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Telegiornaliste anno XIX N. 10 (726) del 15 marzo 2023
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Cristina
Battista, dalla parte degli ultimi
di Giuseppe Bosso
Incontriamo Cristina Battista, inviata di trasmissioni Mediaset come
Controcorrente e
Pomeriggio Cinque.
La sua giornata tipo?
«Sveglia molto presto e a colazione yogurt, cereali e giornali; trovare
storie interessanti, aggiornarmi sui casi di cronaca, in attesa di
scoprire la mia prossima meta… la vita da inviata di cronaca comporta
indicativamente andare sul posto insieme ad una troupe, indagare su
quanto accaduto, cercare testimonianze, spunti e dettagli esclusivi,
parlare con le forze dell’ordine, ricostruire i fatti al fine di
prepararsi per la diretta del pomeriggio».
Raccontare l’Italia di oggi, ancora non del tutto lasciatasi alle
spalle le paure del covid e alle prese con un conflitto in corso che sta
avendo ripercussioni sull’economia e con molte incertezze tra sicurezza,
immigrazione e tensioni sociali: con quale atteggiamento si pone?
«Non è affatto semplice il momento storico che stiamo vivendo che dura
già da un po’. Questo è indubbio. Sento ancor di più la responsabilità
di informare con onestà e obiettività le persone, che si aspettano anche
da noi risposte e soluzioni. Ci sono tensioni quotidiane, malcontento e
sfiducia. Le persone vanno affiancate, ascoltate, capite e nel nostro
piccolo aiutate. Abbiamo il dovere di farlo, possiamo essere la loro
voce».
Tra le storie che ha avuto modo di raccontare in questi anni da
inviata per le diverse trasmissioni con cui è impegnata, da
Controcorrente a Pomeriggio Cinque, quali sono quelle che
l’hanno maggiormente coinvolta?
«Le storie di violenza e sofferenza fisica ed emotiva. Nonostante gli
anni, ogni volta che mi trovo di fronte una persona “maltrattata”…
faccio fatica a rimanere distante. Dall’anziano indifeso o abbandonato,
alle famiglie in serie difficoltà fino naturalmente a noi donne, ai
femminicidi: mi coinvolgono gli ultimi e vorrei poter fare di più».
Grande riscontro ha avuto il suo libro I giorni di Igor,
relativo a una vicenda che ancora oggi suscita sconcerto e indignazione:
com’è nata quest’opera e quale riscontro ha avuto, in particolare dai
familiari delle vittime di Vaclavic, se ha avuto modo di interloquire
con loro?
«I giorni di Igor è un diario, 50 giorni, i miei 50 giorni, che
raccontano gli omicidi, la fuga, le ricerche, la cattura, tutta
l'incredibile storia di Igor Vaclavic o Norbert Feher, visto e vissuto
attraverso i miei occhi e l'inchiostro del mio taccuino. I giorni di
Igor è la storia di chi si porterà dentro quell'uomo per sempre.
Questa storia mi ha coinvolta in modo singolare e ho sentito il bisogno
di raccontare e di tramandare al lettore cosa è accaduto non solo in
Italia in quei giorni, persino spinta da coloro che per 50 giorni e
oltre si sono affidati anche un po' a me, alla passione per il mio
lavoro unito al desiderio di giustizia».
Le sta stretta una vita da inviata?
«Come tutti i lavori comporta sacrifici, rinunce ma la passione
alleggerisce ogni cosa e le soddisfazioni alimentano la passione,
quindi…».
Da Napoli a Milano e Roma, come molte sue colleghe ha alle spalle una
vita fatta di continui spostamenti, come del resto ormai un po’per
tutti: non sente la mancanza di un luogo dove porre radici?
«Assolutamente no, perché in realtà il mio posto ben radicato c’è,
esiste e me lo godo serenamente, conciliando lavoro e famiglia, come
fanno milioni di persone. Ho viaggiato un bel po’ per riconoscerlo ma
l’ho trovato».
Prossimamente a cosa si dedicherà?
«A tantissime cose. Da un po’ di mesi frequento corsi di doppiaggio
presso una nota scuola specializzata e chissà che non mi si aprano nuove
e intriganti porte e che diventi un lavoro, per ora è sicuramente una
bella passione. Non solo, ho in mente e nel cuore il progetto di un
nuovo libro ma non mi sbilancio ancora, ho in cantiere un altro progetto
ma anche su questo per ora top secret e poi nel mio lavoro ogni giorno
in realtà mi dedico a qualcosa di nuovo quindi gli stimoli non mancano
mai».
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Remo
Croci, la mia nuova vita
di Giuseppe Bosso
Incontriamo nuovamente
Remo Croci che ha deciso di chiudere con un anno
di anticipo la sua carriera giornalistica per iniziare un
nuovo percorso in cui abbraccerà a tempo pieno una delle sue
grandi passioni, la pittura.
Cosa ti ha portato a questa decisione?
