l'economia e la finanza. Oggi sono vicedirettore editoriale di
Giornale
Radio FM e conduco un programma quotidiano "Next Economy".
Ovviamente, essendo una persona iperattiva (ahimè... sto ridendo,
naturalmente!) non mi fermo qui: sono spesso "itinerante" per eventi,
moderazioni, speech, e intervengo stabilmente come opinionista in
trasmissioni televisive come Mattino Cinque su Canale 5, la Rassegna
Stampa di
Rai News24 o Di Martedì su La7. E poi dall'ultima volta in
cui ci siamo sentiti ho scritto 5 libri, un altro mio grande sogno fin da
bambina!».
Dagli inizi nel mondo dello spettacolo all’inizio di questa avventura nel
mondo dell’informazione che ti ha portata ad abbracciare vari settori, dal
sociale all’economia: quale pensi sia stata la tua marcia in più, non per
tornare su argomenti che trattammo nella prima intervista come le difficoltà
che hai incontrato a superare stereotipi, sui quali preferisco ovviamente
non ulteriormente soffermarmi?
«Qualcuno li chiama "successi", io preferisco definirli "obiettivi
raggiunti". Ecco: la (mia) marcia in più è questa: piano piano e con tanti
sacrifici (che assolutamente rifarei), ho aggiunto. Aggiunto cosa? Tasselli
che hanno poi portato appunto all'obiettivo. Fin da quando ho iniziato a
muovere i primi passi in questo lavoro (che comunque è molto complicato e
insidioso) ho continuato a ripetere a me stessa che non mi importava “dove”
sarei arrivata. Ma “come” sarei arrivata e “come” avrei continuato a fare
ciò che sentivo dentro di me e che mi ha sempre rappresentata».
Hai intitolato Le cose capitano il tuo secondo romanzo: è un
titolo che in realtà potrebbe rispecchiare anche la tua storia di vita?
«Beh, penso che rispecchi un po' quella di tutti! È vero che tutti noi
abbiamo una progettualità e cerchiamo in ogni modo di seguire le nostre
inclinazioni per raggiungere dei traguardi, ma è altrettanto vero che ci
sono cose che non possiamo controllare. O che magari arrivano non proprio
quando lo mettiamo in conto. Per questo, in generale, credo che in tutte le
cose che facciamo ci sia una dose di "fatalità'": se una cosa arriva è
perché deve andare così. Però attenzione, non a caso ho specificato "una
dose": questo non deve essere affatto un alibi per rimanere fermi e
aspettare che qualcosa accada. Questo mai! Torniamo appunto al concetto di
iperattività che sperimento ogni giorno...».
Diletta, la tua protagonista, possiamo definirla una figlia del nostro
tempo, alle prese con le sue note problematiche legate alla questione
femminile?
«Sì, anche, ma non solo. "Le cose capitano" non è necessariamente un romanzo
legato a questioni prettamente femminili, ma umane. Certo, nelle pagine del
libro ho voluto mettere in evidenza le difficoltà, spesso amplificate, che
le donne incontrano nella gestione di tanti affari quotidiani, dal lavoro
alla famiglia. Penso sia abbastanza retorico dire che in Italia esistono
ancora innumerevoli pregiudizi e stantii luoghi comuni. Ma come detto poco
fa, Le cose capitano è un romanzo per tutti. Gli ostacoli che la mia
protagonista Diletta incontra, sono quelli che chiunque di noi attraversa.
Quando scrivo i miei libri, mi piace pensare che il lettore possa dire:
Oh, ma questo/a sono io! Ma questo è successo anche a me!».
E sempre a proposito di titoli, una delle tue più fortunate e apprezzate
trasmissioni è stata sicuramente Senza bavaglio: quanto hai dovuto
lottare per scongiurare il rischio di essere, nelle sue varie, subdole
insidiose forme, imbavagliata tu?
