Telegiornaliste anno XVII N.
6 (656) del 17 febbraio 2021
Ilaria
Di Roberto, educare all’empatia
di
Giuseppe Bosso
Questa è la storia di una donna che non si è piegata alla
violenza subita, nelle forme più vili possibili, e che ha
voluto lanciare il suo grido al mondo. Intervistiamo Ilaria
Di Roberto.
Ilaria, anzitutto grazie per la disponibilità: come è
iniziata la tua difficile storia?
«Fin dalle scuole elementari sono stata vittima di bullismo,
ho sofferto di anoressia e poi sono scampata ad una violenza
sessuale rispondendo ad un’offerta di lavoro in un
ristorante, da parte di un cameriere che si era spacciato
per il titolare. Questa persona poi ha ricevuto una condanna
ad un anno e sei mesi dopo anni di processo, e si è conclusa
lì. Poi intorno al 2017 su Facebook ho conosciuto un ragazzo
con cui inizialmente si crea un bel rapporto di amicizia
virtuale, finché non inizia a chiedermi delle foto con dei
contenuti espliciti, e io per la prima volta in vita mia
accetto una richiesta del genere. Poi il nostro rapporto si
interrompe, e nel giro di una settimana inizio a ricevere da
parte di suoi amici messaggi pieni di allusioni che mi fanno
capire che quelle foto sono state divulgate, cosa che mi
conferma anche una sua ex fidanzata, e in seguito vengo a
sapere che questo è un suo modus operandi frequente, che ha
coinvolto anche una minorenne. Sporgo denuncia. Pochi mesi
dopo sempre su Facebook conosco un altro ragazzo, con il
quale però instauro un rapporto anche reale, al quale
confido la mia storia di vittima di revengeporn; dopo avermi
detto di provare sentimenti per me, decide di troncare
questo legame restando però in amicizia, non sentendosi
pronto per una relazione seria. Inizia a frequentare altre
ragazze, tra cui una che manifesta forte gelosia nei miei
confronti, soprattutto dopo che anche il loro rapporto si
era concluso. Nel giro di pochi giorni scopro che su un sito
pornografico esiste un mio profilo, molto volgare, con dei
fotomontaggi in cui erano state prese delle mie foto
pubbliche e incollate su corpi di donne nude. Anche questo
mio amico scoprì presto di aver subito l’hackeraggio del suo
profilo instagram, con annessi ordini a nostro nome di
materiale di quel genere. Non sporgemmo subito denuncia,
anche se i nostri sospetti si incentrarono ovviamente su
questa persona. Lui intanto si è cancellato dai social e mi
ha chiesto di segnalare l’eventuale esistenza si suoi
profili falsi».
Hai provato a chiedere giustizia, ma per la serie oltre
al danno la beffa a tua volta ti sei vista denunciata: senza
ovviamente entrare nel merito di vicende che sono ancora al
vaglio della magistratura, in te è più forte la delusione o
la determinazione a non piegarsi?
«Inizialmente c’era forte delusione per quello che stavo
subendo, per questo processo di estraneizzazione a cui ero
sottoposta: sono stata licenziata dal mio lavoro, e lo
scorso anno ci sono stati due tentativi di suicidio e mi
sono trovata coinvolta anche con una setta. Adesso sono in
psicoterapia, e ho iniziato a reagire. Molte donne vittime
di violenza si sono rivolte a me, e questo mi ha fatto
capire che la mia storia può e deve essere un monito per chi
ha subito violenza, trovando il coraggio di denunciare».
Non sei purtroppo la prima persona che finita in questa
spirale ha provato a chiedere l’intervento della giustizia,
che tuttavia non sembra dare risposte adeguate: anche alla
luce della tua esperienza, ti sei fatta un’idea del perché
persiste questo atteggiamento, diciamolo pure, di chiusura
rispetto ad esperienze come la tua?
«Partiamo dalla considerazione che viviamo in una società
patriarcale che tende ancora a privilegiare gli uomini; non
c’è ancora pieno riconoscimento della sessualità femminile
analogamente a quella maschile; le foto di un uomo che
circolano sotto sotto controllo, in ossequio a quella
concezione di “uomo=predatore” a cui è consentito avere
impulsi sessuali, che rendono la donna capro espiatorio, a
colpevolizzarla per aver subito violenza. Oltre a questo
aggiungiamo carenze legislative, per le quali il
cyberbullismo non è ancora un reato pienamente riconosciuto
e sanzionato, come è stato fatto per il revengeporn, dopo i
suicidi di Tiziana Cantone e Carolina Picchio, mentre il
cyberbullismo viene configurato dal nostro codice penale
attraverso altre fattispecie di reato. Qualche passo in
avanti è stato fatto con la legge 71 approvata anche con
l’impegno del padre di
Carolina Picchio. Ma anzitutto non ci sono leggi
contro la vittimizzazione, e qui bisognerebbe ritrovare lo
spirito che negli anni 70 si era manifestato dopo lo stupro
del Circeo, un fatto epocale nel processo di emancipazione
femminile. Le donne non devono più vergognarsi dei crimini
che subiscono».
