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Telegiornaliste anno XIII N. 32 (542) del 8 novembre 2017
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Gemma
Favia, vi do il buongiorno a Meteo Show
di Giuseppe Bosso
L’abbiamo
incontrata la prima volta nel 2014, quando iniziava ad essere
un volto familiare al pubblico di Raiuno. Da allora
Gemma Favia ha proseguito in maniera proficua la sua
carriera, che oggi la vede dare il buongiorno agli spettatori di Rainews
con Meteo Show, la striscia in cui la giornalista barese ci
racconta quali saranno le previsioni meteo per la giornata. La
incontriamo nuovamente con reciproca gioia.
Com’è nata e come si è sviluppata la tua ‘avventura’ meteo?
«Abbiamo iniziato a settembre del 2016, quando il direttore Di Bella ha
pensato a questo meteo show, diverso da quelli tradizionali, sempre
ovviamente con la collaborazione dell’aeronautica militare, avvalendoci
ogni giorno di immagini di città che cambiano di giorno in giorno;
adesso lo spazio è spalmato in tre momenti al mattino. È una bella
esperienza che ho subito accettato con entusiasmo quando mi è stata
proposta, che continuo a fare in parallelo a parallelo a Il Caffè di
Raiuno con
Cinzia Tani e Guido Barlozzetti. Prossimamente faremo anche
una versione del meteo show dedicata alla montagna, in inverno, in
occasione della stagione sciistica».
Hai incontrato difficoltà nel cimentarti in questa specifica
tematica?
«Curiosità direi; ho scoperto anche che è un argomento seguitissimo
dalla gente, che non esce da casa la mattina senza aver ascoltato
l’oroscopo e le previsioni del tempo – sorride, ndr – è una cosa che
attira un po’ tutti».
Le persone con cui lavori e i tuoi cari ti hanno mai definita
‘meteorina’ da quando hai iniziato?
«No… conduttrice del meteo, sì, giornalista che si occupa di meteo...».
Non solo meteo, comunque, nel tuo quotidiano…
«Sì, Il Caffè di Raiuno è una conferma, che mi dà stimoli ogni
giorno nell’affrontare argomenti di attualità, e quest’anno lo spazio
della telefonata, iniziato con Nando Dalla Chiesa, in cui ogni settimana
ospitiamo un personaggio della cultura, della società, della politica,
per raccontare un fenomeno o un fatto frequente. È stato bello iniziare
con Dalla Chiesa parlare di mafia, di suo padre, che è uno di quegli
eroi che meritano di essere ricordati sempre e non solo in occasione di
queste ricorrenze».
Com’è cambiata nel corso degli anni la tua giornata tipo?
«Sono cambiate le abitudini, gli orari… ma per fortuna riesco anche a
ritagliarmi spazi per me durante la giornata; andare al cinema durante
l’inverno, fare sport, e soprattutto dedicarmi agli affetti... è
fondamentale, dopo una giornata di lavoro, tornare a casa e dedicarti
alla persona che ami e alla famiglia».
Fin qui possiamo dire che sei stata fondamentalmente una ‘bella di
giorno’: pronta per sperimentare altre fasce orarie?
«Io mi sento pronta, sono in Rai da sette anni, con passione ed
entusiasmo perché parliamo della prima azienda culturale italiana;
accetterei altre sfide se mi si ponessero».
Possiamo dire che con la tua storia di ragazza barese trasferitasi a
Roma per lavoro rappresenti lo specchio della generazione italiana di
oggi?
«Non è che mi sia spostata di tantissimo: io credo nell’Italia e spero
che i giovani siano invogliati a restare se gli fossero offerte
occasioni di futuro… io ho scelto Roma non per lavoro ma perché amo da
sempre la capitale, fin da bambina. Ho iniziato a Bari ad Antenna Sud,
poi per crescere ovviamente occorre essere disposti ad allontanarsi da
casa. Non è stato un sacrificio, la fortuna è stata trovare lavoro
dopo…. in ogni caso ti ripeto, il mio augurio ai giovani è di poter
restare in Italia cogliendo le possibilità che ci potranno essere».
Hai cambiato qualcosa dal punto di vista del look con il crescere dei
tuoi spazi?
