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Telegiornaliste anno XI N. 6 (437) del 16 febbraio 2015
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TGISTE Mia
Ceran: non mi entusiasmava la conduzione a tre a Millennium, e
poi... di Giuseppe Bosso
Da due anni nella squadra di
Agorà, in
onda su Rai 3 dal lunedì al venerdì, incontriamo
Mia Ceran.
Hai vissuto tra Italia e Stati Uniti: quali differenze hai
riscontrato, anche dal punto di vista del mondo del giornalismo?
«Ci sarebbero molte distinzioni da fare, prima di quella tra i due
paesi, in base ai diversi prodotti (telegiornali, giornalismo
d'inchiesta, programmi di informazione, cronaca rosa…) ma più che una
differenza culturale tra paesi penso che sia utile pensare, all'interno
di ciascun paese, alle differenze di pubblico. Io penso sempre prima a
chi ascolta, non a chi fa la tv. Non mi permetterei di dire chi, tra
Italia e Stati Uniti, offra modelli migliori. Ma se devo pensare a cosa
apprezzo del giornalismo anglosassone - e a cosa cerco, nel mio piccolo,
di imitare - penso alla "neutralità" dei giornalisti-conduttori. Amo il
loro modo di tenere uno "standard" nelle forme: niente accento, nessun
riferimento personale, un abbigliamento consono alla situazione. Credo
che chi veicola notizie debba sempre rimanere lievemente defilato, non
essere più "appariscente" della notizia in sé. Insomma, anche nel
giornalismo secondo me la forma è sostanza».
In dieci anni hai spaziato dalla Cnn alla Rai passando per Mediaset e
La 7: cosa hanno significato per te queste esperienze?
«Avevo diciannove anni quando entrai per la prima volta, da stagista,
nella sede di corrispondenza della Cnn a Roma. Ero emozionata,
entusiasta e ingenua. Le esperienze e i sentimenti degli inizi sono
impareggiabili: hai solo da imparare, tutto è nuovo, e l'umiltà dei
principianti è una risorsa preziosa. L'esperienza in CNN mi ha insegnato
a saper fare un po' di tutto: dalla produzione, alla logistica,
rudimenti di montaggio. Non avrei potuto chiedere una palestra migliore.
Mediaset è stata la prima azienda a darmi una responsabilità anche
"formale"; è lì che ho fatto il mio praticantato, lì che sono diventata
giornalista professionista, tra programmi e telegiornali, è lì che ho
imparato il lavoro di squadra, è lì che sono stata "svezzata". Ho
conosciuto le prime soddisfazioni professionali e i primi sgambetti; era
un gigante acquario dove ogni giorno cercavi di capire che pesce eri; ma
è stata con me anche un'azienda "materna", mi ha aiutata a crescere,
fino al punto in cui, nel 2011, ho scelto di andarmene a La7. Avevo
voglia di stare meno in redazione e più sul campo, e a Mediaset questo
non era possibile in quel momento. Avevo l'ambizione di girare pezzi
lunghi, di raccontare storie, di conoscere il paese da vicino. E prima a
L'aria che tira, poi a In Onda, è andata proprio così: una
media di 52 trasferte a stagione; una vita con la valigia pronta. Ho
girato 20 regioni italiane, non avevo mai visto l'Italia così bene o
sino ad allora. E nel mio percorso è stato fondamentale, altrimenti
credo che non mi sarei "rassegnata" così facilmente a lavorare da uno
studio televisivo come è successo negli anni a venire in Rai, prima ad
Agorà, poi a
Millennium.
In questo percorso professionale ho avuto in Rai grandi occasioni e
grandi sfide. Non credo che avrei saputo accoglierle serenamente senza
l'esperienza degli anni precedenti».
La scorsa estate, dopo una lunga trafila da inviata, è arrivata la
conduzione di Millennium. Che cosa ha comportato per te il cambio
dal lavoro di strada a quello di studio?