«Sono estremamente sincera. Non ho mai avuto la sensazione di essere
imbavagliata o obbligata a dire o non dire delle cose. Quando ho avvertito
questa possibilità sono fuggita. Perché un conto è parlare in maniera
corretta di tutto senza pensare di avere la verità in tasca, un altro è
manipolare le informazioni. Questo non l'ho mai fatto e non sono mai scesa a
compromessi. Mai! Certo, in alcune occasioni ho sbagliato, a volte mi sono
fidata di persone inadatte, altre volte ho creduto in progetti che pensavo
forti per poi ricredermi, ma questo è un altro discorso».
Da giornalista economica ritieni che questo settore dell’informazione sia
ancora adesso troppo ancorato a freddi numeri e statistiche senza tenere nel
dovuto conto i risvolti sociali e non solo a esso legati?
«No. Purtroppo è la scarsa conoscenza che ci porta a convincerci di questo.
Facciamo degli esempi pratici e semplici: se leggiamo notizie finanziarie,
di Borsa, o fiscali, allora è ovvio che possano apparire ed essere più
fredde... e pure un tantino noiose. Ma non dobbiamo fermarci lì. L'economia
non è solo quello (grande errore di valutazione): l'economia è la società,
l'economia è ciò che troviamo in qualsiasi angolo della strada e in
qualsiasi momento delle nostre giornate: è al supermercato quando facciamo
la spesa, è in Banca quando andiamo a fare un check del nostro conto
corrente, è nel nostro portafoglio. Se riuscissimo ad approfondire
scopriremmo un mondo inaspettato. Credetemi, è quello che è successo a me.
Per questo tengo molto alla divulgazione dell'importanza dell'educazione
finanziaria in modo "serio ma non serioso"».
A cosa ti stai dedicando adesso e quali sono i tuoi impegni futuri?
«Ora sono a Giornale Radio con la mia trasmissione Next Economy e
dove sono Vicedirettore Editoriale, oltre a tanti altri progetti che seguo
regolarmente e che ho elencato poco fa. Impegni futuri? Tanti, tanti, tanti.
Ma sono pure un po' scaramantica, quindi dovremo riaggiornarci, magari non
tra altri 18 anni!».
Ti senti realizzata?
«Assolutamente sì!».
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Questione
di Costanza nuova serie Rai
di Silvestra Sorbera
Al via le riprese della fiction Questione di
Costanza la serie Rai tratta dai romanzi
di Alessia Gazzola che vedremo la prossima stagione
televisiva.
Dopo Alice Allevi la scrittrice messinese regala al
pubblico una nuova miniserie con una protagonista che
sin dall'esordio letterario ha regalato ai lettori grandi
passioni: ad interpretare la protagonista, Costanza
Maccallè, sarà Miriam Dalmazio, accanto a lei
troveremo Marco Rossetti e Franco Castellano.
La trama: "Verona non è la mia città. E la
paleopatologia non è il mio mestiere. Eppure, eccomi
qua. Com’è potuto succedere, proprio a me? Mi chiamo
Costanza Macallè e sull’aereo che mi sta portando
dalla Sicilia alla città del Veneto dove già abita
mia sorella, Antonietta, non viaggio da sola. Con me c’è
l’essere cui tengo di più al mondo, sedici chili di delizia
e tormento che rispondono al nome di Flora. Mia
figlia è tutto il mio mondo, anche perché siamo
soltanto io e lei… lo so, lo so, ma è una storia
complicata. Comunque, ce la posso fare: in fondo, devo
resistere soltanto un anno. È questa la durata del contratto
con l’istituto di Paleopatologia di Verona, e io –
che mi sono specializzata in Anatomia patologica e tutto
volevo fare tranne che dissotterrare vecchie ossa,
spidocchiare antiche trecce e analizzare resti
centenari – mi devo adattare, in attesa di
trovare il lavoro dei sogni in Inghilterra. Ma, come
sempre, la vita ha altri programmi per me. Così,
mentre cerco di ambientarmi in questo nebbioso e gelido
inverno veronese, devo anche rassegnarmi al fatto che ci
sono delle scelte che ho rimandato per troppo tempo.
Ed è giunto il momento di farle".