«Non è stata una decisione semplice. Ho pensato a quando Il
direttore Enrico Mentana mi scelse per far parte della sua
squadra si corrispondenti al tg5. Dei tanti sacrifici
compiuti. Dovevo però rispondere alla mia coscienza di
professionista. E così quando ho avuto la consapevolezza di
non aver più gli stimoli necessari per continuare a svolgere
la mia professione ho capito che dovevo avvicinarmi alla
porta ed uscire. Il vantaggio è che sono stato io ad
aprirla, nessuno mi ha obbligato! Sarò sempre riconoscente
alla grande famiglia di Mediaset».
Con quali sensazioni stai vivendo questo passaggio, che
possiamo paragonare a un navigatore esperto che è giunto
all’ultimo approdo?
«No, non direi che sono all’ultimo approdo. Da amante del
mare invece ho la prua della mia barca che naviga a vista e
laddove dovesse arrivare un segnale di nuova accoglienza
andrei a verificare. La curiosità c’è sempre così come la
voglia di affrontare nuove sfide».
Com’è nato e come si è sviluppato il tuo rapporto con la
pittura?
«Oggi dipingere quadri è la mia passione e anche un modo
diverso di comunicare con gli altri. Prima il microfono e le
telecamere erano gli strumenti per farlo ora sono i pennelli
ed i colori i miei nuovi attrezzi del mestiere. In un anno
ho cambiato i soggetti dipinti. Ho scelto prima il Crime,
poi il mare e le vele passando da tecniche diverse. Amo
dipingere con la spatola che mi consente una maggiore
libertà sulla tela».
Con quali colori, metaforicamente, dipingeresti il tempo
che stiamo vivendo, tra incertezze e timori legati a un
conflitto spaventoso?
«Il primo colore è il nero. Perché rappresenta il buio,
l’incubo e la tragedia assoluta. Poi indicherei il verde per
alimentare la speranza. Infine il blu per estendere a tutto
il mondo una vita serena e di pace assoluta».
Riguardando indietro alle tue esperienze da giornalista,
quali sono le cose che più ti sono rimaste impresse e quali
non ripeteresti?
«In 40 anni di professione ho tanti momenti che sono dentro
di me. I casi di cronaca sono quelli che mi hanno formato e
completato come giornalista e uomo. Direi che le morti dei
bambini e la loro insegnante nel terremoto di San Giuliano
di Puglia e la tragica fine dei fratellini Ciccio e Tore
Pappalardi sono molto presenti in me. Non rifarei quelle
cose che mi hanno comunque aiutato a migliorare la mia
professione. Errori figli dell’inesperienza. Il pregio che
mi riconosco è quello di non averli ripetuti. Sarebbe stato
grave ed imperdonabile».
Tuo nipote inizia a crescere. Se un giorno ti dicesse
voglio fare anch’io il giornalista, cosa gli diresti?
«Ho già una nipote Jessica Balestra che ha intrapreso questa
strada e le auguro il meglio. Poi ho l’altro nipote Leonardo
che a 4 anni ha la curiosità di conoscere il mondo. Se vorrà
seguire il nonno ben felice per lui. Non lo obbligherò certo
a farlo. Ho inseguito la libertà assoluta, sarebbe assurdo
negarla proprio a lui».
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Michelle
Yeoh e le altre donne dell’Oscar
di Giuseppe Bosso
Non proprio una outsider, ma nemmeno annunciatissima.
Prima attrice asiatica ad aggiudicarsi l’ambita
statuetta, l’Oscar per la migliore attrice protagonista
è andato a Michelle Yeoh per la sua interpretazione in
Everything Everywhere All at Once.
Malese di origini cinesi, Yeoh consegue il
riconoscimento dell’Academy a coronamento di una
carriera iniziata a metà degli anni ’80 in patria, per poi
conseguire notorietà a livello internazionale, nel
1997, come ‘Bond girl’ al fianco di Pierce Brosnan
in Il domani non muore mai, a cui seguiranno altre
pellicole di successo come La Tigre e il Dragone,
Memorie di una Geisha e l’approdo sulla
celeberrima Enterprise di Star Trek nel
ruolo del capitano Philippa Georgiou.
La pellicola diretta da Daniel Kwan e Daniel Scheinert è
la grande trionfatrice della serata del 12 marzo con
sette statuette, tra cui anche quella per la migliore
attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis. Anche
per la figlia di Tony Curtis e Janet Leigh l’Oscar è un
riconoscimento a una lunga e navigata carriera, che l’ha vista
cimentarsi in vari generi dall’horror del ciclo
Halloween alla commedia (tra cui non si può non
menzionare l’immancabile Una poltrona per due trasmesso
canonicamente ogni vigilia di Natale sui nostri schermi)
dall’action al thriller.
Ma l’Academy premia anche il lavoro silenzioso di chi agisce
dietro le quinte, si sa, e non possiamo non applaudire anche
i successi di Sarah Polley per la migliore sceneggiatura
(di Women Talking), di Ernestine Hipper, in
coabitazione con Christian M. Goldbeck per la migliore
scenografia(di Niente di nuovo sul fronte occidentale)
di Ruth E. Carter per i migliori costumi (di
Black Panther: Wakanda Forever), di Anne Marie
Bradley , membro del team che ha vinto l’Oscar per il
miglior trucco con The Whale, oltre ai
riconoscimenti onorari conferiti alla regista Euzhan
Palcy e alla compositrice Diane Warren.
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