«Ho amato molto "la strada". Fino a qualche anno fa facevo fatica a
restare in redazione per più di qualche giorno. L'adrenalina che ti
regala il fatto di essere nei luoghi dove qualcosa accade è difficile da
trovare altrove. Quando sei fuori i protagonisti sono gli altri; le
persone, i fatti, i volti. L'inviato è ancora pubblico a sua volta.
Quando montavo i servizi immaginavo sempre di essere seduta a casa. Mi
chiedevo: si capisce questa storia? Mi interessa questa parte? Questa
persona mi sta dando qualche emozione? Mai mi sono domandata se la mia
figura in un pezzo andasse bene o meno: il mio ruolo era marginale.
Quando invece sei in uno studio televisivo, sia in un ruolo minore che
in un ruolo centrale come quello del conduttore, devi fare uno sforzo
maggiore su te stesso: diventi co-protagonista. Lo spettatore guarda
anche te, ti giudica, cerca di capire chi sei e cosa gli vuoi
raccontare; devi fare uno sforzo di "narcisismo", che a qualcuno viene
più facile, ad altri meno. Se inviti il pubblico "a casa tua" devi
assicurarti di essere presentabile, che la tavola sia bene imbandita,
che la casa sia in ordine, che l'atmosfera sia accogliente, devi tu
stesso premurarti di essere gradevole. Ecco, questo accade dentro uno
studio, e a me ha divertito moltissimo giocare a "fare la padrona di
casa"».
Sempre a proposito di Millennium, quali sono stati i pro e i
contro di condurre in tre, donne?
«Quando mi proposero Millennium non mi dissero i nomi delle due
colleghe, mi parlarono solo di una conduzione tripartita, e di tre
donne. Volete la verità? Storsi il naso. Ho stretto grandi amicizie con
donne sul lavoro (poche) ma ho anche vissuto i più aspri conflitti con
colleghe dello stesso sesso. Gli equilibri in un lavoro in cui tutti
quelli bravi sono anche molto ambiziosi sono difficili. Ci ho messo poco
a capire che nel caso di Millennium mi sbagliavo. C'era
collaborazione. Ciascuna portava acqua allo stesso mulino, ciascuna
contribuiva con la propria esperienza (e ciascuna di noi tre aveva un
percorso diverso) alla stessa causa. Ovviamente non sono mancati
malumori occasionali e transitori, ma i timori che avevo inizialmente
erano decisamente infondati, sono felice di aver condiviso questa
esperienza e di non averla fatta da sola».
Da laureata in economia realisticamente ritieni possibile, come in
molti stanno auspicando, un’uscita dell’Italia dall’Euro?
«Impossible is nothing, recita un famoso spot. Ho studiato
economia aziendale, non mi definirei assolutamente un'esperta in
materia. Ho imparato più dai giornali sul tema che dai libri di testo.
Ma non me lo auguro per il nostro paese. Sono convintamente europeista,
soprattutto per ragioni economiche. Mi sono fatta l'idea che i vantaggi
illustrati da chi caldeggia questa scelta sono a breve termine, e ci
penalizzerebbero nel lungo corso».
Segui degli accorgimenti dal punto di vista del look?
«Nessun accorgimento in particolare. Mi curo, questo sì. Penso che chi
fa il nostro mestiere debba al pubblico un'apparenza gradevole, uno
sforzo in più rispetto a quello che si fa per stare in casa o girare per
fatti propri. È una questione di rispetto per il telespettatore. Mi
infastidisco quando vedo colleghi sciatti, con capelli malmessi o abiti
pescati a caso nell'armadio, e stimo quelli che vedo sempre impeccabili
e con vestiario scelto con cura (e invidio il tempo che ci hanno potuto
dedicare!), lo ritengo tanto importante quanto la preparazione e lo
studio».
Nel futuro ti vedi ancora in Italia o vista la tua formazione
preferiresti tentare l’avventura all’estero?