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Michela
Bilotta, sulle tracce di Isabella
di Tiziana Cazziero
Abbiamo il piacere di incontrare la scrittrice
Michela Bilotta, salernitana da anni a Bruxelles, per
parlare della sua ultima fatica letteraria, edita da Jack
Edizioni .
Ciao Michela e ben trovata. Il femminicidio è il tema su cui
è incentrato il tuo ultimo romanzo La metrica dell’oltraggio. Quando nasce l’idea di
scriverlo? Qual è stato il fattore scatenante?
«L’idea di questo libro è nata qualche estate fa: ero in vacanza
in Basilicata e ho avuto modo di visitare il parco letterario di
Valsinni, dedicato alla poetessa Isabella Morra, vissuta nel
Cinquecento. Qui sono venuta a conoscenza della sua drammatica
storia. Isabella Morra, infatti, fu segregata dai fratelli nel
castello di famiglia e poi assassinata per una presunta
relazione con un nobile di un paese vicino, il barone Sandoval
de Castro. Sembra in realtà che non ci fosse alcuna relazione
sentimentale tra i due, ma solo uno scambio epistolare basato
sulla comune passione per la poesia. Ad aggravare la situazione
intervennero anche motivi politici, in quanto Sandoval de Castro
sosteneva gli Spagnoli, mentre i Morra erano fedelissimi dei
Francesi. Fatto sta che all’epoca il cosiddetto delitto d’onore
era una pratica ampiamente diffusa e socialmente accettata,
pertanto l’assassinio non destò scandalo né presso la pubblica
opinione, né presso le autorità. Da quell’estate la storia della
Morra è diventata quasi un demone per me. Ho deciso di
esorcizzarlo mettendolo su carta e facendo confluire il
drammatico destino di Isabella con quello delle tante donne
ancora oggi vittime di violenza».
Puoi raccontarci qualche aneddoto accaduto durante la stesura
del libro?
«Vorrei raccontarti un episodio che è avvenuto non durante la
stesura, ma durante una presentazione, circa due mesi fa.
Accanto a me, come relatrice, c’era la direttrice di un centro
antiviolenza. Durante il suo intervento ha dato una serie di
consigli alle donne vittime di violenza domestica. Il giorno
dopo ho ricevuto un messaggio da una delle partecipanti che mi
ha ringraziata per averle dato il coraggio e, attraverso la
direttrice del centro antiviolenza, anche gli strumenti per
affrancarsi da una situazione estremamente difficile che subiva
da tempo».
La protagonista è una giornalista milanese, quanto c’è di te
nel tuo personaggio?
«C’è una parte di me in ognuno dei personaggi del libro. Con
Beatrice De Sanctis, la protagonista, condivido la professione,
l’entusiasmo per la scoperta dei “luoghi altri”, la passione per
la cucina e per il vino (sono sommelier), lo sdegno verso tutte
le forme di prevaricazione e ingiustizia. Con Roberta Bersaglia,
la direttrice algida e severa, condivido, ma solo in certi
giorni, l’atteggiamento di disincanto e insofferenza verso
situazioni e persone. Soprattutto verso le formalità di
facciata».
La violenza sulle donne è un argomento scottante e attuale.
Nonostante si parli sempre di più di tale piaga, le vittime sono
in aumento, cosa pensi si possa fare di concreto per arginare
questa strage silenziosa?
«Di fronte all’efferatezza di episodi come quello di Giulia, o
quello di Palermo, è normale che montino l’istinto e la rabbia
della punizione e della vendetta. È umano. Tuttavia, fermo
restando che sia necessario garantire la certezza della pena,
quando si invoca la pena è già troppo tardi. In Italia siamo
abituati ad agire in un’ottica emergenziale che lascia poco
spazio alla prevenzione. E anche se la parola prevenzione ha un
impatto di gran lunga minore rispetto a parole ben più potenti,
come giustizia, punizione, pena, è proprio da quella che
dobbiamo partire, non ci sono altre strade. Ed è un percorso
articolato che chiama in causa soggetti diversi, la scuola, a
partire da quella primaria; la famiglia, i luoghi di lavoro;
tutti i soggetti sociali devono essere coinvolti in questo
processo non più rimandabile per sradicare dalle fondamenta
quella cultura patriarcale che è la causa vera dei femminicidi e
della discriminazione di genere. Una cultura patriarcale che ci
piace immaginare superata, ma nella quale siamo invece ancora
immersi, spesso inconsapevolmente, e questo significa che spesso
ci facciamo noi stessi strumenti di diffusione di questa cultura
senza neanche accorgercene. E poi un riferimento a parte lo
meritano i media e una narrazione sensazionalistica della
violenza sulle donne che, invece di indagarne le cause,
focalizza l’attenzione sui dettagli scabrosi, per fare audience.
