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Archivio Telegiornaliste anno XIII N. 37 (547) del 20 dicembre 2017
 
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TGISTE Marica Giannini. Come l’incontro con Gesù ha cambiato la mia vita di Silvestra Sorbera

Incontriamo, alla fine di questo 2017, la giornalista Marica Giannini, che dopo una lunga gavetta è giunta a lavorare a Tgcom 24, con cui parliamo non solo del suo lavoro ma anche di come l’incontro con la fede ha cambiato la sua vita.

Marica la tua vita tra fede, amore e calcio: come cambia e come si intrecciano tutti gli aspetti?
«La mia vita è cambiata nel 2008 grazie al mio incontro di fede con Gesù. Fede, amore e calcio si intrecciano in quanto sono tutte e tre facce della stessa medaglia, ovvero mi rappresentano anche se in modi diversi. Il mondo del calcio nella vita arriva come un lavoro ma si è trasformato in una passione. L’amore invece da sempre ha avuto un ruolo di rilievo nella mia vita… non sempre è andata bene, ma per fortuna oggi posso dire di aver trovato l’uomo della mia vita. La fede è entrata nella mia quotidianità non da tanti anni, ma ho la certezza che non l’abbandonerò mai più».

Il tuo incontro con Gesù ti ha cambiato la vita?
«Sì. Lui mi ha reso una persona migliore. Ha cambiato il mio modo di approcciare alla vita, alle difficoltà, alle gioie e soprattutto alla cattiveria umana che molto spesso è dietro l’angolo. Lui è sempre accanto a me e mi guida in ogni mia scelta. Una vita cambiata perché scandita da una serenità costante nonostante le difficoltà che spesso intralciano il mio percorso».

Cosa diresti ai giovani sfiduciati di oggi che non credono in niente?
«Direi che bisogna aprire il proprio cuore a Gesù. Lui ti cambia la vita. Non è una frase fatta, ma una realtà; io lo provo ogni giorno sulla mia pelle. Ho scritto un libro nel 2013 sul mio incontro di fede, Io e Lui - credere nell’amore, credere in Gesù appunto perché volevo raccontare la mia esperienza per chi non crede, per chi si sente deluso dal mondo che ci circonda. Per chi come me ricercava una serenità interiore e non la trovava. Io ce l’ho fatta a cambiare la mia vita e come tutti potrebbero farlo se volessero: basta aprire il proprio cuore a Gesù».

Ci racconti i tuoi inizi nel mondo del giornalismo?
«Ho iniziato nel 2005 seguendo il basket campano; il mio sogno fin da bambina era quello di diventare giornalista, e crescendo in una famiglia di sportivi non potevo che iniziare con il giornalismo sportivo. Ho iniziato il mio percorso lavorando per emittenti televisive regionali campane in cui ho imparato molto. Ho dovuto lavorare molto negli anni per cercare di dimostrare che dietro una figura femminile gradevole ci fosse una semplice ragazza che aveva voglia di diventare una brava giornalista. Bisognava abbattere alcuni stereotipi e credo in parte di esserci riuscita. Per quasi dodici anni mi sono occupata di sport e calcio, ma da qualche mese ho accettato una scommessa con me stessa: ripartire da zero e iniziare una nuova avventura, lontano dallo sport. Tgcom 24 è la mia nuova realtà; qui sto imparando molto… la politica, la cronaca, l’economia… temi nuovi per me dal punto di vista lavorativo, ma che mi stanno entusiasmando molto».

Cosa consiglieresti a chi si accinge a fare questo lavoro?
«Ciò che paga in questo lavoro è la dedizione, la passione, la professionalità e la preparazione. Ai giovani consiglio la gavetta (io ne ho fatta abbastanza) perché è uno degli ingredienti che ti aiutano a crescere e a creare una struttura solida che ti consentirà di gettare le basi per diventare un bravo giornalista».

Progetti natalizi?
«Intanto trascorrerò le mie vacanze natalizie con la mia famiglia e il mio compagno, ma a breve farò un passo importante per la mia vita».
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TUTTO TV L’emozione ha due voci: Alessandro Budroni e Valeria Vidali di Daniela D’Angelo

Quando due voci unite plasmano la sinfonia e la passione dei sentimenti, l'ascoltatore riesce a nuotare nel mondo da loro creato, dimenticando le fatiche del quotidiano e lasciandosi sommergere da questa magia. Questo è il mondo del doppiaggio e a svelarcelo sono due grandi artisti, attori e doppiatori, Valeria Vidali e Alessandro Budroni, una coppia affiatata sia nel lavoro che lontano dai microfoni, che ha saputo donare le proprie voci ai personaggi che tanto hanno fatto sognare grandi e piccini.

