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Telegiornaliste anno XVIII N. 19 (703) del 1 giugno 2022
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TGISTE Margherita
Grassi, la buona ‘sfrontatezza’ di Giuseppe Bosso
Volto di
Telereggio, incontriamo
Margherita Grassi.
Ricorda la sua prima conduzione al tg, che sensazioni ha provato?
«Mi sentivo come un bambino al cospetto di Babbo Natale – ride, ndr –
era nell'aria da quando sono stata assunta in pianta stabile dopo
l’iniziale periodo di collaborazione. Non ho avuto nemmeno il tempo di
agitarmi, l’ho vissuta come una sorpresa. L’agitazione è venuta quando
ho sentito la sigla».
Il suo primo contatto con il mondo del giornalismo fu in occasione di
una sua partecipazione come membro di un’associazione di volontariato a
una trasmissione di Telereggio quando, anche con un pizzico di sana
sfrontatezza che male non fa, si propose per collaborare con la
redazione sportiva: era un’aspirazione che coltivava da tempo o è nato
tutto all’improvviso?
«Direi che ha usato il termine appropriato, ‘sfrontatezza’. In quel
momento della mia vita non avevo un sogno, stavo frequentando ancora la
facoltà di scienze giuridiche, dopo il liceo classico; ma non avevo
aspirazioni da avvocato o magistrato, a essere sincera. È stata
un’illuminazione derivata anzitutto dalla mia passione per la lettura e
la scrittura».
Si è anche dedicata alla televisione per i bambini, è stata una buona
palestra per il prosieguo della sua carriera da giornalista?
«Moltissimo. Dirò una banalità ma i bambini sono le persone più
difficili da intervistare, non dicono mai nulla di scontato o di non
vero; ci sono dei silenzi da interpretare e da accettare con loro, che
sono un grosso insegnamento in questo mestiere in cui si raccoglie
spesso la dichiarazione di facciata piuttosto. Loro non sono così, se
gli hai fatto una domanda che non li soddisfa vanno via».
Ha avuto modo di seguire spesso eventi in giro per il mondo, dalla
Romania al Sudafrica: ha mai pensato di lasciare l’Italia per cercare
altrove di affermarsi nel mondo del giornalismo?
«Sì, ma non propriamente per quanto riguarda il giornalismo, ma in senso
di esperienze di vita al di fuori dell’Italia. Faccio parte di una
generazione che per la prima volta si approcciava a programmi come
Erasmus, che in quel momento era ancora in una fase, per così dire,
‘embrionale’ che non aveva ancora raggiunto la diffusione che poi ha
trovato ai giorni nostri. Non sono molto ottimista, per così dire, non
vedo il bicchiere mezzo pieno, sono contenta di quello che ho fatto nel
tempo».
In questi anni in cui il mondo ha dovuto confrontarsi con la pandemia
e ora con un terribile conflitto pensa sia cambiato qualcosa nel modo in
cui l’informazione si approccia al cittadino?
«Non proprio in questi termini, ma ce la poniamo questa domanda in
redazione, ed è tra quelle che restano senza risposta. Soprattutto la
pandemia, credo, ha cambiato il nostro sentirci responsabili, e mi rendo
conto di dire una cosa brutta perché noi dobbiamo essere sempre
responsabili di quello che diciamo e come lo diciamo, ma in quel momento
ho capito come il nostro lavoro incida sulla vita delle persone,
giornalmente, e lo abbiamo capito soprattutto durante la pandemia, anche
con i famosi bollettini, in cui ho capito la necessità delle persone di
comprendere, attraverso quei numeri, la situazione che stavamo
attraversando».
Una delle sue passioni è la cronaca nera, che purtroppo vede spesso
le donne vittime di tragici eventi frutto non di rado della violenza
domestica e familiare: secondo lei si dà troppo risalto a queste vicende
o è sbagliato il modo con cui l’informazione si approccia?