Una narrazione dove spesso si parla ancora di “raptus di follia”
o di “delitto passionale”. Le parole sono importanti, perché
cambiano il modo in cui percepiamo la realtà. Nel libro cito
alcuni studi che lo dimostrano in maniera chiara e
inequivocabile».
La cultura patriarcale è tanto radicata nella mentalità umana
da non poterla sdradicare? Perché secondo te questo patriarcato
è avvertito in modo così forte?
«La storia dell’emancipazione femminile è relativamente recente,
e sradicare millenni di dominio maschile basato su un modello
fortemente gerarchico non è un processo semplice, né tantomeno
veloce. Quando si pensa al delitto d’onore ci vengono in mente i
libri di storia, forse dimentichiamo che in Italia il nostro
ordinamento giuridico lo ha ammesso fino al 1981! E bisogna
aspettare lo stesso anno per vedere abolito un altro abominio,
il matrimonio riparatore, ovvero la possibilità, per lo
stupratore, di estinguere il reato sposando la propria vittima.
Per non parlare dello stupro, che è diventato reato contro la
persona e non più contro la morale solo nel 1996. Se ci
soffermassimo a pensare a queste cose, sarebbe più facile capire
come mai la visione patriarcale della società sia ancora dura a
morire. E poi interroghiamoci sui modelli culturali che
continuiamo a diffondere: spesso nelle scuole chiedo a quanti
ragazzi viene chiesto di sparecchiare. Il numero delle mani che
si alza è di gran lunga inferiore rispetto a quello delle
ragazze. Per non parlare del linguaggio, degli stereotipi
linguistici che continuano ad esistere, delle frasi fratte che
ripropongono pregiudizi di genere (persino in alcuni testi
scolastici), delle donne che si sentono legittimate solo se
declinano al maschile la loro professione. Ma la parità di
genere resta un obiettivo da perseguire, un percorso verso il
quale dobbiamo sentirci tutti coinvolti, uomini e donne, perché
il livello di civiltà di un Paese si misura anche, e forse
soprattutto, in base al livello di emancipazione delle donne».
Cosa si devono aspettare i lettori dal tuo romanzo?
«Il mio è un romanzo “on the road”, nel quale la protagonista,
alla quale la sua direttrice affida il compito di andare a
Valsinni per scrivere un articolo su Isabella Morra, compie un
lungo viaggio in auto, da Nord a Sud, sulle tracce di Isabella.
Naturalmente quella del viaggio è soprattutto una metafora di un
percorso interiore di crescita e di consapevolezza. Vorrei
puntualizzare un aspetto: sebbene il tema sia drammatico, ho
voluto che il mio romanzo contemplasse anche momenti di
leggerezza. Insomma, è un libro che fa riflettere, ma anche
sorridere. Ci sono, infatti, anche parti divertenti, perché la
vita stessa è un susseguirsi di contrasti, di luci e di ombre. E
soprattutto volevo inserire la violenza sulle donne in un
contesto “normale”, la famosa banalità del male, perché non si
pensi che si tratti di un fenomeno che prospera solo in certi
ambienti e in circostanze eccezionali. E poi i lettori e le
lettrici troveranno tanto altro: borghi dimenticati, eccellenze
gastronomiche, vini del territorio e un protagonista silenzioso,
ma non per questo meno importante, che è “L’Italia minore”,
quella lontana dai circuiti del turismo di massa, ma per questo
ancora più autentica. È un libro che, con mia sorpresa, piace
molto anche agli uomini».