«Mantengo sempre il mio look che sfoggio anche fuori; forse su Raiuno si
punta sul classico, in linea con la fascia oraria e il programma; al
meteo ‘azzardiamo’ di più, indossando bretelle o la cravatta, sdoganando
questo stile».
Nella nostra prima intervista parlavi di serenità come stato d’animo
da raggiungere: è sempre così?
«In questi anni sono cambiate tante cose, anche nella mia vita privata;
ho trovato la mia migliore metà e quando trovi l’amore, quello vero,
riesci a racchiudere tutto, serenità che si sposa con la felicità. Non è
facile riuscire a trovare tutto questo, ma nel momento in cui ci riesci
hai raggiunto l’apice. Ho trovato la mia migliore metà».
Ti hanno mai messo il bavaglio?
«Non me lo faccio mettere, o mi rovinerebbe il rossetto!». |
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TUTTO TV Lorenzo di Las Plassas: in redazione è fondamentale avere il proprio
valore aggiunto
di Antonia Del Sambro
Lorenzo di Las Plassas è nato a Roma ma ha una lunga
carriera alle spalle fuori dall’Italia: è stato assistente
personale di Oriana Fallaci quando lavorava a New York, ha
fatto l’inviato ed è stato tra i giornalisti fondatori del
canale
RaiNews24; ha lavorato anche per Euronews e Rai
Internazionale occupandosi di cinema. Lo abbiamo
intervistato per il nostro giornale facendoci raccontare di
più proprio da lui.
Lorenzo, lei è un giornalista che si può definire a tutto
tondo perché conduce, fa l’inviato, scrive e realizza
programmi e si occupa anche di estero, ma cosa le piace fare
di più di tutte queste cose?
«In effetti nel canale ho la duplice veste di conduttore e
di inviato. Sono due aspetti molto diversi della mia
professione che necessitano una diversa capacità di
narrazione: per esempio, nel primo caso, bisogna saper
comunicare le notizie con una modalità che definirei
attoriale, bilanciando la partecipazione emotiva con il
necessario distacco; l’emozione è sempre un gancio per il
ricevente ma, nella conduzione di un tg, questa deve essere
appena accennata altrimenti sfocia nella piaggeria; d’altro
canto una conduzione troppo asettica o monocorde crea
distacco e soprattutto rischia di non far percepire il
diverso peso di ogni notizia che viene letta. Mi piace
cercare di bilanciare le due cose. Il conduttore di un
canale di flusso poi deve saper gestire le emergenze, sempre
possibili, come nel caso delle notizie dirompenti (breaking
news). Nella veste di inviato invece mi piace trovare le
notizie e immaginare, non solo un modo corretto, ma anche
originale per raccontarle; è fondamentale avere il proprio
valore aggiunto, la propria capacità narrativa. Insomma mi
appassionano entrambi gli aspetti della mia professione
purché abbia la possibilità di metterci del mio, nello stile
e nella narrazione dei fatti. Posso aggiungere che per le
notizie culturali come quelle relative a cinema, arte
contemporanea architettura, si lavora di più con la testa.
Per le notizie che riguardano le storie delle persone, è
inevitabile lavorare anche con il cuore».
Lei ha collaborato a stretto contatto con Oriana Fallaci
quando viveva a New York, cosa le è rimasto di quella
esperienza e cosa del suo pensiero trova attuale e
lungimirante in questo particolare momento storico e
sociale?