Non ti sei fatta piegare e hai dato vita a una campagna
di sensibilizzazione: come si è svolta e quale riscontro
stai avendo?
«Ho inizialmente chiesto aiuto a un’associazione, il
Movimento contro ogni Violenza sulle donne A.P.S.,
e da loro sono stata subito accolta benissimo. Abbiamo
aperto una campagna di sensibilizzazione intitolata
Abbassa la voce, come la
canzone e il videoclip che l’ha promossa,
ispirata a un monologo contenuto nel mio precedente libro,
Anima, in cui mi sono presentata non come una
martire: Ilaria Di Roberto ha subito violenza, ma ha
reagito, è una scrittrice, è stata anche una ballerina,
prima di tutto una donna che ha delle passioni e voglia di
lottare. È l’arte la prima forma di lotta che permette di
superare ogni discriminazione, divisione o razzismo. Il
ricavato della canzone sarà devoluto all’associazione, per
continuare in questa lotta. Ho scritto anche un libro, Tutto
ciò che sono, presto pubblicato da Europa Edizioni,
un’autobiografia che racconta quello che ho vissuto
affrontando anche varie tematiche».
Queste forme di bullismo e di molestie tendono a
diventare sempre più perverse e invasive anche grazie al
supporto di tecnologie e social network che pur indirizzati
a facilitare le comunicazioni finiscono per diventare nelle
mani sbagliate delle vere e proprie armi: sarebbe secondo te
auspicabile introdurre anche nelle scuole dei veri e propri
corsi di “educazione alla tecnologia”?
«Sì, ma anche di empatia. Il primo problema è che le
persone, la società, tendono a proteggere le donne mettendo
loro delle ulteriori catene dalle quali andrebbero
semplicemente liberate. La donna vittima di violenza va a
denunciare, deve chiudersi in casa, evitare di vestirsi in
un certo modo, cambiare vita, amici, casa… è sempre la donna
che deve condizionare la propria vita sulla base di ciò che
subisce. I corsi sono comunque bene accetti, e io appena
sarà finita la pandemia spero di poter tornare nelle scuole
a raccontare la mia esperienza. Ma ripeto che la prima vera
educazione da fare è quella all’empatia, capire che dietro
lo schermo ci sono persone con sentimenti e sconfiggere la
crudeltà degli haters da tastiera. Anche con la creazione di
sportelli online della polizia postale, che possa
intervenire sul momento; è essenziale che ogni forma di
violenza venga debellata dalla radice, a partire da ciò che
la società identifica come "minuzie" (battute da
spogliatoio, sessismo, declinazioni inappropriate,
catcalling, ecc.) alle forma di violenza fisica e
psicologica preponderanti».
Qual è stato il riscontro che hai avuto dalle persone che
si sono rivolte a te, incoraggiate dalla tua storia?
«Non amo vantarmi di quello che faccio. Posso comunque dirle
che a me si sono rivolte molte donne, alcune anche con
malizia, nel senso che pensavano di trovare una rivalsa,
andare in televisione per raccontare la loro storia solo per
ottenere visibilità. Col tempo ho imparato a essere più
selettiva, distinguendo chi cerca davvero aiuto da chi
rincorre secondi fini. Ho aiutato molte donne a non
vergognarsi, a non soccombere di fronte a queste violenze
della società patriarcale che le vuole in catene, anche con
l’ausilio di avvocati e psicologi che collaborano con
l’associazione. Poter fare qualcosa per gli altri mi ha
aiutato a conoscere tante realtà, persone che stavano
perdendo l’autostima, e che hanno capito di non essere
sole».
Ilaria, nonostante tutto quello che hai vissuto e stai
vivendo, hai speranza nel futuro?
«Sì, credo nel futuro, nella possibilità che le cose
cambino, ma dobbiamo tornare in piazza a manifestare come le
femministe radicali negli anni 70 che ottennero il diritto
al voto e all’aborto, scardinando i diktat di questa società
e di stereotipi che sono ancora radicati, come il fatto che
nel 2021 le donne guadagnano ancora meno degli uomini. Per
cambiare bisogna anzitutto ricominciare a ribellarsi».