Telegiornaliste
anno II N. 5 (37) del 6 febbraio 2006
Candido Cannavò, lo sport in persona
intervista di Antonella Lombardi
Candido Cannavò è nato a
Catania nel 1930. Inizia a lavorare come giornalista per il quotidiano La
Sicilia, poi come inviato speciale per lo sport per la Rai, e dal 1983
al 2002 è direttore della Gazzetta dello Sport.
Dopo averci raccontato diversi Mondiali, Olimpiadi e altri eventi sportivi, ha
scritto anche dei libri: Una vita in rosa, Libertà dietro le
sbarre,
E li chiamano disabili.
Nel 1996, durante i Giochi di Atlanta, il Cio gli ha conferito l’ordine
olimpico. Nel 1998 ha ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo. E' con
questa prestigiosa intervista che inauguriamo la nostra nuova rubrica di
sport, Olimpia.
A nome di tutta la redazione di Telegiornaliste vorrei farle
innanzitutto i complimenti per la sensibilità che ha dimostrato nel suo
libro, davvero molto interessante. E li chiamano disabili trasmette
al lettore la vitalità e la freschezza di sedici protagonisti di storie di
successo, che sfidano i limiti della propria natura come farebbe un vero
atleta. Si visitano le professioni più varie alla scoperta di chi, con esiti
sorprendenti, fa lo scienziato, lo scultore, il musicista, eccetera.
Il tema centrale del suo libro pone l’accento sul rapporto con l’altro da sé,
partendo dal deficit più grande: quello delle barriere mentali di chi non
vede storie di talento come queste. Non a caso lei riporta la frase di
Simona Atzori, ballerina, pittrice, nata senza braccia: «Penso talvolta
che i veri limiti esistono in chi ci guarda».
Con la stessa grazia e lucidità, lei si era già occupato, nel suo precedente
lavoro, Libertà dietro le sbarre, di un’altra umanità invisibile ai
più, quella dei detenuti.
C’è un episodio che più di altri l’ha spinta a
scrivere E li chiamano disabili?
«No, una ragione precisa non c'è. E' qualcosa, è una cultura che avevo dentro.
Poi ci sono stati alcuni incontri, quello sì. Uno è stato, per esempio,
nell'estate, non l'ultima, quella prima, a Jesolo sulla foce del Sile, dove
ho scoperto la barca di Andrea Stella; questa barca per i disabili che ora è
diventata un simbolo di come si dovrebbero realizzare tutte le cose della
città, tutti gli impianti. Lì ho conosciuto questo ragazzo e tutta questa
comitiva fantastica intorno a lui. Questo ha contribuito, sicuramente. Poi,
molto importante è stato l'incontro con Simona, la ragazza della copertina.
Così è venuta l'idea di scrivere di queste cose. Ancora non potevano avere
la dimensione di un libro. Poi via, via, sai, da una cosa ne nasce
un'altra».
Come è avvenuto l’incontro con la ballerina Simona
Atzori, ritratta in copertina?
«E' stata una casualità. Una domenica mattina, guardando la tv, mi imbatto in
un “festival delle abilità differenti” che viene fatto a Carpi, ogni anno. E
vedo un mio collega che conosco, Riccardo Bonacina, direttore di Vita,
un settimanale no-profit. E allora, vedendo questo programma, scopro questa
ragazza. Mi sono interessato, ho contattato per telefono Simona e sono
andato a trovarla a casa sua».
Prima
di accingersi a scriver,e o durante la stesura, ha avuto qualche momento di
esitazione per il timore di non riuscire a confrontarsi adeguatamente con
questo argomento?
