Telegiornaliste anno X N.
26 (414) del 7 luglio 2014
Fatiha Chakir, Aljalira per l'integrazione
di
Giuseppe Bosso
Nell’Italia sempre più multietnica e con una comunità islamica in costante
aumento anche il mondo della comunicazione inizia ad adeguarsi e a svolgere
la sua funzione di integrazione; nasce così Aljalira, primo spazio
informativo contemporaneamente in lingua araba e in italiano su un’emittente
italiana, che da marzo va in onda su
Lira tv, storica
emittente salernitana. A condurlo Fatiha Chakir, che nel capoluogo campano
ricopre l’incarico di vice presidente provinciale della consulta per
l’immigrazione.
Come nasce il progetto Aljalira?
«Da un’idea che hanno avuto il direttore di Lira tv Raffaele Budetti e il
direttore della Coldiretti di Salerno Salvatore Lofredda, che hanno deciso
di occuparsi non occasionalmente degli immigrati, ma di dedicare loro uno
spazio, primo in assoluto in italiano e in arabo; altre emittenti avevano
già sperimentato spazi in lingua araba, ma fini a loro stessi, senza spazio
per l’integrazione, che è invece l’obbiettivo primario che avevano in mente.
Farlo solo nella loro lingua non aiuta gli stranieri, che possono benissimo
far riferimento a Internet e alle loro testate. Se invece li aiuti a
interagire anche in italiano vai oltre».
È un esperimento che le tv locali possono seguire meglio dei canali
nazionali?
«Non lo voglio dire per piaggeria, ma direi che l’emittente del dottor
Budetti è quella che in questo momento ha maggiormente a cuore gli
stranieri, contrariamente ad altre emittenti, anche Rai e Mediaset, che a
loro hanno dedicato nient’altro che piccole ‘meteore’, spazi di breve
durata; Budetti ha avuto genio, ma anche cuore, in questo; un tg che non si
incentra sulla figura negativa dello straniero che viene messa in rilievo
per cose negative, ma che parla di immigrazione ‘buona’, quella che vuole
entrare a far parte del tessuto sociale, delle persone che vogliono farsi
conoscere come i ‘nuovi’ italiani. Un esempio che abbiamo trattato proprio
ultimamente è la Festa dei popoli, evento tradizionale di Salerno che per il
secondo anno consecutivo si terrà anche a Pertosa, località del Cilento,
grazie all’impegno di un ragazzo rumeno che si è particolarmente dato da
fare per questo trovando il massimo sostegno e l’appoggio delle istituzioni,
che hanno apprezzato la sua idea».
Inevitabilmente l’attualità impone di parlare dello sbarco avvenuto a
Salerno: come hai vissuto questo momento e quali credi saranno le
conseguenze?
«Episodio bruttissimo in cui abbiamo assistito a una vera e propria
tragedia; mi ha colpito, ma credo che sia stato così per tutti, vedere non
solo adulti ma anche tantissimi bambini e anziani, come non era mai
accaduto; ero stata a Lampedusa con la Protezione Civile e con l’OIM a San
Nicolavarco, ma in quelle situazioni erano per lo più uomini e pochissime
donne tra di loro. Adesso vediamo donne, anziani e bambini che con la loro
presenza testimoniano quando disperata sia la loro condizione di vero e
proprio stremo, con l’unica, per quanto di difficile realizzazione, speranza
nella fuga verso un’altra terra; l’unica alternativa alla morte in mare o
nei loro Paesi d’origine; ma purtroppo l’Italia non è pronta
all’accoglienza, per quanto volenteroso sia stato l’impegno della Caritas e
di quanti si sono attivati per loro; ma non basta questo: accoglienza vuol
dire anche far capire a queste persone che la volontà di dar loro le
possibilità che non hanno potuto avere nei loro Paesi richiede anche il loro
impegno a guadagnarsi la nostra fiducia con il lavoro e con l’integrazione
nel tessuto sociale. Se scelgono l’Italia come meta è puramente per una
questione geografica, visto che per lo scafista è innegabilmente più facile
attraccare qui che non in altri Paesi dove i controlli sono maggiormente
serrati; nelle persone con cui ho avuto modo di parlare ho purtroppo
riscontrato perdita di tutto, anche forse della dignità, provata
ulteriormente anche dai maltrattamenti sui barconi. Far rinascere speranza
in queste persone per gli italiani è forse più doveroso che per altri popoli
europei, avendo anche loro conosciuto un periodo di immigrazione e di
discriminazione in altre terre. Capisco che è facile dire: ma anche noi
italiani abbiamo i nostri problemi. Certo, ma non dobbiamo dimenticare che
nonostante tutto noi viviamo nella massima libertà, a differenza di loro che
a dispetto della tanto decantata ‘primavera araba’ scappano anche da
persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo, anche religioso; in definitiva
nei Paesi nordafricani c’è stato solo un cambio di dittatura che forse si è
dimostrata persino peggiore di quella dei predecessori deposti dagli
eserciti che hanno assunto il controllo».
Un tg come questo aiuterà l’integrazione?
«Senz’altro è uno strumento utilissimo. E lo dimostrano le tantissime
telefonate ed email che riceviamo dalle tante comunità presenti sul
territorio salernitano (senegalesi, rumeni, nigeriani, filippini,
srilankesi, marocchini solo per citarne alcuni) che hanno creato una vera e
propria rete. Ci ha particolarmente fatto piacere venire a conoscenza da
alcuni imprenditori che i loro dipendenti si organizzano in gruppo per
vedere Aljalira in modo che anche chi non ha il televisore possa farlo; agli
arabi sicuramente fa piacere anche sentire la loro lingua, ma siamo utili
anche per altre comunità che desiderano essere sempre informate su ciò che
accade a Salerno e dintorni».