«In questo momento direi nessuna delle due; non penso ricevano troppo
spazio, anzi forse ne occorrerebbe di più, magari di altro tipo, nel
senso che dovremmo impegnarci a raccontare anche le storie di donne che
riescono a voltare pagina, la parte positiva del lavoro che viene fatto,
al netto di tanti lutti. Parlo per me, ma credo che il modo con cui ci
approccia al tema da parte nostra sia cambiato in meglio, anche se
purtroppo ci si interrogherà sempre su questo cosiddetto ‘modo giusto’
di parlarne, ammesso esista».
Dove potremmo vederla prossimamente?
«Siamo ormai a fine stagione a Telereggio, quello che succederà a
settembre non so, compete all’editore prendere queste decisioni». |
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TUTTO TV Il
commissario Ricciardi è tornato
di Silvestra Sorbera
Sono iniziate le riprese della seconda stagione
de
Il commissario Ricciardi con Lino
Guanciale e Maria Vera Ratti.
La serie tv è tratta dai romanzi di Maurizio de Giovanni
che ha da poco pubblicato la sua ultima fatica dal titolo
Un volo per Sara.
La storia del commissario Ricciardi è ambientata nella
Napoli degli anni trenta in pieno regime fascista,
segue le indagini del commissario di polizia Luigi Alfredo
Ricciardi. L'uomo custodisce un terribile segreto
ereditato dalla madre Marta, che chiama il Fatto:
è in grado di percepire gli spettri delle vittime
di morte violenta (sia per incidenti che per omicidi) in
un'immagine evanescente nei luoghi del decesso,
mentre continuano a ripetere ossessivamente la frase
che stavano dicendo o pensando nel momento della morte.
Proprio a causa della sua maledizione sono pochissimi gli
affetti di Ricciardi: Raffaele Maione (brigadiere
al quale è legato sin da quando questi perse il primogenito
Luca, poliziotto come lui), Bruno Modo (medico legale
apertamente antifascista, che lavora presso l'ospedale dei
Pellegrini), Enrica Colombo (una giovane maestra che
abita nel palazzo di fronte, della quale è innamorato),
Rosa Vaglio (l'anziana tata che si è occupata di lui fin
dalla più tenera età e che, dopo la morte della madre, ne è
di fatto diventata la madre affettiva) e, dopo la morte di
quest'ultima, sua nipote Nelide. |
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DONNE Cinzia
Scaffidi, il profitto e la cura di Giuseppe Bosso
Edito da Slow Food,
Il profitto e la cura. La sostenibilità e le voci che non
abbiamo ascoltato. Riflessioni più che mai attuali
in questo momento storico. Ne parliamo con l’autrice,
Cinzia Scaffidi.
Benvenuta Cinzia, anzitutto perché questo titolo, Il
profitto e la cura, e come ha realizzato quest’opera?
«Sono i due grandi filoni della nostra storia - di tutto
l’Occidente e di un altro bel pezzo di mondo - che è andata
costantemente alla ricerca del profitto come principale
obiettivo, tralasciando la cura per la natura, le risorse e
anche quella per le persone. Il libro è una rassegna di
tematiche affrontate da autori che ci avevano messo in guardia
sul disastro, in epoche e con maniere diverse, anche attraverso
poesie e romanzi. Ho provato a mettere insieme questi
ragionamenti. La cura, se viene scelta come obiettivo
principale, può generare un profitto equo, lungimirante e
duraturo; altrimenti saranno sempre in pochi ad avvantaggiarsi,
ma a grave discapito della maggioranza delle persone. Oggi
questi limiti stanno emergendo, per i gravi danni che questa
visione ha procurato al mondo».
Siamo ancora in tempo, per così dire, per prevenire la totale
catastrofe a cui sembriamo avviati per non aver dato ascolto
agli ‘inascoltati’ di cui ha parlato nel libro?
«Dobbiamo farcela. Siamo nel momento in cui ci siamo resi conto
che avrebbero dovuto essere ascoltati e finalmente iniziamo a
parlare di transizione ecologica, di leggi anche a livello
europeo, di terzo settore. Ci sono state associazioni e imprese
che hanno provato ad attenuare i danni che la terra ha subito,
ma serve di più: dobbiamo cambiare completamente il nostro modo
di operare, in senso positivo, facendo attenzione a quella che
Papa Francesco ha chiamato “Humana Communitis”. Non possiamo
nemmeno badare alla nostra sostenibilità facendo danni ad altri.
