Telegiornaliste anno XIII N. 32 (542) del 8 novembre 2017
Simonetta
Caminiti racconta il libro Senti chi parla
di
Tiziana Cazziero
Incontriamo Simonetta Caminiti, scrittrice e giornalista, che
ci racconta del suo libro
Senti chi parla, edito da
Anniversary Books, scritto con Massimo M. Veronese, una
meravigliosa scoperta del meraviglioso mondo del doppiaggio
attraverso le storie e le voci dei suoi protagonisti.
Ciao Simonetta, grazie per questa chiacchierata. Senti
chi parla, un libro che racconta le voci del doppiaggio,
come nasce la voglia di scrivere su questo argomento?
«Massimo M. Veronese, eccellente giornalista de
Il Giornale,
ha sempre avuto la mia stessa passione: le grandi voci del
cinema. Ci siamo conosciuti proprio grazie a una mia rubrica
sui doppiatori, sulla testata online MP News, prima che io
cominciassi a collaborare con
Il Giornale; nell’estate
2011, io ero nella mia Calabria, e Massimo non lo avevo ancora
neanche mai incontrato di persona; mi inviò un sms
indimenticabile: “vuoi scrivere un libro sul doppiaggio con
me?”; non c’era ancora un’idea precisa ma di sicuro la voglia,
di entrambi, di realizzare qualcosa di unico su questo mondo
poco frequentato dai grossi media».
101 in frasi che hanno scritto la storia del cinema, cosa ha
significato lavorare a questo progetto e come pensi sia
cambiato il grande schermo negli ultimi anni?
«Intanto è stato un lavoro di selezione e rinunce: moltissimi
doppiatori eccezionali, dato l’impianto del libro, purtroppo ne
sono rimasti fuori; perché abbiamo deciso di partire dalle
frasi cult, quelle che non a tutti, nemmeno ai più bravi, è
capitato di pronunciare:
Io ti spiezzo in due in
Rocky,
Domani è un altro giorno in
Via col vento,
Io ho visto cose che voi umani non potete immaginare e
così via… i tormentoni, rigorosamente in italiano, del cinema
internazionale; poi è stato un lavoro senza sprechi di ricerca:
archivi di giornali (il libro è pieno di ritagli di vecchi e
splendidi articoli), interviste ai doppiatori, sana maieutica
nel tirar fuori da ogni storia (del singolo doppiatore) le
curiosità più gustose. Doveva essere un libro pop, non un testo
accademico, scritto in modo fresco e vivace. Quanto ai
cambiamenti del cinema negli ultimi anni, si potrebbero fare
riflessioni infinite, e forse retoriche: si sono centuplicati i
generi, gli stili, le voci; ma una rivoluzione, secondo me, è
il parziale trasferimento dei contenuti, del linguaggio, della
grammatica del grande schermo… in quello piccolo, di schermo,
cioè nelle serie televisive; che oggi vantano regie, cast,
sceneggiature e colpi di genio in nulla inferiori al cinema. E
che stanno influenzando il cinema stesso».
I doppiatori hanno un ruolo importante nel cinema, una voce
può secondo te essere complice del successo di un attore
internazionale?
«È successo per più di settant’anni, potrebbe accadere anche in
futuro; anche se il pubblico italiano oggi, un po’ per giusta
curiosità, un po’ cavalcando la moda snob contro l’arte dei
doppiatori, sostiene di gustarsi più di buon grado i film in
lingua originale. Ma Sylvester Stallone sarebbe stato così
amato senza le interpretazioni intime, inconfondibili, di
Ferruccio Amendola? E io mi sarei innamorata dell’architetto
squattrinato di
Proposta indecente se non fosse stato
per la vocalità di Roberto Chevalier? Per non parlare di
Giancarlo Giannini su Al Pacino, di Maria Pia Di Meo su Meryl
Streep».
Come e quando ti sei avvicinata al mondo del doppiaggio?
«Da bambina conoscevo a memoria le battute italiane di Rossella
O’Hara, e dei suoi comprimari in
Via col vento, a parte
tutti quelli dei personaggi Disney, naturalmente; ero
affascinata da queste voci mimetiche, capaci di infilarsi negli
occhi e nelle labbra di grandi star di Hollywood, o piccoli
caratteri nel cinema d’animazione: ero convinta che ci fosse un
mondo da scoprire, al riguardo. Quando ho cominciato a studiare
le lingue, all’università, ho coccolato per un po’ il sogno di
diventare traduttrice cinematografica: e ho unito i primi passi
nel giornalismo a questo mio piccolo sogno. Ho cominciato a
entrare nelle sale, a intervistare grandi voci. Anche
accompagnata da un bravo fotografo, Guido Gambardella, che ne
catturava le personalità col suo obiettivo. Era sempre
emozionante sentirli raccontarsi, aprivano bocca, rispondevano
alle mie curiosità… e davanti ai miei occhi si srotolavano
tutte le meravigliose storie che avevano doppiato. Tutti i
personaggi incredibili a cui avevano dato anima. In seguito, ho
intervistato anche star internazionali, ma devo dire che la
suggestione verso i doppiatori più interessanti non passa mai».
Ci racconti qualche aneddoto accaduto durante la stesura del
libro?