«Risposta facile e difficile allo stesso tempo: facile
perché posso dire che fu grazie alla signora -così la
chiamavo nei mesi in cui lavoravo con lei - che, a 16 anni,
leggendo Intervista con la Storia, mi innamorai della
professione giornalistica; devo molto alla sua scrittura
travolgente e alla passione che trasudava dalle sue parole,
alla sua metrica. Posso anche dire facilmente che il più
grande insegnamento che ho ricevuto dall’esperienza di
lavoro con ‘la signora’, ai tempi della traduzione in
inglese e francese di Inshallah, è stato che non
bisogna mai incontrare dal vivo il tuo idolo; ciò che
consideri un mito deve rimanere nell’alveo del mito e non
diventare mai reale. Allora qui la parte in cui è difficile
rispondere: se dovessi raccontare le cose negative di
quell’esperienza passerei per presuntuoso di fronte a una
giornalista ‘mitica’ e mitizzata come Oriana Fallaci, per
cui meglio star zitto. Posso dire senza dubbio che non trovo
il suo pensiero lungimirante. La signora, impermeabile a
giudizi esterni, commetteva l’errore di equiparare l’islam,
tutto l’islam, con la barbarie e il terrorismo e non
considerava che la vera guerra culturale in atto non è tra
cristianesimo e islam ma tra fondamentalismo religioso e
quell’etica che parte dal dubbio socratico e si formalizza
nello spirito illuminista».
Ci racconti la sua giornata tipo, cosa cambierebbe del
suo lavoro o modificherebbe dopo tanti anni sul campo?
«La giornata da conduttore sportivo: sveglia alle 7,
colazione e incombenze domestiche, dalle 8.30 alle 10 in
palestra. Poi riunione a Saxa alle 11 e inizio conduzione
alle 12.30. Giornata da inviato: senza orari, in servizio
anche dalle 6 del mattino fino all’una di notte».
Un suggerimento sincero ai giovani che desiderano, oggi,
percorrere il suo stesso cammino e sognano di intraprendere
una carriera come la sua.
«Sapete che il mondo del giornalismo è chiuso, vero?! Che
non c’è lavoro e che le redazioni della stampa scritta si
contraggono? E che l’online paga pochissimo? lo sapete
vero?! E che la figura romantica del giornalista inviato è
agli sgoccioli e che, per lo più, si finisce a lavorare per
gli uffici stampa? Bè, se siete perfettamente consapevoli di
tutto ciò ma sentite di non poter fare a meno di provarci
allora andate avanti e buona fortuna!».
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Simonetta
Caminiti racconta il libro Senti chi parla
di Tiziana Cazziero
Incontriamo Simonetta Caminiti, scrittrice e giornalista, che
ci racconta del suo libro Senti chi parla, edito da
Anniversary Books, scritto con Massimo M. Veronese, una
meravigliosa scoperta del meraviglioso mondo del doppiaggio
attraverso le storie e le voci dei suoi protagonisti.
Ciao Simonetta, grazie per questa chiacchierata. Senti
chi parla, un libro che racconta le voci del doppiaggio,
come nasce la voglia di scrivere su questo argomento?
«Massimo M. Veronese, eccellente giornalista de Il Giornale,
ha sempre avuto la mia stessa passione: le grandi voci del
cinema. Ci siamo conosciuti proprio grazie a una mia rubrica
sui doppiatori, sulla testata online MP News, prima che io
cominciassi a collaborare con Il Giornale; nell’estate
2011, io ero nella mia Calabria, e Massimo non lo avevo ancora
neanche mai incontrato di persona; mi inviò un sms
indimenticabile: “vuoi scrivere un libro sul doppiaggio con
me?”; non c’era ancora un’idea precisa ma di sicuro la voglia,
di entrambi, di realizzare qualcosa di unico su questo mondo
poco frequentato dai grossi media».
101 in frasi che hanno scritto la storia del cinema, cosa ha
significato lavorare a questo progetto e come pensi sia
cambiato il grande schermo negli ultimi anni?
«Intanto è stato un lavoro di selezione e rinunce: moltissimi
doppiatori eccezionali, dato l’impianto del libro, purtroppo ne
sono rimasti fuori; perché abbiamo deciso di partire dalle
frasi cult, quelle che non a tutti, nemmeno ai più bravi, è
capitato di pronunciare: Io ti spiezzo in due in
Rocky, Domani è un altro giorno in Via col vento,
Io ho visto cose che voi umani non potete immaginare e
così via… i tormentoni, rigorosamente in italiano, del cinema
internazionale; poi è stato un lavoro senza sprechi di ricerca:
archivi di giornali (il libro è pieno di ritagli di vecchi e
splendidi articoli), interviste ai doppiatori, sana maieutica
nel tirar fuori da ogni storia (del singolo doppiatore) le
curiosità più gustose. Doveva essere un libro pop, non un testo
accademico, scritto in modo fresco e vivace. Quanto ai
cambiamenti del cinema negli ultimi anni, si potrebbero fare
riflessioni infinite, e forse retoriche: si sono centuplicati i
generi, gli stili, le voci; ma una rivoluzione, secondo me, è
il parziale trasferimento dei contenuti, del linguaggio, della
grammatica del grande schermo… in quello piccolo, di schermo,
cioè nelle serie televisive; che oggi vantano regie, cast,
sceneggiature e colpi di genio in nulla inferiori al cinema. E
che stanno influenzando il cinema stesso».