«Non escludo nessuna ipotesi, non l'ho mai fatto. Gli Stati Uniti mi
mancano molto. L'unica ragione per cui negli ultimi sette anni ho
lavorato sempre in Italia è che sono arrivate continuamente proposte
sempre più interessanti, e sfide nuove. Non ho mai lavorato nella stessa
redazione per più di 18 mesi, mai nello stesso ruolo per più di un paio
d'anni. Avevo "nuovi mestieri" da imparare ad ogni giro di giostra. Il
giorno in cui le cose diventeranno un po' più monotone - ammesso che
accada - sarà il giorno in cui forse guarderò all'estero...».
Che idea ti sei fatta del nostro sito?
«È un sito straordinario: avete una capacità di catalogazione, di
archivio e di ricerca incredibili; mi sorprende il solo fatto che ci
siano così tante persone interessate al lavoro (e non solo) delle
telegiornaliste, neanche fossimo dive del cinema: ma mi diverte molto.
Noto spesso che pubblicate anche altri contributi, informazioni, che
condividete spunti segnalati dalle telegiornaliste stesse. Fate un
lavoro molto complesso e molto completo, quindi complimenti!».
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NONSOLOMODA Dall’haute couture al nostro armadio:
ispirazioni dalla sfilata di Chanel di
Francesca Succi
dal blog
TheGlossyMag del 2 febbraio 2015
Mi sto godendo l’haute couture in tutta tranquillità nel tempo
libero. Sabato scorso, prima di partire per Ferrara, mi sono
guardata la sfilata di Chanel e non sapete quanti punti
d’ispirazione ho trovato. Karl come sempre è un genio!
Sarà che adoro lo stile Chanel, ma ho amato tutto quello che è
stato proposto. Nessun capo escluso.
L’haute couture proposto
da Chanel è così vicino all’outfit di ognuno di noi che neanche
lo immaginiamo. Infatti, per un momento ho pensato di guardare
il prêt-à-porter.
A parte il solito stile bon ton a cui siamo abituati in casa
Chanel io ho individuato quattro elementi che possiamo
utilizzare per la prossima stagione:
1-
Come da
Giambattista Valli anche da Chanel regna la
veletta.
Solo che Chanel me la interpreta singola, legata dietro la
testa con un nodino, oppure arricchita ad una calda cuffia di
lana.
Quest’ultima poi sempre piena di dettagli: fiori,
farfalle e swarovski.
2-
La cintura extra che cade morbida fino ai piedi. Non sono
riuscita a capire il materiale utilizzato da Chanel, se pelle o
tessuto, ma sicuramente è qualcosa che copierò sicuro.
Per il
mio caso specifico prenderò un bel nastro di raso lungo da
legare in vita su una gonna a corolla o stile pencil. L’effetto
è chic!
3-
Le ultra flat da eroina. Cioè la scarpa comoda che dev’essere
alta almeno fino a metà polpaccio.
In alternativa una bella
stringata con calzino particolare.
4-
La treccia che fissa i capelli sciolti e questa è una chicca
che potrebbe essermi utile durante l’estate.
Da Chanel ho visto
che è stata fermata con una molletta a fiore. Perché no?!
E a voi quale trend è piaciuto in particolare da questa
sfilata?
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Claudia
Catani: dalla malefica Jolie alla matrigna Blanchett,
con meditazione di Giuseppe Bosso
A soli due anni e mezzo il suo primo doppiaggio in un cult
come Il Padrino; con queste premesse Claudia Catani
non poteva che diventare una delle più apprezzate (e
premiate) doppiatrici (ma non solo doppiatrice, come potrete
vedere visitando il suo
sito)
prestando la sua voce ad attrici come Cameron Diaz, Charlize
Theron e Gwyneth Paltrow, solo per citarne un paio; tra le
serie tv in cui abbiamo potuto ‘ascoltarla’ non possiamo non
citare l’enigmatica agente Dana Scully (alias Gillian
Anderson) protagonista di X Files. Lo scorso anno sua
la voce italiana della Malefica Angelina Jolie.
Dove potremo “ascoltarla” nel 2015?