Per cambiare atteggiamento dobbiamo riscoprire proprio cosa
dicevano all’epoca questi uomini e queste donne, prendere in
considerazione i loro avvertimenti per fare proposte più
concrete e radicate. Ho voluto anche dare un supporto agli
insegnanti per inserire queste tematiche all’interno dei
programmi scolastici. Il pensiero ecologista ha alle spalle
almeno tre secoli di vita, di sicuro non nasce oggi
all’improvviso».
Senza alcuna intenzione politica è possibile, le chiedo, un
‘capitalismo sostenibile’ che ci consenta di invertire la rotta?
«Possibile è un modo diverso di intendere l’impresa; molti
imprenditori stanno già lavorando in modo straordinario. Non
solo alcune imprese grandi, ma tantissime imprese di piccole e
medie dimensioni stanno cambiando il loro modo di lavorare,
ponendo attenzione sia all’ecologia sia alle persone. Hanno
raccolto davvero l’eredità di personaggi di cui parlo nel libro,
come Adriano Olivetti, che in passato avevano sempre messo al
primo posto di ogni ragionamento di sviluppo la cura della
persona. Anche la Costituzione parla di impresa consentita a
patto che non cagioni danni, anche all’ambiente come
recentemente è stato aggiunto al testo dell’articolo 41. Invece
danni sociali ne ha fatti questo modello di sviluppo, creando
ingiustizie e disuguaglianze. Non penso si potrebbe più parlare
di capitalismo, se riusciremo a raggiungere questo traguardo, ma
di economia circolare, di comunità, economia civile… proviamo a
pensare che il capitalismo ha dimostrato in modo purtroppo
irrevocabile che non era il modello ideale. Purtroppo questo è
stato testimoniato anche da come, dopo pochi mesi dall’inizio
della pandemia, le grandi multinazionali riunitesi a Davos hanno
fatto intendere come per loro quei problemi fossero già finiti,
mentre il resto del mondo era ancora in pieno disastro. Ora
bisogna invece muoversi verso forme di economia che mettano in
discussione la prevalenza del profitto e della crescita come
sono intese oggi. Se si fa attenzione alle persone, alla natura,
alla formazione, i bilanci non è vero che non crescono, anzi».
È un libro rivolto alle nuove generazioni?
«Me lo auguro; hanno interesse per queste tematiche, e penso sia
un libro facile da leggere. Sono contenuti che i giovani si
trovano ad affrontare quotidianamente a scuola, anche se magari
non riescono sempre a coglierli, come per esempio nel romanzo
L’amante di Lady Chatterley dove erano affrontate le
problematiche del mondo operaio. Ma le cose che questi autori
sostenevano non hanno mai avuto riscontro dalla politica, magari
avevano successo nel mondo scientifico, o in quello accademico,
ma non si arrivava ad avere delle leggi che raccogliessero
quegli insegnamenti. Darwin, ad esempio, ci ha spiegato che non
può esistere una crescita infinita, e il suo libro “L’origine
delle specie” ha segnato un prima e un dopo nel mondo
scientifico, filosofico, culturale. Ma nel mondo della politica
le sue idee non sono passate, il senso della complessità della
rete dei viventi è stato e in parte viene ancora ignorato».
Quali riscontri ha avuto dalle persone che hanno letto il suo
libro e con cui ha avuto modo di interagire?