I doppiatori hanno un ruolo importante nel cinema, una voce
può secondo te essere complice del successo di un attore
internazionale?
«È successo per più di settant’anni, potrebbe accadere anche in
futuro; anche se il pubblico italiano oggi, un po’ per giusta
curiosità, un po’ cavalcando la moda snob contro l’arte dei
doppiatori, sostiene di gustarsi più di buon grado i film in
lingua originale. Ma Sylvester Stallone sarebbe stato così
amato senza le interpretazioni intime, inconfondibili, di
Ferruccio Amendola? E io mi sarei innamorata dell’architetto
squattrinato di Proposta indecente se non fosse stato
per la vocalità di Roberto Chevalier? Per non parlare di
Giancarlo Giannini su Al Pacino, di Maria Pia Di Meo su Meryl
Streep».
Come e quando ti sei avvicinata al mondo del doppiaggio?
«Da bambina conoscevo a memoria le battute italiane di Rossella
O’Hara, e dei suoi comprimari in Via col vento, a parte
tutti quelli dei personaggi Disney, naturalmente; ero
affascinata da queste voci mimetiche, capaci di infilarsi negli
occhi e nelle labbra di grandi star di Hollywood, o piccoli
caratteri nel cinema d’animazione: ero convinta che ci fosse un
mondo da scoprire, al riguardo. Quando ho cominciato a studiare
le lingue, all’università, ho coccolato per un po’ il sogno di
diventare traduttrice cinematografica: e ho unito i primi passi
nel giornalismo a questo mio piccolo sogno. Ho cominciato a
entrare nelle sale, a intervistare grandi voci. Anche
accompagnata da un bravo fotografo, Guido Gambardella, che ne
catturava le personalità col suo obiettivo. Era sempre
emozionante sentirli raccontarsi, aprivano bocca, rispondevano
alle mie curiosità… e davanti ai miei occhi si srotolavano
tutte le meravigliose storie che avevano doppiato. Tutti i
personaggi incredibili a cui avevano dato anima. In seguito, ho
intervistato anche star internazionali, ma devo dire che la
suggestione verso i doppiatori più interessanti non passa mai».
Ci racconti qualche aneddoto accaduto durante la stesura del
libro?
«Una grande voce italiana, una vera star del settore, quando le
raccontai l’inchiesta che io e Massimo avevamo intenzione di
fare, fu molto perplessa. E addirittura un po’ aggressiva:
sosteneva che il doppiaggio, come il mondo dei tenori, è fatto
per stare lontano dai riflettori, e che la nostra operazione
non sarebbe stata un successo. Oggi, è lei la più grande fan di
Senti chi parla, un volume così particolare che la
Biennale di Venezia gli ha riservato un evento tutto suo,
visitato dal ministro Dario Franceschini, e che finalmente
toglie dal buio questi grandi interpreti con un metodo mai
sperimentato prima. I media nazionali ne sono stati
affascinati, il pubblico ha amato questa operazione; e la
grande star di cui parlavo è molto felice».
Il libro è stato scritto con un collega, mentre Maurizio
Pittiglio si è occupato della parte illustrativa, com’è stato
affrontare questa collaborazione? Raccontaci questa esperienza.
«Maurizio Pittiglio era già l’autore di una mostra fotografica
dedicata al doppiaggio: ha lavorato, in questo senso, in
autonomia, e si è aggiunto a noi più tardi. La sua mostra,
AttorInvoce, è stata esposta all’Excelsior di Venezia
durante tutto il festival del cinema, quest’anno, e in più
svariate sue foto sono contenute nel libro. Un apporto prezioso
e un compagno di viaggio in più, cosa di cui siamo felici».