«Ho da poco finito di doppiare Tea Leoni nella serie
Madame Secretary, in cui interpreta una donna Segretario
di Stato Usa, raccontando sia il suo profilo pubblico che la
vita privata; ha avuto moltissimo successo oltreoceano,
vedremo se sarà così anche in Italia; poi ho da poco vinto
il provino per doppiare Cate Blanchett che prossimamente
vedremo nei panni della matrigna di Cinderella, per
la regia di Kenneth Branagh. E ho da poco finito il remake
di un film di circa 30 anni fa, Annie».
Da una strega all’altra, quindi: come si è preparata alla
parte della Malefica Angelina Jolie e che sensazione
le ha dato questo personaggio che, a ben vedere, ‘riabilita’
la classica figura della strega cattiva?
«Non c’è stata una mia preparazione, come per le altre
parti; è stato bello prestare la voce alla Jolie in un ruolo
diverso da quelli a cui siamo abituati a vederla, nei panni
di un personaggio che come dicevi non è la classica strega
cattiva, ma che ha subito il rifiuto e che ha cercato,
sbagliando, la reazione nella vendetta».
Come ha vissuto i mesi di sciopero che ha indetto la sua
categoria?
«Si tratta di una problematica che ci trasciniamo da anni,
un contratto che non viene rinnovato e che ci comporta
situazioni di sfruttamento; a dispetto della crisi vedo che
invece nonostante tutto dal punto di vista quantitativo
arrivano moltissime serie televisive; quanto al cinema,
invece, si è piuttosto trascurato l’aspetto contenutistico
in questi anni. Credo comunque che sarebbe bene dare sempre
allo spettatore la possibilità di scegliere, andando nelle
sale, se vedere il film in lingua originale o in versione
italiana».
Come concilia il lavoro di doppiatrice con le sue altre
attività?
«Eh sì, tante cose: sono anche mamma… per adesso ci riesco,
ultimamente mi sto dedicando anche all’insegnamento della
recitazione».
Cosa sono gli incontri Musica e Meditazione di cui
spesso parla nella sua
pagina facebook?
«Sono incontri in cui attraverso il suono ed il corpo
maturiamo vengono attivati nella meditazione dei processi di
guarigione».
C’è ancora qualcosa che non ha fatto che vorrebbe fare in
futuro?
«Pubblicare le cose che scrivo».
Cosa farà da grande?
«Ah, decisamente questa è la domanda più bella! – ride, ndr
– Spero di continuare a fare quello che sto facendo;
riscoprirmi come cantante jazz (cosa che però richiede molto
studio e impegno, non meno di altre attività) e dedicarmi
ancora di più all’insegnamento della recitazione».
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PINK NEWS Stelle
e consensi per le più brave chef italiane di
Antonia Del Sambro
Sabato 14 febbraio attesissima riapertura del ristorante
Venissa, sull’isola Marzobbo di Venezia.
Un evento molto bramato e molto glamour, innanzitutto
perché la location è di quelle pluristellate
della guida Michelin; perché la cena è a tema amore,
come tutta la giornata; e infine perché a capo della cucina
c’è una delle chef italiane più quotate e apprezzate al
mondo: Antonia Klugmann, avvocato di Trieste
e cuoca super premiata per la sua cura, la sua
raffinatezza e la sua originalità in cucina.
E proprio l’originalità è sempre stata considerata da
critici e valutatori internazionali il vero tallone di Achille
delle cuoche di tutto il mondo.
Alle donne delle più grandi cucine le si rimproverava di
essere troppo legate alle tradizioni, troppo
“casalinghe”, troppo affezionate alle vecchie e care
ricette di famiglia in una sorta di cordone ombelicale mai
reciso dal genere femminile.
Gli uomini, al contrario, essendo per natura più
staccati dalle cucine delle mamme e delle nonne erano in
grado di portare estro e fantasia ai fornelli, di
sapere creare ricette innovative e coraggiose e
conquistarsi tutte le stesse possibili come vere icone
del loro campo.
È stato difficile quindi anche in questo campo per le donne
farsi valere o perlomeno dimostrare quanto si fosse davvero
brave: le grandi cucine internazionali erano tutte
“occupate” dai colleghi maschi, così come i ristoranti alla
moda emergenti.