«No, paura di confrontarmi, no. Per queste cose ho molta curiosità e, direi,
molta sensibilità di entrare in empatia con le persone. E poi, sai,
l'esperienza del carcere è stata ancora più dura, per certi versi, però,
anche più edificante. Qui invece è stato tutto dolce, tutto abbastanza
facile, ho trovato... come se ci fosse anche in loro il desiderio di
mostrarsi, di dire qualcosa senza pudore, quasi con orgoglio, si è capovolto
un po' il senso dell'operazione: non ero io che andavo a “stanare” loro, ma
erano loro che mi venivano incontro con tanto desiderio di dire quello che
stavano facendo, di mostrare il loro status, tutto l'opposto di quello che
si può pensare, cioè, che la gente si nasconda o che venga nascosta dai
genitori, come in qualche caso, avveniva prima o avviene tuttora.
Si sono capovolte molte cose. Quello che tu pensi che è sofferenza in loro è
diventato invece un fatto di orgoglio, di forza, per dire Guardate cosa
abbiamo fatto, guardate cosa possiamo fare. Noi non siamo delle persone da
compatire. Quindi per certi versi è venuta fuori una lezione anche per
molte persone sane che leggono il libro e ne ricavano quasi una frustata, e
dicono ma come faccio a lamentarmi io, per una piccola cosa, in mezzo a
questa gente che, invece, ha superato questi ostacoli».
Nel libro tutte le storie riescono, nella loro
varietà, ad affascinare il lettore, facendogli scoprire un’umanità
ricchissima e sommersa. C’è una storia che l’ha colpita particolarmente?
«Ma, sai, è difficile fare classifiche. Certo, ce ne sono alcune piccole ma
dolcissime, per esempio quella del regista Mirko Locatelli, oppure quella
dello scultore Felice Tagliaferri, che è quasi allegra; oppure quella della
notte da cieco con la scrittrice Maria Aiello. Poi ci sono le storie forti.
Le più forti sono quella di Claudio Imprudente, questo gravissimo disabile
che scrive libri, fa conferenze senza poter parlare comunicando attraverso
una lavagnetta di plexiglas, con gli occhi. E la stessa storia di Simona.
Poi c'è quella dello scienziato siciliano Claudio Frisone, dove, veramente,
c'è un personaggio da tragedia greca, un'eroina omerica che è Lucia, sua
madre, che è veramente un grandissimo personaggio, una donna di tutti i
combattimenti».
Secondo lei perché, sui giornali e nelle televisioni,
viene dedicato ancora così poco spazio ai disabili o se ne parla spesso in
maniera monocorde, usando termini pietistici?
«Perché c'è una cultura che ancora non ha fatto molto. Io penso che le nostra
apparizioni in tv siano servite. Abbiamo avuto molta attenzione da parte
della televisione su questo libro. Siamo stati trentacinque minuti a
Unomattina, venti a Domenica In, e poi il Tg1, il Tg2,
Sky, tutti ci hanno dato molto spazio. E anche i giornali. Sono piccoli
passi che però possono fare crescere questa cultura. Ed è una cosa continua,
perché adesso, per esempio, avrò fatto già trenta conferenze da quando è
uscito questo libro, ma arriverò a cento, centocinquanta, ho prenotazioni
fino a giugno...Adesso, a gennaio, capisci?».
Alla presentazione del suo libro, a Roma, c’era una
grande folla.
«Ma hai visto cosa si è creato a Roma? Te lo saresti mai immaginato? Quando ho
scritto questo libro c'erano dei colleghi che mi dicevano Ma di cosa ti
interessi? Di un libro sui disabili?. Invece questo sta diventando il
libro di mio maggior successo, anche se “successo” non è una parola che mi
piace tanto. Ma è un libro che ha già fatto cinque ristampe! Certo, non sono
i numeri delle barzellette di Totti, però se un libro sui disabili vende
30.000 - 40.000 copie è già una cosa grande, un successo enorme».
Ma soprattutto, la vera novità credo fosse l'atmosfera
festante e partecipata che c'era in Campidoglio.