Essere doppiatore significa immedesimazione nel personaggio, quindi riuscire a trasmettere con la sola voce gli stati d'animo da lui provati. Secondo la vostra esperienza quanto è determinante la voce per la caratterizzazione del personaggio?
ALESSANDRO. «In linea teorica, sicuramente la vocalità di un personaggio è molto importante per la sua determinazione, anche se non fondamentale. La cosa che credo sia più importante è l'aderenza recitativa. Il nostro lavoro è quello di seguire il lavoro fatto dall'attore in originale, dobbiamo cercare di "tradurre" in italiano lo studio che l'interprete ha fatto sul suo personaggio. Praticamente parlando devo dire che quando vengo assegnato a un ruolo, cerco di seguire il più possibile la voce originale. Tra i compiti di un attore c'è anche quello di scegliere il modo di parlare del proprio personaggio, quindi io cerco di rispettare al massimo le sue scelte, cercando di avvicinarmi il più possibile al suo timbro e alla sua pasta vocale. Mia moglie dice che sono un "maledetto camaleonte". Spero che sia un complimento».
VALERIA. «La voce è uno strumento, ogni voce suona in modo diverso ed è molto personale, quindi è ovviamente importante, anche se, a mio parere nel nostro caso, è molto importante come si recita. Ognuno di noi cerca di capire come quell'attore ha sviluppato il personaggio e il "sentimento" che sta recitando per ricrearlo il più fedelmente possibile, quindi si cerca sempre, laddove è possibile di seguire anche la vocalità».

Quando viene affidato un lavoro di doppiaggio, la scelta della "voce" ricade sulla decisione di renderla quanto meno vicina all'originale oppure su altri criteri?
A. «Dipende. A volte i ruoli vengono assegnati dopo aver sostenuto un provino. In questo caso i criteri di giudizio sono principalmente due: l'aderenza vocale a quella dell'originale e la capacità interpretativa. Altre volte invece l'assegnazione va per "categorie vocali", ovvero si cerca di affidare un personaggio a una voce che renda al meglio le sue caratteristiche fisiche o morali. La mia voce per esempio non è certo pulita, rotonda, bensì abbastanza "graffiata", per cui si abbinerà meglio a un cattivo o a un personaggio ruvido, come Jim Hopper di Stranger Things, piuttosto che a un lord inglese. Poi c'è un altro criterio, che è quello che tende a prediligere le inclinazioni attoriali: ci sono alcuni doppiatori che rendono meglio sui ruoli da eroe, altri su quelli da antagonista. Io preferisco doppiare quelli sporchi e cattivi, anche perché, diciamocelo, tra Lex Luthor e Superman, sicuramente il primo ha più sfaccettature; per un attore è molto più divertente!».
V. «Questa è una scelta che viene fatta dal direttore di doppiaggio, sarà lui a decidere se ci sono attori con vocalità simili a quelle dell'originale e se richiesto si faranno dei provini, se non richiesto il direttore sceglierà l'attore più adatto a rendere quel ruolo più simile all'originale. Il direttore è un ruolo molto importante per la riuscita del doppiaggio di un film e le scelte da dover fare sono molte e importanti».

Quando vi viene affidato un personaggio, quanto tempo dedicate allo studio della sua caratterizzazione vocale?
A. «Purtroppo non c'è tempo per studiare la caratterizzazione vocale. Quando veniamo convocati, ci viene detto al massimo il titolo di quello che doppiamo doppiare o il nome del personaggio, ma non vediamo mai niente prima di entrare in sala. Quando si arriva al turno, il direttore ci spiega il ruolo e ci presenta le sue peculiarità. A quel punto ci si adegua al lavoro fatto dall'attore in originale. Per quanto mi riguarda, io cerco di avvicinarmi sempre il più possibile alla vocalità dell'attore, ma non è sempre necessario. Quello che è più importante è restituire al pubblico lo spirito del personaggio, la sua "anima", le sue sfaccettature emotive».
V. «Non abbiamo molto tempo, nel momento che si entra in sala il direttore di doppiaggio ci spiega il film o la serie e ci spiega il personaggio che andremo ad interpretare. Spesso i primi anelli sono di studio. Magari cerchiamo di legare più anelli per studiare il personaggio in toto, per capire come l'attore in originale si muove in quel ruolo, per osservarlo».