Presentaci in breve i protagonisti e a chi ti sei ispirata.
«La protagonista, Beatrice De Sanctis, una giornalista
entusiasta e pasticciona, è la rappresentazione di tutte e tutti
noi di fronte a un fenomeno che ha assunto connotazioni
spaventose e che risulta difficile da spiegare: lei stessa,
all’inizio del viaggio, nutre dei pregiudizi nei confronti della
violenza sulle donne. Lei stessa si chiede come mai le donne
vittime di violenza non siano riuscite a salvarsi lasciando i
partner prima che fosse troppo tardi. Queste domande troveranno
risposta negli incontri che farà nel corso del suo viaggio.
Insolito il suo vezzo: paragonare ogni persona che incontra a
una tipologia di vino. Roberta Bersaglia è invece, la direttrice
della rivista, una donna forte e risoluta che nasconde un
segreto, rivelato solo nel finale, che ne ha cambiato lo sguardo
sul mondo. E poi ci sono Stefano, il marito di Beatrice che, da
ingegnere, contrappone la sua razionalità esasperata
all’impulsività di lei, ed Eugenio, il solerte stagista “che
detiene un’impressionante media di domande al minuto” e che
nasconde una drammatica verità. In tutti i personaggi ci sono
frammenti di me e delle persone che ho incontrato nel mio
percorso, sia in quello professionale che in quello privato».
Sei una scrittrice e giornalista, quando hai scoperto che la
scrittura era la tua strada?
«Da piccolissima. Le storie racchiuse nei libri mi hanno sempre
affascinata, catapultandomi in universi paralleli dai quali
facevo fatica a separarmi. Già alle scuole elementari la maestra
leggeva i miei temi ad alta voce in classe e alle scuole
superiori ho avuto la fortuna di avere una professoressa che mi
ha sempre incoraggiata a coltivare la mia passione. Ho sempre
scritto per lavoro come giornalista, copywriter e addetta
stampa, ma è nella stesura di libri e racconti che riesco ad
alimentare la parte più autentica della mia anima. La mia
passione per la scrittura è pari solo a quella per la lettura».
La scrittura è una passione con la quale si nasce, pensi che
sia importante adoperarla per lanciare messaggi importanti? Chi
ha questo ruolo credi possa fare qualcosa per fermare il
femminicidio?
«Assolutamente sì. Il femminicidio è solo il tassello finale di
una lunga serie di discriminazioni e ingiustizie verso le donne.
È un fenomeno che trova linfa vitale in alcuni aspetti della
nostra cultura e che attraverso la cultura può essere
contrastato. Di recente, durante una presentazione del mio
libro, mentre veniva letto un brano, una ragazza seduta in prima
fila ha pianto dall’inizio alla fine. Credo che in quelle parole
abbia rivissuto la sua storia e compreso anche qual è la via per
sottrarsi a una situazione di violenza. Credo fortemente nel
potere della parola, d’altronde attraverso le parole sono nate
le rivoluzioni. Come diceva Emily Dickinson, non conosco niente
al mondo che abbia più potere della parola».
Progetti per il futuro? Hai qualche anticipazione per noi?
«Progetti tanti: ho in calendario diverse presentazioni del
libro, che sarà “in tour” per tutto il mese di maggio e giugno,
e c’è in programma anche una presentazione istituzionale
importante presso la Camera dei Deputati. Sarò, inoltre, in
diversi istituti scolastici, perché, e ne sono orgogliosa, il
libro è stato proprio di recente inserito nell’elenco ufficiale
dell’AIE (Associazione Italiana Editori) per essere adottato
nelle scuole. Sono già diversi gli istituti che ne hanno fatto
richiesta e non posso che esserne felice, vista l’importanza
della prevenzione nel contrasto alla violenza di genere. È il
mio piccolo contributo, la mia goccia nel mare, il mio no alla
violenza contro le donne. E poi ci sono in programma altri libri
e altre storie, sulle quali spero di potervi aggiornare presto». |
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