«Sì, ma è stato sempre così. Se tu vedessi quello che è successo a Rieti, dove
c'è quel personaggio, il chirurgo, no? (Paolo Anibaldi, ndr). Lui è
di Rieti. Ecco, mi hanno detto che in una sala da quattrocento posti c'erano
cinquecento persone, quindi cento persone erano in piedi, in un clima mai
visto. Non è mai successo che la sala fosse così piena neanche quando è
venuto Pavarotti, o un altro artista o grandi personaggi. Quindi c'è un
sintomo, un interesse. E adesso, figurati, se ti faccio vedere il mio
carnet, io non so se ce la farò, perché ci sono anche le Olimpiadi, le
Paralimpiadi; nel periodo delle Paralimpiadi ho fatto conferenze da quelle
parti; poi vado in Sicilia a fine marzo, dove però sono già stato; ho fatto
sei presentazioni già in Sicilia, e appena sono arrivato per un appuntamento
a Catania ne son spuntati altri quattro, a Paternò, Piazza Armerina,
Siracusa ed Enna. Ad Enna addirittura mi stanno contendendo in due, una cosa
assurda! Veramente incredibile per certi versi».
A proposito di Paralimpiadi, in un momento in cui i
valori dello sport sono sempre più trascurati e le Olimpiadi stesse sono,
nel bene o nel male, organizzate da multinazionali, cosa, secondo lei, salva
ancora lo spirito dei Giochi Paralimpici?
«Il momento della verità, che è quello della competizione. Quando tu sei in
pista, stai affrontando una cosa, o quando c'è chi sale sugli anelli o c'è
una gara, in quel momento lo sport conserva tutti i suoi valori; poi
possiamo immaginare di essere nel 1920 o nel 2020, ma quello è un momento di
verità, il resto è contorno, professionismo, la popolarità porta denaro e il
denaro, poi, porta a forme di professionismo. Io non temo il professionismo,
perché c'è un professionismo buono, onesto che non è il diavolo. E' la
mistificazione, il doping, sono queste le cose da combattere».
Conosce già gli atleti che parteciperanno alle
Paralimpiadi? C’è qualcuno o qualche disciplina in particolare per cui
farebbe il tifo?
«Sai, queste invernali sono più limitate, mentre per le Olimpiadi estive faccio
sempre il tifo per l'atletica perché è lo sport di base e anche le
Paralimpiadi trovano esempi bellissimi, abbiamo dei begli atleti».
Il suo libro sembra aver dato uno scossone al modo di
trattare l’argomento disabili. Come se avesse rotto gli argini di una
mentalità consolidata che vorrebbe dividere “noi”, presunti abili, da
“loro”. Per noi spettatori che eravamo lì alla sua presentazione è stato
davvero emozionante. Come giudica questa grande partecipazione nei confronti
del libro e dei dibattiti che ne sono scaturiti?
«La mia gioia è questa. Se tu vedessi i messaggi che mi arrivano, da parte
della gente che ha letto il libro, sono pazzeschi. Simona Atzori, ad
esempio, dice delle frasi che sono scolpite: Io ho organizzato la mia
vita con due arti in meno. E allora? Che c'è di strano? Non mi manca nulla.
Se pensi anche a gente come Zanardi, senza gambe, e ti chiedi: Cosa manca
a questo ragazzo che le gambe le aveva ma che ha reagito così, dopo
l'incidente? Niente! Gioca, agisce, corre, viaggia, s'incazza, si
diverte, fa tutto. D'accordo, c'è la tecnologia che lo ha aiutato molto, ma
lo spirito è grande, grande, grande.
Adesso, non estremizziamo, facendo diventare un paradiso quello che
evidentemente resta, per certi versi, un dramma, però che si possano
ritrovare i valori della vita anche in uno stato di disagio, questo è
consacrato, secondo me. Non so se tu a Roma hai visto la Argentin (l'
assessore Ileana Argentin, consigliere delegato del Sindaco per le politiche
dell'handicap del Comune di Roma, ndr) tu sentila parlare... ma come può
gestire 3.500 disabili dell'area di Roma, come fa? E invece poi scopri di
essere davanti a un boss!».