Giornalista, scrittrice, blogger, come concili tutte queste
attività?
«Preciso che come
blogger io mi limito quasi sempre a brevi post,
trasferendo i miei servizi giornalistici sulla mia piattaforma
online; o magari fotografie, frammenti dei miei racconti,
video, o piccole considerazioni. Ma sono pochi i post
congegnati proprio per il blog: non ho il tempo di fare la
blogger in senso stretto, e nessuna passione per la carriera da
influencer, che richiederebbe caratteristiche lontane dal mio
stile di vita; avevo blog tematici che non curo più, infatti, a
parte uno appena aperto su
Linkiesta.it, di cui sono orgogliosa: ma certo lì
non parlo di me stessa. Giornalista lo sono perché è una
professione che ho scelto fortemente, che svolgo da freelance
per diverse testate nazionali: uno dei vantaggi è che mi occupo
sempre di argomenti diversi, che attraverso le infinite
sfaccettature della narrazione senza che mi siano dati limiti:
ancora oggi posso occuparmi di cronaca nera e spettacoli nella
stessa settimana. Alla scrittura creativa, infine, mi dedico
nei periodi più distesi e ispirati. Scrivevo romanzi (io li
chiamavo così…) anche in terza elementare: è in assoluto la mia
passione più grande; tu mi chiedi come concilio le mie
attività; io penso che partano tutte dalla stessa emergenza di
esprimersi e di raccontare. Ecco perché tempi e metodi, alla
fine, si trovano sempre».
Prima di Senti chi parla hai pubblicato altre opere
in diversi generi, quanto pensi sia importante per un’autrice
spaziare nella scrittura?
«Un cronista, secondo me, deve sempre farsi le ossa e passare
per i diversi ambiti del racconto giornalistico: può
specializzarsi in qualcosa, come quasi sempre succede, ma è
giusto che abbia una formazione completa. Uno scrittore, al
contrario, dovrebbe scrivere quello che sente veramente, quello
che veramente, in lui, è un’emergenza artistica; non deve “per
forza” spaziare in generi diversi. A me è capitato di scrivere
cose molto disparate, con un romanzo di formazione e due
raccolte di racconti, perché in stagioni diverse della mia vita
ho avuto il desiderio e la necessità di misurarmi con storie e
contenuti che avevo dentro, e che evidentemente non si
somigliavano tra loro. Tutto qui».
Quali sono le caratteristiche essenziali di uno scrittore di
oggi?
«Non lasciarsi lusingare dalla dilagante banalità: dalle dure
leggi dell’aspirante bestseller, che spesso portano a
esperimenti velleitari e poco utili. E poi, secondo me, le
caratteristiche dello scrittore di sempre: leggere più che può,
saper aspettare, esigere originalità e sincerità da quello che
racconta. E soprattutto, avere una cura linguistica che non sia
poi delegata all’editor di turno. Avere un amore autentico e
felice per le Parole».
Com’è il tuo rapporto con i social? Pensi siano importanti
nel mondo editoriale oggi?
«Nell’editoria tout-court i social sono diventati
indispensabili: tutti hanno un profilo Facebook, tutti sono
perlomeno lambiti dall’informazione (o dalla promozione di
libri) online. Quanto ai singoli operatori dell’informazione e
ai singoli scrittori, io penso abbiano ancora il diritto di
fare l’uso dei social che assomiglia loro e li convince. Io ho
Twitter ma non lo uso (non lo amo); da pochissimo ho Instagram;
passo più tempo su Facebook, ma non punto a un seguito enorme
di persone che non conosco, e spesso con dispiacere rifiuto
richieste di amicizia per questa ragione: mi piace condividere
riflessioni personali senza dovermi poi calare in polemiche
infinite con persone di cui non vedo che nome e cognome (se va
bene); certamente promuovo i miei lavori di giornalista e
scrittrice, ma anche, raramente, pensieri e pezzi della mia
vita che non mi piace esporre a migliaia di sconosciuti. Cerco
ancora, insomma, di usare il mezzo, e di non farmi usare da
lui».
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