Quali riscontri hai avuto dalla comunità islamica?
«Come ti dicevo al di là del nome arabo Aljalira è un vero e proprio tg per
tutte le comunità straniere presenti sul territorio salernitano, e in ogni
puntata abbiamo avuto modo di ospitare un referente; ma abbiamo ospitato
anche le istituzioni, gli enti locali che hanno aderito con interesse e
partecipazione; con la loro presenza vogliono far capire alle comunità
straniere di essere amici pronti al massimo dialogo. Il prefetto, il
questore, il rappresentante delle forze dell’ordine non devono più essere
visti come una figura pronta a sfruttarli, ma come un’autorità che è
preposta anche al loro servizio; la figura del ‘caporale’, bruttissima, non
sta solo nei campi o nelle fabbriche, ma anche ai piani alti. Ecco, è questo
che vogliamo eliminare nella loro concezione delle istituzioni. Indichiamo
anche bandi, scadenze, programmi: tutto quello che può servire perché agli
stranieri siano dati i mezzi per interagire e integrarsi. Aljalira deve
fungere da ponte tra comunità e istituzioni, non limitandosi solo a dare
notizie. Anche per questo siamo sempre disponibili per ogni comunicazione o
segnalazione di soprusi, di sfruttamento. È la risposta effettiva
dell’accoglienza».
Ti hanno mai chiesto di condurre con il velo?
«Sì. E ho risposto perché non lo faccio; Aljalira è un format aperto,
moderno, che vuole dare l’immagine della donna moderna, emancipata e
rispettosa dell’Islam, ma anche di se stessa; l’Islam vero non è
integralismo e jihad; non dimentichiamoci che il Corano stesso non parla di
chador e di velo, di coprirsi il capo; questo avviene durante la preghiera,
ma allo stesso modo del cattolicesimo, come facevano tanti anni fa gli
evangelisti con il foulard o le donne di un tempo che andavano in chiesa con
il capo coperto, o come adesso si va in Vaticano dal Papa. Il velo è una
scelta, non deve essere né un’imposizione né un riconoscimento di fede. Il
musulmano vero si riconosce con le azioni, è questo il messaggio che
cechiamo di trasmettere; l’Islam ‘buono’, che parla di pace, di amore e di
fratellanza come sostiene il Corano, al quale sono sconosciuti i concetti di
jihad e di guerra; basti pensare ai cinque pilastri dell’Islam, che sono
ancorati a questa idea; e uno di questi è l’elemosina, che, attenzione, non
è intesa come il gesto di regalare dei soldi al povero, ma essere buoni con
il prossimo, aiutare chi è in difficoltà; è per questo che non conduco con
il velo, sarebbe un segnale di accettazione dell’Islam integralista».
Barbara Serra, giornalista italiana che
lavora ad Al Jazeera, ci disse che
secondo lei non erano ancora maturi i tempi per una succursale italiana del
suo network, viste le differenze generazionali tra l’immigrazione inglese e
quella italiania: in futuro credi ci sarà questo spazio?
«Lo crede Budetti, che sta infatti lavorando anche per espandere il progetto
Aljalira, anche tramite i contatti che abbiamo avuto con un canale tematico
marocchino e altre emittenti. Attraverso questi ‘gemellaggi’ si può pensare
davvero in grande. Quanto all’aspetto generazionale, direi che siamo molto
avanti anche in Italia, ormai siamo in tanti figli di genitori immigrati
negli anni’70 nati in Italia che iniziano a loro volta ad avere figli. Al
Sud ci sono meno famiglie rispetto al Nord. In questo un ruolo importante lo
hanno ricoperto e continuano a ricoprirlo le scuole; è bello vedere che si
imparano anche i dialetti e che in questo modo il cittadino italiano capisce
che l’immigrato non è un qualcosa di cui avere paura. È stato bello, per
esempio, tempo fa, ospitare un rappresentante della comunità senegalese che
venne accompagnato da suo figlio, il quale fu molto contento della cosa e mi
disse che aspettava il giorno dopo per raccontare a scuola ai suoi compagni
di come suo padre avesse avuto la possibilità di essere invitato da Aljalira
come una grande soddisfazione».
Come ti sei trovata ad affrontare questa esperienza da telegiornalista?
«Innegabilmente ci sono state delle difficoltà all’inizio legate a questa
nuova iniziativa, soprattutto per farsi capire dalle persone che non hanno
potuto studiare e che quindi non capiscono l’arabo ‘classico’, la lingua
degli intellettuali e delle persone colte, ma il ‘dialetto’, il linguaggio
della strada; quindi nella prima parte, quella delle notizie, parlo l’arabo
‘classico’, nel senso che ti ho detto, mentre negli ultimi dieci minuti,
quelli dedicati all’ospite, mi esprimo in ‘dialetto’; lo scopo non è quello
di fare una bella figura parlando correttamente un linguaggio colto ma
quello di farci capire da quanta più gente possibile, senza ‘intermediari’
che possono magari avere dei loro interessi particolari. È anche a questa
novità che mirava Budetti».
Al di là di questa conduzione di tipo ‘istituzionale’ è un percorso che
pensi di seguire in futuro?
«Certamente, è un trampolino di crescita per un percorso che vorrei
proseguire».