«Una grande voce italiana, una vera star del settore, quando le
raccontai l’inchiesta che io e Massimo avevamo intenzione di
fare, fu molto perplessa. E addirittura un po’ aggressiva:
sosteneva che il doppiaggio, come il mondo dei tenori, è fatto
per stare lontano dai riflettori, e che la nostra operazione
non sarebbe stata un successo. Oggi, è lei la più grande fan di
Senti chi parla, un volume così particolare che la
Biennale di Venezia gli ha riservato un evento tutto suo,
visitato dal ministro Dario Franceschini, e che finalmente
toglie dal buio questi grandi interpreti con un metodo mai
sperimentato prima. I media nazionali ne sono stati
affascinati, il pubblico ha amato questa operazione; e la
grande star di cui parlavo è molto felice».
Il libro è stato scritto con un collega, mentre Maurizio
Pittiglio si è occupato della parte illustrativa, com’è stato
affrontare questa collaborazione? Raccontaci questa esperienza.
«Maurizio Pittiglio era già l’autore di una mostra fotografica
dedicata al doppiaggio: ha lavorato, in questo senso, in
autonomia, e si è aggiunto a noi più tardi. La sua mostra,
AttorInvoce, è stata esposta all’Excelsior di Venezia
durante tutto il festival del cinema, quest’anno, e in più
svariate sue foto sono contenute nel libro. Un apporto prezioso
e un compagno di viaggio in più, cosa di cui siamo felici».
Giornalista, scrittrice, blogger, come concili tutte queste
attività?
«Preciso che come
blogger io mi limito quasi sempre a brevi post,
trasferendo i miei servizi giornalistici sulla mia piattaforma
online; o magari fotografie, frammenti dei miei racconti,
video, o piccole considerazioni. Ma sono pochi i post
congegnati proprio per il blog: non ho il tempo di fare la
blogger in senso stretto, e nessuna passione per la carriera da
influencer, che richiederebbe caratteristiche lontane dal mio
stile di vita; avevo blog tematici che non curo più, infatti, a
parte uno appena aperto su
Linkiesta.it, di cui sono orgogliosa: ma certo lì
non parlo di me stessa. Giornalista lo sono perché è una
professione che ho scelto fortemente, che svolgo da freelance
per diverse testate nazionali: uno dei vantaggi è che mi occupo
sempre di argomenti diversi, che attraverso le infinite
sfaccettature della narrazione senza che mi siano dati limiti:
ancora oggi posso occuparmi di cronaca nera e spettacoli nella
stessa settimana. Alla scrittura creativa, infine, mi dedico
nei periodi più distesi e ispirati. Scrivevo romanzi (io li
chiamavo così…) anche in terza elementare: è in assoluto la mia
passione più grande; tu mi chiedi come concilio le mie
attività; io penso che partano tutte dalla stessa emergenza di
esprimersi e di raccontare. Ecco perché tempi e metodi, alla
fine, si trovano sempre».
Prima di Senti chi parla hai pubblicato altre opere
in diversi generi, quanto pensi sia importante per un’autrice
spaziare nella scrittura?
«Un cronista, secondo me, deve sempre farsi le ossa e passare
per i diversi ambiti del racconto giornalistico: può
specializzarsi in qualcosa, come quasi sempre succede, ma è
giusto che abbia una formazione completa. Uno scrittore, al
contrario, dovrebbe scrivere quello che sente veramente, quello
che veramente, in lui, è un’emergenza artistica; non deve “per
forza” spaziare in generi diversi. A me è capitato di scrivere
cose molto disparate, con un romanzo di formazione e due
raccolte di racconti, perché in stagioni diverse della mia vita
ho avuto il desiderio e la necessità di misurarmi con storie e
contenuti che avevo dentro, e che evidentemente non si
somigliavano tra loro. Tutto qui».
Quali sono le caratteristiche essenziali di uno scrittore di
oggi?
«Non lasciarsi lusingare dalla dilagante banalità: dalle dure
leggi dell’aspirante bestseller, che spesso portano a
esperimenti velleitari e poco utili. E poi, secondo me, le
caratteristiche dello scrittore di sempre: leggere più che può,
saper aspettare, esigere originalità e sincerità da quello che
racconta. E soprattutto, avere una cura linguistica che non sia
poi delegata all’editor di turno. Avere un amore autentico e
felice per le Parole».
Com’è il tuo rapporto con i social? Pensi siano importanti
nel mondo editoriale oggi?
«Nell’editoria tout-court i social sono diventati
indispensabili: tutti hanno un profilo Facebook, tutti sono
perlomeno lambiti dall’informazione (o dalla promozione di
libri) online. Quanto ai singoli operatori dell’informazione e
ai singoli scrittori, io penso abbiano ancora il diritto di
fare l’uso dei social che assomiglia loro e li convince. Io ho
Twitter ma non lo uso (non lo amo); da pochissimo ho Instagram;
passo più tempo su Facebook, ma non punto a un seguito enorme
di persone che non conosco, e spesso con dispiacere rifiuto
richieste di amicizia per questa ragione: mi piace condividere
riflessioni personali senza dovermi poi calare in polemiche
infinite con persone di cui non vedo che nome e cognome (se va
bene); certamente promuovo i miei lavori di giornalista e
scrittrice, ma anche, raramente, pensieri e pezzi della mia
vita che non mi piace esporre a migliaia di sconosciuti. Cerco
ancora, insomma, di usare il mezzo, e di non farmi usare da
lui».