E allora le chef come sempre hanno dovuto faticare il doppio
e dimostrare giorno dopo giorno che la cucina è anche DONNA.
In Italia, la Klugmann ha conquistato due stelle
in due ristoranti differenti ed è ben intenzionata a non
perderle. Il segreto del suo successo? La cultura:
capire che il mondo è in continua evoluzione, che i
tempi sono cambiati e che osare è una prerogativa anche
femminile l’ha resa una delle cuoche più famose del mondo.
Accanto a lei, Iside de Cesare e
Loretta Fanella stanno percorrendo ognuna a suo modo lo
stesso cammino ascensionale che fa delle nostre chef
italiane vere icone di stile e di vita.
Iside è mamma e moglie e con un coraggio e una
ambizione che nulla hanno da invidiare a quelle maschili ha
deciso di lasciare la facoltà di Ingegneria e seguire
la sua vera passione.
Ha aperto La Parolina, ristorante sulle colline
di Viterbo multi premiato e stellato e si è imposta per
la scelta “salutista” delle ricette e degli ingredienti.
Il successo è stato tanto cercato quanto consolidato e ora
Iside è chiamata a tenere banco nelle scuole di cucina
di tutto il mondo.
Loretta sta per aprire una catena di pasticcerie a suo
nome e di creare un resort di lusso in Toscana
dopo la sua lunga esperienza con i migliori chef italiani.
Lei dice che lavorare con Cracco e con altri nomi maschili
della cucina internazionale non l’ha mai fatta sentire
discriminata e che dimostrare agli uomini quanto si vale
poi è il bagaglio per creare e realizzare qualcosa di
proprio senza paura e senza esitazioni.
Fanella è considerata da tutti la più grande chef
pasticcera del mediterraneo europeo: una lezione di
incoraggiamento e di sprono per le donne che vogliono
conquistare il cappello bianco e consacrarsi regine
della cucina internazionale. |
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Monica
Scattini, addio al 'sorriso' del cinema
di Giuseppe Bosso
Aveva appena compiuto cinquantanove anni Monica Scattini,
frizzante ed apprezzata attrice scomparsa lo scorso 4
febbraio.
Appena un mese prima aveva partecipato ad Avanti un altro,
quiz show condotto da Gerry Scotti, ma negli ultimi giorni la
malattia che l'aveva da tempo colpita era tornata
prepotentemente a galla, costringendola al ricovero al
Policlinico Gemelli di Roma.
Figlia d'arte, capitolina di origini toscane nella sua
carriera si era distinta soprattutto in ruoli brillanti
nella classica commedia all'italiana, senza tuttavia
disdegnare anche ruoli drammatici ed intensi. Tra i registi
con cui ha lavorato, solo per citarne alcuni, Dino Risi,
Pupi Avati, Ettore Scola e Mario Monicelli,
che nel 1992 la diresse in Parenti serpenti, uno
dei suoi film più apprezzati.
Nel 1982 ebbe anche una parentesi americana, prendendo parte a
Un sogno lungo un giorno, diretta da Francis
Ford Coppola; l'anno seguente vince il Nastro d'argento
come miglior attrice non protagonista per Lontano da dove.
Importante è stato anche il suo impegno televisivo, a partire
dal fortunato La TV delle ragazze, idea di
Serena Dandini, che poté contare sull'apporto di altre,
promettenti e brillanti interpreti come Francesca Reggiani,
Sabina Guzzanti e Cinzia Leone. Negli ultimi anni
l'abbiamo spesso vista anche in fiction di successo come
Un ciclone in famiglia, Elisa di Rivombrosa
e Lo zio d'America.
Cordoglio e commozione ha suscitato la sua scomparsa tra
i colleghi che l'avevano maggiormente conosciuta e apprezzata,
da Simona Izzo ("Era un'attrice straordinaria, ha scelto
come vivere e come morire") a Carlo Verdone ("Una
persona sempre cordiale e col sorriso, una persona speciale,
era sempre tifosa degli altri, non l'ho mai sentita mai parlare
male di qualcuno, era una persona positiva, che ti spingeva a
volerle bene").
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