«La cosa che più mi ha fatto piacere è che molti lettori, lungi
dal considerarlo un elenco di disgrazie e sventure – ride, ndr –
hanno trovato una parte propositiva che rende ottimisti, ed era
quello il mio scopo, far capire che una volta individuato il
problema si può lavorare per trovare la soluzione. Un’altra
parte del libro a cui tengo molto, e che mi sembra abbia
colpito, è quella relativa al fatto che non osserviamo la
natura, che passiamo per gli ambienti senza vederli, senza
conoscere il nome delle piante e delle specie che vivono nella
natura come noi. Già non conoscere quei nomi è sintono di non
curanza ed inevitabilmente la conseguenza è che non ce ne
curiamo sotto ogni punto di vista. Infine c’è la parte sulle
questioni di genere, sul ruolo minimale che le donne hanno avuto
in quest’era di sviluppo, guidata dalla cultura maschile; è
importante che sia integrata dalla visione del mondo delle
donne, e lo squilibrio che è sotto gli occhi di tutti è anche
povertà di diversità. Un mondo guidato economicamente e
politicamente soltanto dagli uomini, è un mondo necessariamente
portatore di squilibrio. Le voci e le menti che possono decidere
del nostro sviluppo non possono essere soltanto maschili, ma su
questo siamo molto molto indietro, come dimostrano i dibattiti
di questi giorni sulle questioni essenziali legate al conflitto
in cui sono sempre in maggioranza le voi maschili, come se le
donne non potessero capire i problemi derivati da una guerra o
da una carestia o non avessero riflessioni da fare in merito.
Non ci si deve assuefare a questo, bisogna continuare a
pretendere che non ci sia sempre e soltanto un tipo di visione
del mondo».
Dopo la pandemia il conflitto in Ucraina: riesce ancora ad
avere fiducia nel domani nonostante tutto ciò?
«Pandemia e conflitto sono due contesti diversi, anche riguardo
la fiducia nel domani. Se devo parlare della pandemia, sì,
spunti di fiducia nel futuro ne ho trovati nel fatto che siamo
riusciti ad affrontare questa esperienza anche prendendo
coscienza di come buona parte del danno che ha creato il virus
deriva da preesistenti squilibri ambientali, e abbiamo trovato
la forza di reagire in maniera positiva. La guerra in Ucraina,
invece, sta minando la mia fiducia dell’umanità, non in generale
ma relativa all’umanità che governa il mondo: anche qui vedo
solo uomini all’opera, nessun tavolo o incontro bilaterale vede
donne protagoniste. Attraversare una pandemia tragica per molte
zone del nostro Paese e del nostro pianeta è un elemento a sé,
che ha tolto molto ma ha dato anche in termini di comprensione
dei meccanismi. La perdita di fiducia nell’umanità derivata dal
conflitto mi deriva soprattutto dalla mancanza di atteggiamenti
radicali di fronte alla barbarie che riemerge, e di
consapevolezza sul fatto che la guerra coinvolge tutti e che
solo tutti insieme si può venirne fuori, anche attraverso
sacrifici che tutti possiamo fare. Ad esempio: la maggioranza
dei Paesi europei non sta risentendo della questione legata al
grano perché l’importazione da quell’area è molto limitata,
mentre i Paesi poveri ne stanno risentendo di più, nella totale
indifferenza da parte nostra. Questo è davvero demoralizzante,
se pensiamo a momenti come il terremoto del Friuli in cui
abbiamo avuto un commissario che ha preso in mano la situazione,
avocando anzitutto a sé i poteri per tenere sotto controllo
persino il prezzo dell’acqua minerale nella consapevolezza che
prima o poi qualcuno avrebbe approfittato di quella situazione
tragica per far aumentare a dismisura i prezzi. Oggi invece si
assiste alle speculazioni sul prezzo del grano come se fosse una
cosa normale. Oppure: la solidarietà verso questi profughi che
arrivano dall’Ucraina va benissimo e va difesa, in passato non è
successo lo stesso verso quelli che arrivavano sui barconi, o
scappavano dall’Afghanistan, o dalla Siria. Si tradisce quel
principio sancito nella dichiarazione dei diritti dell’uomo che
tutti gli esseri umani sono uguali senza distinzioni di alcun
tipo, ma non ce lo ricordiamo se non ci fa comodo, e questo è
demoralizzante. Io la fiducia nell’umanità la mantengo perché
mantengo forte il desiderio di cambiamento, e chi potrà cambiare
il mondo, se non noi? E’ il nostro pezzo di mondo che va
cambiato, quello che riguarda gli umani. E per farlo le parole
di chi ha studiato, pensato, scritto e agito prima di noi sono
uno strumento prezioso».
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