Qual è il personaggio a cui siete maggiormente legati nell'avergli prestato la voce e perché?
A. «Sicuramente Jim Hopper di Stranger Things o Oleg di 2Broke Girls, sono i due personaggi che mi hanno dato più soddisfazioni. Il primo per la sua umanità vera, piena di sfumature: è duro, a tratti sgradevole, ma nasconde una sensibilità autentica che spesso fatica a far emergere. Il secondo è semplicemente divertentissimo. Anche Raul de la Riva di Velvet mi ha molto divertito, ma la lavorazione che ho amato di più è senza dubbio Castaway on the moon, un meraviglioso film coreano di cui ho avuto la fortuna di curare anche gli adattamenti. Io sono il protagonista maschile, Valeria è la protagonista femminile e i dialoghi sono i miei: praticamente la versione italiana di quel film per me è come un figlio. E comunque, a prescindere dal doppiaggio, è un film delizioso, una commedia surreale e delicata che consiglio a tutti di vedere».
V. «Domanda complicata, io mi affeziono molto ai personaggi che interpreto. Ognuno ha qualcosa di particolare, qualcosa di unico. Santana della serie Glee è sicuramente uno di quelli a cui mi sono legata molto. Una ragazza dal carattere forte (apparentemente), sfacciata, molto spesso cattiva, ma fondamentalmente debole, problematica e bisognosa di amore. Un'altra è Megan Walker del film Unstable una donna/moglie alla quale viene fatto credere di essere impazzita dal marito e dalla sorella. Tantissime sfaccettature, tantissimi attimi di panico, sensibilità borderline, dubbi e paure. Bellissimo davvero, non nascondo che ho pianto con lei ho avuto paura con lei. Ma ripeto in ogni lavorazione mi lego al personaggio, ora mi viene in mente la Fata Nera di Once upon a time, meravigliosa, cattiva, disperata, sofferente... che dirvi!».

Cosa consigliate a chi vuole intraprendere la strada del doppiaggio?
A. «Studiate, ragazzi, studiate. E non parlo solo di corsi di doppiaggio. Per essere dei buoni doppiatori bisogna essere prima di tutto dei buoni attori. Il mestiere di doppiatore è solo una delle tante sfaccettature del mestiere di attore. Per cui fate corsi di recitazione seri, fate teatro, insomma, dedicatevi alla recitazione sotto ogni aspetto. Quando sentirete di potervi definire attori, allora potrete approcciare anche il mestiere di doppiatore. E quando arriverete in uno stabilimento di doppiaggio per chiedere di assistere o per chiedere un provino, ricordatevi sempre che state entrando in un luogo di lavoro, piacevole e divertente, ma pur sempre un lavoro. Quindi siate educati e rispettosi, non "spalancate le porte", ma "bussate". Un'ultima cosa: abbiate pazienza! Ci vogliono anni per affinare la tecnica. Non crediate di arrivare e di essere subito convocati per doppiare un protagonista. Si parte dai brusii, poi, se si hanno le capacità si passa ai piccoli ruoli e così via. Non cercate di bruciare le tappe. La fretta non è mai amica di nessuno».
V. «Ci sono varie cose da dire ma quella che mi preme di più dire è che bisogna arrivare preparati, di non pensare "ho una bella voce"; sì, per carità può essere un punto a favore, ma se non c'è professionalità e per professionalità intendo una preparazione attoriale forte, ci farete ben poco solo con la bella voce. Per fare questo lavoro bisogna essere attori, siamo attori specializzati, ogni tre ore dobbiamo interpretare ruoli differenti e se non si è attori come si può pensare di essere doppiatori?
Un'altra cosa sulla quale ritengo importante mettere il punto è il fatto di entrare in punta di piedi, con rispetto dei colleghi che stanno lavorando, dei direttori che stanno lavorando. Io personalmente ho seguito per 3 anni in silenzio, perché gli attori al leggio potevano distrarsi se entravo e uscivo dalla sala. Al giorno d'oggi i ragazzi pensano che dopo qualche turno di brusio sia il momento di fare dei personaggi, è sbagliato!!!! Il brusio e i piccolissimi ruoli sono fondamentali per la formazione. Si prende dimestichezza con le emozioni, con noi stessi, con il microfono, con le piccole sfumature, con i direttori, con gli assistenti, con tutto».
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DONNE Ilenia Volpe, quando faccio musica voglio sentire una scossa di Alessandra Paparelli

Abbiamo intervistato Ilenia Volpe, cantautrice, atmosfere rock e underground del panorama romano, grinta, passione per una intervista a tutto tondo.