Il dato che emerge con insistenza dalle sue pagine
mette in discussione la definizione stessa di handicap o di disabile,
propendendo piuttosto per “diversamente abili”. E’ un universo di cui spesso
si parla in termini di negazione, basti pensare a locuzioni come “non
vedenti”, “non udenti” ecc.
«Rispetto questo tentativo di rendere meno, come dire, rude, il modo di
rapportarsi al problema, però non ne farei la cosa principale, io non
riesco, in un discorso spontaneo, a dire Sei diversamente abile, mi
pare artificioso, non impianterò mai una polemica su questa cosa».
Secondo lei, il percorso intrapreso per affermare i
diritti dei disabili nella società italiana e nello sport è adeguato o
vorrebbe che si intervenisse anche in altri ambiti? E in che senso?
«Lo sport è una punta avanzata, per la verità si è andati molto avanti, le
Olimpiadi sono state un bel cuneo in questo, invece nel resto della
società... beh, piano piano bisognerà entrare in una dimensione diversa e
non dare per scontato che un paraplegico può fare solo il fattorino davanti
una porta o un cieco può fare solo il centralinista in una banca o al
Comune. Bisogna fare in modo di vedere i valori che sono dentro questa
realtà. La realtà che io mostro nel libro dimostra proprio questo. Questa è
la cultura che cresce, non è facile nel nostro mondo, dove tutto è
complicato e il lavoro è un mito anche per chi ha due gambe».
Infine vorrei chiederle: come vede oggi la posizione
delle donne nelle varie discipline sportive? In tal senso, vorrei proporle
una domanda da parte dell nostro direttore editoriale: parafrasando le
parole della canzone di John Lennon, Woman is the nigger of the world,
lei trova che la donna sia il negro dello sport?
«No, assolutamente, no, per carità. La donna è la regina ormai dello sport. A
parte che nel nostro Paese, in fatto di qualità ha superato l'uomo. Abbiamo
avuto un periodo, una congiuntura femminile per cui abbiamo fatto prime
pagine della mia Gazzetta con scritto: “W le donne”, con storie fantastiche
di campionesse, come qualità - intendo tecniche - le donne per certi versi
hanno superato anche l'uomo, non dico per appurare se è più veloce dell'uomo
o meno o cose del genere, queste cose non vanno inseguite, sono mostruosità,
però ormai il fascino dei personaggi femminili è un dato... Avete visto Sara
Simeoni, Debora Compagnoni, Manuela Di Centa, le ragazze della pallavolo e
della pallanuoto, Valentina Vezzali? Sono addirittura le cime dello sport.
Questo concetto è capovolto.
Anche le donne hanno una certa tendenza a sentire di dover dimostrare di più,
ma vedi adesso questa pattinatrice che è venuta fuori, Caroline Kostner che
porterà la bandiera alle Olimpiadi e che, secondo me, non ne aveva il
diritto perché è una ragazzina che è ancora alla sua prima olimpiade, mentre
c'è gente che ne ha fatto quattro. E' stata valorizzata tanto; voglio dire,
incidono anche fattori per le donne che, in certi casi, magari
ingiustamente, sfruttano il fascino femminile per creare magari qualcosa di
più suggestivo. Nel caso della Kostner, si sfrutta il fatto che è una
ragazza sicuramente bravissima, ma non ancora campionessa assoluta perché
non è all'altezza delle grandi, però fisicamente affascinante, con queste
gambe così lunghe e l'armonia che c'è nella sua danza; io l'ho vista
danzare. Questo è un elemento che ha portato a una scelta di grande
prestigio. Non c'è quindi discriminazione per le donne».
Meno male... almeno lì!
«Per carità, io sono un difensore delle donne e mi auguro un mondo gestito da
donne, dato che gli uomini hanno fatto già abbastanza guai!».
Come sognava, tra l'altro, Fellini con La città
delle donne... La nostra intervista si conclude qui, grazie infinite, è
stato gentilissimo!
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