Telegiornaliste anno XVII N. 13 (663) del 14 aprile 2021
Enza
Alfano, comprendo e perdono la pazzia
di
Antonia del Sambro
Enza
Alfano ci ha abituati a libri che scavano dentro
l'animo umano e che raccontano di sofferenza e di rinascita,
di amore e di abbandono, di storia della letteratura e
insieme di uomini e di donne.
Perché ti ho perduto
suo ultimo lavoro è un vero e proprio viaggio alla scoperta
di una delle poetesse italiane più amate e chiacchierate. Un
libro da leggere tutto di un fiato e apprezzarne ogni
sfumatura. Abbiamo incontrato l'autrice e ci siamo fatti
raccontare qualcosa in più da lei.
Enza, bentornata su Telegiornaliste e grazie per avere
accettato di raccontarti alle nostre lettrici. Il tuo
ultimo, meraviglioso, libro Perché ti ho perduto parla
essenzialmente di polvere e di altare, di cadute e di
resurrezioni, di perdite e di nuovi inizi. Al centro, la
figura di Alda Merini che, nonostante le continue delusioni,
trova sempre il modo per ricominciare o meglio di amare. Da
dove sei partita per raccontare tutto questo e quanto ti è
piaciuto scrivere questo libro?
«Innanzitutto grazie per avermi invitata. La scintilla è
nata da lei, Alda Merini. Sono stata folgorata dalla sua
vita, dalla sua poesia, dalla sua follia, dalla sua
diversità, dal suo sguardo obliquo sul mondo, che le ha
permesso di trovare le parole per affermare il diritto
all’amore e alla felicità. Potranno leggerlo gli
appassionati di poesia ma anche chi ama le storie
romantiche, drammatiche, ricche di passione. La stesura di
Perché ti ho perduto mi ha tenuta impegnata per circa
due anni, tra la prima e la seconda riscrittura. Non era
facile confrontarsi con un personaggio così iconico e
popolare, per certi versi noto a tutti e che ha parlato
tanto di sé con una voce originale e perfettamente
riconoscibile, ma ho scelto di affrontare il rischio spinta
da un’urgenza interiore e dalla forte convinzione che ancora
ci fosse molto da dire e da disvelare. Mi sono immersa nella
sua vita, nelle latebre e nelle luci, attenta a non
lasciarmi fagocitare, prendendo le distanze e allo stesso
tempo col desiderio di fondermi con lei, assumendo il suo
punto di vista. Ho guardato l’inferno del manicomio, le
gioie e i dolori della sua Terra Santa, mi è sembrato di
varcare le soglie di un aldilà sconosciuto e fantastico. Mi
è molto piaciuto rispecchiarmi nella sua storia di donna, di
madre, di amante e soprattutto di artista che si interroga
sull’origine di una vocazione a cui bisogna abbandonarsi,
lasciando andare tutto il resto».
Alda Merini frequentava il cenacolo di Giacinto
Spagnoletti, amava l’arte, la poesia, la cultura; eppure la
sua condizione di donna, o meglio il suo “struggimento” di
donna è simile a quello di tante altre donne, anche meno
colte, meno preparate, meno propense a reagire al dolore.
Quindi, la condizione della tua protagonista, a tuo parere,
è una condizione universale, qualcosa di ancestrale a cui
ogni donna di qualunque estrazione e tempo è destinata
comunque?
«È la condizione di molte donne, la storia di conquiste
sempre difficili, di delusioni spesso in agguato, ma è anche
la storia particolare di una donna diversa, marchiata a
fuoco dallo stigma della malattia mentale. Alda Merini,
attraverso la sua poesia, la sua presenza mediatica, le sue
provocazioni, ha forgiato un’immagine di sé in cui riescono
a identificarsi moltissime donne. È questo il segreto della
sua popolarità».
Ovviamente il tuo libro parla anche e soprattutto di
perdita. Come si può spiegare questa cosa alle nuove
generazioni e in questa velocissima società 2.0?
«Abbiamo un debito di autenticità con questa generazione che
abbiamo cullato dentro troppe menzogne. Abbiamo censurato e
respinto le paure ancestrali, la sofferenza, la malattia, la
vecchiaia, la morte. La pandemia ci ha costretto a misurarci
con la nostra fragilità. È una sfida che si può vincere se
si ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome,
accettando lo schiaffo della vita quando arriva, senza
cedere alla tentazione di una resa. Il modello educativo
attuale è estremamente protettivo nei confronti dei giovani
ai quali si offre spesso una visione della vita edulcorata e
protesa alla conquista di beni effimeri che possono deludere
le aspettative di felicità. Alda Merini ha dovuto affrontare
la perdita dell’uomo che amava, la perdita della ragione, la
perdita della dignità ma non ha mai rinunciato a vivere, a
lottare e ad amare».
C’è tanto storia nel tuo lavoro letterario, ma insieme,
anche tanta immaginazione, tanta fantasia autoriale che
rende la lettura quasi qualcosa di onirico. Perché questa
scelta e quanta parte di te, come autrice, c’è in questa
storia che racconti?
«Ho scelto di scrivere un romanzo e non una biografia per
essere libera di interpretare i fatti e colmare con la
fantasia le lacune e le reticenze di una vita mai raccontata
fino in fondo, nonostante anche in questo la Merini sia
stata generosa. Sono stata attratta dalla parte più in ombra
della sua esistenza e mi sono infilata nelle crepe con
l’immaginazione e i miei sentimenti. In un gioco di
equilibri molto rischioso ho affidato alla sua voce una
parte di me mentre lei si affidava alla mia perché
raccontassi i suoi segreti».
Il potere salvifico della poesia esiste ancora? E chi
potrebbe essere, oggi, una erede naturale della Merini.
«Difficile immaginare un’eroina della diversità in cui vita
e opera possano convergere e confondersi in modo così
efficace. Credo molto nel potere salvifico della parola e
penso che in questo momento ne abbiamo tutti un’incredibile
necessità».
Enza, scegli una sola frase del tuo libro da regalare
alle nostre lettrici e dicci perché hai scelto proprio
questa.
«
Una pazza può maledire, può bestemmiare e pentirsi e
pregare meglio di una mistica e di una santa, perché Dio la
ascolta. Perché Dio ne ha pietà. Gli uomini no. Gli uomini
perdonano qualsiasi malattia, ma non la pazzia. Perché
chi legga questo libro possa comprendere e perdonare la
pazzia».