Come nasce la tua passione musicale, come inizia il tuo percorso artistico e quali sono gli artisti e le band di riferimento? Quali le artiste donna, in particolare, se ci sono?
«È nata presumibilmente nel momento in cui ho messo piede sulla terra. Ho avuto il privilegio di nascere e crescere in una famiglia dove la musica era ed è al centro di tutto. Il ricordo più nitido che ho è quello di mio papà che entra in macchina e, ancor prima di mettere in moto la macchina, accende l'autoradio. Tra le mie passioni più grandi ci sono Nirvana, Nine Inch Nails, Fabrizio De Andrè, Pink Floyd, Tom Waits, CCCP. L'artista donna che mi ha folgorato maggiormente nella mia era adolescenziale è stata Alanis Morissette, i suoi primi due album mi emozionano tutt'ora. Vocalmente amo profondamente Janis Joplin, Patti Smith, Joan Baez e Mia Martini. Con una particolare predilezione per quest'ultima».

A quattro anni dall'esordio con Radical Chic un cazzo, prodotto da Giorgio Canali cosa è cambiato. Hai smorzato i toni con Mondo al contrario o hai canalizzato la tua energia in maniera differente?
«Premettendo che entrambi i lavori sono e restano bellissimi e profondi. Radical Chic è una raccolta di brani che ho scritto a partire dai 16 anni fino al momento in cui sono entrata in studio. Mi piace definirlo un diario. Mondo al contrario invece l'ho scritto nel giro di un paio d'anni, in un periodo molto sofferto e sofferente della mia vita. Non riuscivo più ad urlare come nel passato e allora ho seguito il flusso dei miei silenzi, raccontandoli all'interno dell'album. La cosa più importante che mi ha insegnato Giorgio è di suonare, senza pensare a come fare una cosa. Viste le mie inesistenti capacità tecniche, facilita molto il mio compito. E così ho fatto finora».

Quali sono, a tuo avviso, le nuove strade personali per esprimere oggi senza mezzi termini i disagi, il vuoto ideologico, la mancanze di idee e progetti, le incertezze e le disillusioni della società attuale? Avverti il vuoto ideologico e di pensiero di questi tempi?
«Le ideologie ci sono e fanno "cagare", sono le idee "buone" che mancano. E, come dico sempre, ne basterebbe solo una: l'umanità. La nuova strada è la tua, quella che calpesti, quella che a volte ti ostacola, quella che altre volte ti fa correre. Amo chi "usa" la musica come mezzo e non come fine. Se hai una tenda, la prima cosa a cui penserai sarà il posto più consono dove piantarla, non l'albergo dove alloggiare».

Parliamo del tuo album, Mondo al Contrario e in particolare di Porcelli D'Italia, ironica e sarcastica invettiva sulla mala politica? Sulla deludente quanto sciatta classe "dirigente" odierna?
«La mia preferita, peraltro! È un riferimento a La Fattoria degli animali di Orwell, a mio avviso quadro perfetto e geniale della perversione umana nel momento in cui si appropria del potere. Non c'è rivoluzione se non si sa dire di no e per me oggi gli eroi sono la mia famiglia, i miei amici, chi mi fa sentire bella e io. Quando riesco a dire di no».

Di cosa parla Mondo al Contrario, qual è il filo conduttore, il pensiero dominante?
«Nel momento in cui l'ho scritto ho vissuto un forte disagio, dovuto alla presenza costante di paura in me. Paura della morte (altrui), della violenza e delle sue conseguenze, paura addirittura della bellezza. Quest'album è un isolamento da tutto ciò, le mani che coprono le orecchie per non sentire. In poche parole, sono io dopo aver detto sì per troppe volte».

Che musica ascolti quando non componi?
«Ultimamente ne ascolto poca e, quando lo faccio, voglio sentire una scossa. Insomma, Mia Martini».

Sei cresciuta nelle atmosfere rock e underground della scena capitolina, vanti una lunga serie di belle e interessantissime collaborazioni. Quanto cosa in termini di sacrificio la scelta della musica indipendente? E domanda collegata, dove andrà a finire la musica indipendente, ha ancora futuro, secondo la tua opinione?
«Zero sacrifici, non c'è niente di più bello della libertà d'espressione e io ne ho, visto che il mio pubblico, così teneramente piccolo, si è selezionato da sé. Non mi svegliate da questo sogno. Per quanto riguarda la musica indipendente, ci vuole molto amore. La musica va maltrattata nell'approccio, devi sviscerarla, sviscerarti, sputare sangue, dare spazio alle parole, stare zitto quando non hai niente da dire. Ma poi la devi amare. Questo è il futuro della musica indipendente, se un futuro glielo vogliamo dare».

Ultima domanda, sui Talent. Ritieni i talent una possibilità o una trappola? Dove vanno a finire gli artisti, non solo quelli che hanno vinto i talent ma soprattutto i tantissimi che hanno partecipato? È una fabbrica illusoria, a tuo avviso, il talent?
«I talent non li apprezzo; non mi piace il mondo dello spettacolo e amo parlare di musica. Anzi, farla».
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